12/05/2015
Gianluca Benamati
Taricco, Tidei, Taranto, Carra, Bini, Senaldi, Cenni, Scuvera, Lacquaniti, Venittelli, Bargero, Romanini,Antezza, Mongiello, Galperti, Terrosi, Arlotti, Martella, Portas, Berretta, Baruffi, Camani, Basso, Bazoli, Bergonzi, Paola Bragantini, Brandolin, Vico, Cani, Capone, Marrocu, Bonomo, Capozzolo, Ginefra
2-00966

I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro dello sviluppo economico, per sapere – premesso che: 
a partire dal 2009 il Parlamento italiano ha portato avanti numerose iniziative legislative, di indirizzo politico e di indagine e volte a tutelare i prodotti del «made in Italy» ed assicurare la giusta efficacia alla lotta alla contraffazione: 
a) l'articolo 16 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito con modificazioni dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, ha chiarito che si intende realizzato interamente in Italia il prodotto o la merce, classificabile come made in Italyper il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano, introducendo una precisa regolamentazione dell'uso di indicazioni di vendita che presentino il prodotto come interamente realizzato in Italia, quali «100 per cento made in Italy», «100 per cento Italia», «tutto italiano» o simili; 
b) l'articolo 15 della legge 23 luglio 2009, n. 99, ha introdotto norme che mirano a rafforzare la tutela della proprietà industriale e gli strumenti di lotta alla contraffazione, anche sotto il profilo penale; 
c) con la legge 8 aprile 2010, n. 55, sono state dettate disposizioni concernenti la commercializzazione di prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri, anche con riferimento alla riconoscibilità e tutela dei prodotti italiani, prevedendo l'uso dell'indicazione made in Italy esclusivamente per i prodotti le cui fasi di lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio italiano; 
d) la legge 3 febbraio 2011, n. 4, ha inserito norme sull'etichettatura dei prodotti alimentari con la finalità di difendere e promuovere il sistema produttivo italiano; 
e) la legge 14 gennaio 2013, n. 8, ha successivamente dettato le nuove regole per la definizione, la lavorazione e la commercializzazione dei prodotti di cuoio, pelle e pelliccia, ove si prevede che, per i prodotti ottenuti da lavorazioni in Paesi esteri che comunque utilizzano la dicitura italiana dei termini «cuoio», «pelle» e «pelliccia», l'etichetta debba indicare lo Stato di provenienza; 
f) nella seduta del 22 gennaio 2013 la Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale, istituita durante la XVI legislatura, ha approvato un'imponente relazione conclusiva oltre, alla relazione sulla pirateria digitale in rete e ad altri documenti settoriali; 
g) il 26 giugno 2014, la Camera dei deputati ha istituito la Commissione parlamentare d'inchiesta sui fenomeni della contraffazione, della pirateria in campo commerciale e del commercio abusivo; 
h) la mozione 1-00529 dello scorso luglio 2014, ha impegnato il Governo a monitorare l’iter del regolamento relativo almade in, affinché il Consiglio dell'Unione europea proceda velocemente alla sua approvazione; 
i) l'articolo 30 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, ha introdotto il Piano straordinario per il rilancio del made in Italy e l'attrazione degli investimenti, che è stato presentato dal Ministero dello sviluppo economico il 26 febbraio ed è articolato in complessive 10 misure, di cui 5 da attuarsi in Italia (potenziamento grandi eventi in Italia, Voucher Temporary Export Manager, Formazione Export Manager, Roadshow per le piccole e medie imprese, Piattaforma E-Commerce per le piccole e medie imprese) e 5 all'estero (Piano GDO, Piano speciale mercati d'attacco – es. USA –, Piano «Road to Expo», Piano comunicazione contro Italian Sounding, Roadshow attrazione investimenti); 
la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del settembre 2010 ha precisato che tutte le disposizioni della citata legge 8 aprile 2010, n. 55, possono considerarsi applicabili solo successivamente all'esperimento della procedura di informazione comunitaria ai sensi della direttiva 98/34/CE e che tale legge non può considerarsi applicabile sino a quando non siano adottate le necessarie norme attuative previste dall'articolo 2 della legge medesima; 
la legge n. 55 del 2010 è in vigore dal 1o ottobre 2010, ma, ad oggi, risulta inattuata a causa delle perplessità sollevate, per ragioni formali e sostanziali, dalla Commissione europea che ha evidenziato come la sua applicazione determinerebbe un conflitto tra norme nazionali e norme comunitarie poiché nessun Paese membro può assumere autonomamente modalità tecniche di determinazione dell'origine divergenti rispetto a quelle Europee in uso poiché ciò significherebbe ostacolare la libera circolazione dei prodotti; 
la sospensione della disciplina dettata dalla legge n. 55 del 2010 si inquadra nello scontro aperto in Europa tra Paesi manifatturieri, soprattutto del Sud Europa (Italia, Francia, Spagna) e Paesi del Nord che, o producono molto all'estero (come la Germania) o non producono affatto, ma hanno i porti in cui arriva gran parte del nostro import da Cina e Far East e che in ogni caso, non vogliono troppa tracciabilità; 
tale scontro è dato dalla presentazione, il 16 dicembre 2005, di una proposta di regolamento presentata dalla Commissione europea (COM(2005)661), relativa all'indicazione del Paese di origine di alcuni prodotti industriali (come viti, bulloni, utensileria, tubi e rubinetterie, pneumatici, ceramica, tessili) importati da Paesi terzi, che non è mai stata discussa dal Consiglio; 
il Parlamento europeo dal 2007 al 2013 ha adottato numerose dichiarazioni e risoluzioni per sollecitare la Commissione europea e il Consiglio ad attuare una politica di tutela dell'origine dei prodotti europei, ma il 16 aprile 2013 la Commissione europea ha ritirato la proposta di regolamento sull'obbligo di indicazione dell'origine per alcuni prodotti importati da Paesi extra Unione europea (cosiddetto made in), presentata nel dicembre 2005 su iniziativa italiana con l'obiettivo di rendere più trasparenti per i consumatori le informazioni sull'origine dei prodotti e assicurare parità di condizioni tra i produttori europei e quelli di Paesi terzi che già dispongono di una legislazione analoga; 
nel settore alimentare il regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, che si applica dal 13 dicembre 2014, obbliga alla fornitura di informazioni sugli alimenti, con particolare riguardo alla tabella nutrizionale e all'indicazione d'origine solo per una parte degli alimenti; 
ad eccezione delle regole che sono state fissate per alcuni settori e per le denominazioni di origine, per tutti gli altri prodotti si è preferito affermare un diverso principio, per cui l'indicazione obbligatoria è resa tale solo nel caso in cui la sua omissione possa indurre il consumatore in errore circa l'effettiva provenienza del prodotto alimentare, così come delineato dall'articolo 3 della direttiva 2000/13/CE, confermato dal regolamento (UE) n. 1169/2011; 
l'indicazione d'origine dei prodotti può essere positivamente conseguita anche con la diffusione di tecnologie in grado di offrire la tracciabilità dell'intera filiera attestata da sistemi non seriali e non replicabili, al fine di consentire ai consumatori finali di conoscere la vera origine dei prodotti italiani, alimentari e non alimentari, e di ricevere un'adeguata informazione sulla qualità dei componenti e delle materie prime, nonché sul processo di lavorazione delle merci e dei prodotti finiti e intermedi made in Italy o interamente realizzati in Italia; 
il 15 aprile 2014 il Parlamento europeo ha approvato con larghissima maggioranza (485 voti a favore, 130 contrari e 27 astensioni) il pacchetto legislativo per la tutela dei consumatori europei da prodotti falsi e nocivi. La nuova disciplina impone di apporre il made in sia ai prodotti non alimentari realizzati in Europa che a quelli extraeuropei, ma prima che l'obbligo diventi effettivo è necessaria l'approvazione del Consiglio dell'Unione europea; 
l'etichetta made in sarà, quindi, obbligatoria per tutti i prodotti venduti nell'Unione europea, con alcune eccezioni come il cibo e i medicinali; secondo la proposta approvata, i produttori dell'Unione europea potranno scegliere se mettere sull'etichetta la dicitura «made in EU» oppure il nome del loro Paese. Per le merci prodotte fuori dall'Unione europea, il «Paese di origine» dovrà essere quello in cui il bene ha subito «l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata», che si sia conclusa con la «fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione» (come definito nel codice doganale dell'Unione europea); 
nella relazione programmatica sulla partecipazione dell'Italia all'Unione europea per il 2014, il Governo italiano ha ricordato l'importanza che annette, ai fini della competitività del sistema industriale italiano, all'introduzione di un'indicazione di origine dei prodotti non alimentari ma l'obbligatorietà di tale indicazione – contenuta all'articolo 7 della proposta di regolamento relativa alla sicurezza dei prodotti – non ha incontrato, tuttavia, l'unanime accordo degli Stati membri; 
alla luce di ciò, l'Italia, durante il proprio semestre di presidenza, ha accordato ai Paesi del Nord Europa l'esecuzione di uno studio di impatto sui costi/benefici dell'introduzione del «made in», studio che non è stato ancora ufficialmente diffuso, ma che secondo fonti di stampa avrebbe dato pareri discordanti in base ai settori merceologici, nei quali sarebbero favorevoli soprattutto i comparti di ceramica, calzature e tessile/abbigliamento; 
secondo le stesse notizie di stampa, il Governo italiano avrebbe chiesto al Presidente Juncker di rinviare la decisione dei commissari al Consiglio competitività previsto il prossimo 28 maggio 2015, dove il Viceministro dello sviluppo economico (con delega al commercio internazionale), Carlo Calenda, presenterà una proposta di mediazione consistente nella possibilità di un «made in» circoscritto ad alcuni settori, che diventerebbero 5 – ceramica, calzature, tessile ma anche legno arredo e oreficeria – senza distinzione tra piccole o grandi imprese e un periodo di sperimentazione dell'etichetta obbligatoria di tre anni, per poi fare il punto della situazione; 
il 6 maggio 2015, secondo indiscrezioni provenienti dalla Commissione europea, sarebbe stato deciso di proporre per il Consiglio di competitività dell'Unione europea previsto il 28 maggio 2015, una soluzione di compromesso che prevederebbe l'applicazione del Regolamento in questione limitatamente a tre settori (tessile-abbigliamento, ceramico e calzaturiero); 
tale compromesso, se confermato, penalizzerebbe altri due settori certamente non secondari per l'industria manifatturiera nazionale, quello del legno-arredo e quello dell'oreficeria –: 
quali siano le informazioni in possesso del Governo sull’iter del regolamento relativo al «made in», e quali siano le richieste dell'Italia al Consiglio di competitività dell'Unione europea per tutelare e valorizzare i prodotti dell'industria manifatturiera italiana il cui export, secondo i dati forniti dal Viceministro Calenda, ha raggiunto nel 2014 la cifra record di 398 miliardi di euro.

 

Seduta del 22 maggio 2015

Illustra Luigi Taranto, risponde Carlo  Calenda, Viceministro dello sviluppo economico, replica Gianluca Benamati

Illustrazione

Signora Presidente, signor Viceministro, il testo dell'interpellanza ripercorre sinteticamente le tappe storiche dell'azione parlamentare e di governo dell'ultimo decennio sul terreno degli impegni a tutela del made in Italy e per la prevenzione ed il contrasto della contraffazione. 
Di questa azione si rammenta, in particolare, l'incrocio critico e complesso con il diritto comunitario e con il principio di convergenza comunitaria delle modalità tecniche di determinazione dell'origine a vantaggio della libera circolazione dei prodotti. E si sottolinea, ancora, come norme e principi abbiano puntualmente registrato l'intensità del confronto (e non di rado anche dello scontro) tra i Paesi manifatturieri dell'Europa mediterranea ed i Paesi continentali e del Nord Europa con forti quote di produzione delocalizzata o sede delle principali piattaforme logistiche di approdo e transito dell’import manifatturiero proveniente dal far east. 
Così, ad esempio, nonostante le dichiarazioni e le risoluzioni adottate dal Parlamento europeo, tra il 2007 ed il 2013, per sollecitare Commissione e Consiglio all'attuazione di una politica di tutela dell'origine dei prodotti europei, è soltanto nell'aprile del 2014 che viene registrato un significativo punto di svolta, con l'approvazione da parte del Parlamento europeo e a larghissima maggioranza, del noto pacchetto legislativo per la tutela dei consumatori europei da prodotti falsi e nocivi, nel cui ambito è ricompresa la previsione dell'obbligo di apposizione del made in ai prodotti non alimentari sia realizzati in Europa che extraeuropei, previa approvazione dell'obbligo da parte del Consiglio dell'Unione. 
Come è noto, alla scelta maggioritaria (e largamente maggioritaria) del Parlamento europeo non corrispondeva però di certo l'accordo unanime degli Stati membri dell'Unione. Vale la pena di ricordare che, consapevole dei rischi di azioni dilatorie della scelta operata dal Parlamento europeo, proprio questa Camera impegnava il Governo – tra l'altro con la mozione d'Aula presentata dal gruppo del Partito Democratico ed approvata nella seduta del 10 luglio 2014 -«a monitorare, nell'ambito del semestre di Presidenza italiana del Consiglio dell'Unione europea, l'iter del regolamento relativo al made in». 
Come è altresì noto, nel corso del semestre veniva comunque deciso di procedere ad uno studio di analisi dei costi e dei benefici dell'adozione del regolamento, i cui esiti recenti avrebbero evidenziato – secondo le notizie di stampa fin qui circolate – risultati settorialmente differenziati, con benefici particolarmente rilevanti per i comparti della ceramica, delle calzature e del tessile/abbigliamento. 
Tali risultati hanno indotto ad ipotizzare una soluzione di compromesso, da discutere in occasione del Consiglio competitività dell'Unione, previsto per la fine di questo mese, consistente nell'applicazione del regolamento appunto a tali settori e con richiesta da parte italiana, per quanto è stato riportato dalla stampa, di estensione di tale applicazione almeno ai comparti del legno-arredo e dell'oreficeria. 
Su questi elementi gli interpellanti richiedono, dunque, al Governo informazioni circa l'iter del regolamento e sulla posizione negoziale del nostro Paese, in vista del Consiglio competitività del prossimo 28 maggio. Lo facciamo memori delle considerazioni di esordio del Documento di economia e finanza del 2015, memori della considerazione sulla speciale finestra di opportunità, che si configura per il nostro Paese, per riprendere a crescere ad un ritmo sostenuto. Cogliere le potenzialità di una simile finestra significa anche, sul piano dell'analisi, recepire quanto annota proprio il programma nazionale di riforma, osservando che la globalizzazione ha determinato opportunità e sfide nel cui ambito tutte le economie avanzate hanno registrato perdite di quote di mercato. 
Ciò non toglie che l'Italia resti uno dei principali esportatori mondiali e ciò non toglie, soprattutto, che il suo posizionamento nel livello più alto di qualità in tutti i principali settori d'esportazione, anche tradizionali, può ben spiegare non soltanto la resilienza delle esportazioni italiane, ma anche porsi come presupposto solido degli obiettivi quali-quantitativi del piano straordinario per la promozione del made in Italy, a partire dagli obiettivi dell'incremento del flusso di export, per circa 50 miliardi nell'arco di un triennio, e dell'obiettivo dell'incremento del numero di imprese stabilmente esportatrici di circa 20 mila unità. 
Analisi convergenti sono state sviluppate da fondazione Symbola, da fondazione Edison ed Unioncamere. Sulla resilienza delle esportazioni italiane è tornato, negli scorsi giorni, anche il rapporto Istat, mentre il rapporto ICE-Prometeia, presentato giusto nella giornata di ieri, stima una crescita del nostro export, tra il 2015 ed il 2017, del 5,8 per cento all'anno. In particolare, già quest'anno lo stock di export potrebbe superere i 500 miliardi di euro ed il numero di imprese esportatrici, seppure non stabilmente esportatrici, risulterebbe in incremento di circa 10 mila unità. Inoltre, la ripresa dei mercati maturi potrebbe giovare al nostro export in ragione, appunto, di una domanda indirizzata versi beni sofisticati e ad alta intensità tecnologica, settori per i quali, diciamo, la regolamentazione del made in appare, dunque, particolarmente utile ed opportuna. 
Le opportunità, dunque, non mancano. Serve il contributo di buone politiche e della responsabilità politica. Serve che la regolamentazione del made in avanzi, avanzi sia pure in versione selettiva e con un eventuale periodo di sperimentazione, ma con un approccio che, comunque, ricomprenda, senza esclusioni, imprese piccole, medie e grandi. 
Per questo, a nostro avviso, vale la pena di ribadirlo, a pochi giorni dallo svolgimento del Consiglio competitività: l'opportunità del regolamento sul made in va colta. Va colta in coerenza con i rilievi della Commissione europea, richiamati nel documento sugli squilibri macroeconomici dello scorso mese di marzo e con la segnalazione, in quel contesto, della necessità di un recupero italiano di quote di export nei settori dei beni scambiabili. 
L'auspicio è, dunque, che il Consiglio competitività del prossimo 28 maggio possa essere annoverato tra le date di riferimento del cronoprogramma di un'Europa che sceglie concretamente di stare dalla parte delle ragioni dei consumatori e della tutela della qualità del suo sistema produttivo. Come si legge nei documenti preparatori del consiglio: più sicurezza per i consumatori, più certezza per le imprese, più cooperazione tra le autorità competenti. Siamo certi che, rispetto a questi principi, la posizione negoziale del nostro Paese si muoverà con la necessaria determinazione.

Risposta del governo

Grazie, Presidente. Il Governo italiano segue sin dall'inizio con estrema attenzione il negoziato in corso sulla proposta di regolamento in materia di sicurezza dei prodotti di consumo e, in particolare, il suo articolo 7, relativo all'etichettatura obbligatoria dei prodotti cosiddetti made in, fortemente voluta da ampi settori dell'industria e dai consumatori. 
Il negoziato in Consiglio UE, iniziato nel mese di febbraio 2013, ha visto l'Italia sostenere la proposta della Commissione e schierarsi a favore del made in insieme a dieci Stati membri like-minded (Francia, Spagna, Portogallo, Romania, Bulgaria, Croazia, Slovenia, Malta, Grecia e Cipro). 
Il 15 aprile 2014, il Parlamento europeo ha approvato, in prima lettura, la proposta di regolamento, esprimendosi a favore dell'articolo 7. Il voto del Parlamento europeo ha rappresentato un elemento molto importante dal punto di vista del sostegno politico, ma non è stato tale da influenzare la posizione dei sedici Stati membri contrari al made in in seno al Consiglio. 
Il 16 settembre 2014 la Presidenza italiana, a seguito della richiesta formulata da numerose delegazioni, ha acquisito dalla Commissione la disponibilità a svolgere uno studio che potesse fornire ulteriori elementi informativi sugli effetti dell'articolo 7 sui consumatori. A seguito di tale richiesta, la Commissione ha commissionato uno studio alla società VVA Europe, successivamente distribuito agli Stati membri il 7 maggio 2015. 
A tal riguardo, si sottolinea che nelle settimane subito precedenti alla presentazione, l'Italia ha svolto un'intensa azione di sensibilizzazione sulla Commissione, affinché lo studio venisse utilizzato come uno strumento che, nel fornire gli elementi integrativi richiesti, potesse consentire agli Stati membri di trovare un compromesso. Il Ministro dello sviluppo economico, Federica Guidi, ha inviato proprie lettere in tal senso alle Commissarie Bienkowska (Industria, mercato Interno) e Jourova (Giustizia, Consumatori). Similmente, una dichiarazione congiunta, promossa dall'Italia, è stata sottoscritta a livello di rappresentanti permanenti aggiunti presso l'Unione europea da altri dieci Stati membri, amici del made in (Bulgaria, Cipro, Grecia, Spagna, Francia, Croazia, Malta, Portogallo, Romania e Slovenia). 
Il 6 maggio, grazie soprattutto all'azione del Governo italiano, il collegio dei Commissari dell'Unione europea, sulla base delle risultanze dello studio, ha confermato la propria posizione in favore del mantenimento dell'obbligatorietà dell'indicazione d'origine nella proposta legislativa, esprimendosi, al fine di promuovere un compromesso, in favore di una limitazione settoriale dell'ambito di applicazione e dell'introduzione di una clausola di revisione. 
Il 7 maggio, al termine della riunione dei Commissari europei, il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha inviato una lettera al Presidente della Commissione Juncker, chiedendo formalmente che alla decisione del giorno prima fossero assicurati i necessari seguiti. 
Sentite, quindi, le delegazioni degli Stati membri e la Commissione, il 13 maggio, la Presidenza lettone ha proposto, come compromesso, la limitazione del campo di applicazione ai soli settori calzature e ceramica, proponendo, inoltre, una clausola di revisione sulla base della quale la Commissione, dopo un periodo di tre anni dall'entrata in vigore del regolamento, dovrebbe esaminare l'efficacia della norma e presentare un rapporto di valutazione. 
Da parte del Governo, si concorda con la proposta della Presidenza che tiene conto delle risultanze indiscutibilmente favorevoli emerse per i due settori dall'introduzione dell'obbligo dell'etichettatura di origine, sia per il basso impatto in termini di costi aggiuntivi che in ragione dei benefici che potrebbero ottenere le imprese del settore. 
Dall'approccio individuato di analisi delle specificità settoriali, emergono infatti le seguenti caratteristiche comuni: i due settori sono regolamentati da discipline che già prevedono determinati obblighi di etichettatura di conformità, cui sono associati compiti di vigilanza del mercato. Addirittura, in tali casi, lo studio ha evidenziato che i costi di tracciabilità dell'indicazione di origine sono sostanzialmente bassi o nulli in quanto i costi delle attività di controllo sono riconducibili ed assorbiti da quelli già previsti per la conformità. 
Analogamente, i costi di adattamento per i produttori sono bassi, avendo già l'onere di etichettare i prodotti per la conformità, tant’è che l'indicazione di origine viene apposta, nella maggioranza dei casi, in maniera del tutto volontaria e corrispondente a quella del Codice doganale. 
In terzo luogo, l'etichetta di origine, come evidenziato dagli stessi stakeholder, sarebbe inoltre vantaggiosa al fine evidenziare gli elevati standard di produzione cui i produttori europei sono soggetti rispetto alla concorrenza dei prodotti a basso prezzo provenienti da fuori dell'Unione europea, sprovvisti di marchi e di indicazioni di origine. 
Un'altra caratteristica comune ai settori in questione è la prevalenza a livello europeo di piccole e medie imprese che hanno catene di fornitura non complesse, i cui prodotti si rivolgono ad una fascia di consumo di massa, prive quindi di un marchio conosciuto. 
Tuttavia, riguardo alle evidenze che emergono dall'analisi delle caratteristiche dei due settori indagati, va rilevato che le stesse sono identiche alla maggioranze delle imprese del tessile, costituite da piccole e medie imprese, e che, come documentato nello studio, troverebbero giovamento dalla riconoscibilità del marchio di origine presso il consumatore e combatterebbero più facilmente la contraffazione dei loro prodotti. 
Le stesse caratteristiche appartengono concretamente anche al settore della gioielleria, che si caratterizza per la semplificazione della catena di approvvigionamento e delle fasi di lavorazione e si avvantaggia, tra l'altro, del marchio di identificazione nel quale è presente il numero caratteristico attribuito all'azienda assegnataria e la sigla della provincia dove la stessa ha la propria sede legale. 
Analogamente anche il settore del legno arredo possiede caratteristiche simili a quelle dei settori selezionati per l'indagine, dimostrando così di poter avere benefici netti dall'obbligo dell'indicazione di origine. A livello dell'Unione, infatti, vige il regolamento n. 995 del 2010 – entrato in applicazione il 3 marzo 2013 – che impone alle imprese l'obbligo di garantire la tracciabilità del legno e dei prodotti da esso derivati, al fine di evitare l'immissione sul mercato UE di legname tagliato illegalmente e dei prodotti da esso derivati. A tal fine vengono tracciati lungo tutta la filiera tramite un registro dei fornitori e dei clienti. Nell'ambito di tale tracciabilità è facilmente inseribile un'indicazione di origine anche dei prodotti del legno arredo. 
Per tali ragioni, in preparazione del Consiglio competitività del 28 e 29 maggio, la delegazione italiana a Bruxelles ha tenuto necessario rimarcare in sede Coreper come proprio l'analisi delle caratteristiche settoriali emersa dallo studio induca a ritenere assimilabile al perimetro dei possibili settori oggetto di compromesso anche quello tessile, dove a livello europeo operano soprattutto PMI, quello della gioielleria e quello del legno arredo. 
Su questa proposta l'Italia, insieme agli altri Paesi like minded, ha avviato una fortissima attività di pressione sugli Stati ancora contrari per raggiungere un accordo in vista del Consiglio competitività del 28. Quest'azione vede il lavoro congiunto del Governo ai massimi livelli della nostra rappresentanza a Bruxelles e delle associazioni del mondo industriale, in particolare verso la Germania, che inspiegabilmente, essendo un grande Paese manifatturiero, guida il fronte del «no». Al momento il fronte del «no» appare ancora compatto, ma le iniziative proseguiranno fino all'ultimo momento utile. È stata inoltre chiarito alla Presidenza e alla Commissione che l'eventuale mancato accordo sull'articolo 7 metterebbe inevitabilmente a rischio l'approvazione di tutto il pacchetto sicurezza.

Replica

Grazie, Presidente, noi non possiamo che prendere atto positivamente del lavoro e dell'impegno che il Governo sta approfondendo in maniera così chiara e netta nella difesa di un tema chiave per l'economia del nostro Paese. Tutelare i prodotti italiani, tutelare la qualità italiana, significa difendere la produzione nazionale, ma anche, come sentivamo anche nella replica del Viceministro, tutelare con forza la salute e il benessere dei consumatori nazionali ed europei. Consentire, quindi, il riconoscimento della provenienza e, magari, avere più informazioni sulla vita di un prodotto, anche mediante forme di tracciabilità, significa non solo soddisfare interessi economici, ma – questo va detto chiaramente – anche tutelare la nostra salute. Questo non si limita, come sarebbe intuibile, al settore agroalimentare, ma investe anche la maggior parte delle categorie merceologiche. Basti pensare ai giocattoli, ai vestiti che indossiamo e ai medicinali che assumiamo. 
Ogni sforzo in questa direzione è uno sforzo economicamente vantaggioso, ma anche eticamente e moralmente corretto. Sappiamo che la piaga del falso in Italia ha assunto proporzioni molto elevate nel recente passato e, ancora oggi, ci sono stime nei settori non alimentari di valori di volumi d'affari che raggiungono i 7 miliardi all'anno, con perdite quindi di posti di lavoro nell'occupazione tradizionale e mancate imposte. Nel settore alimentare ci sono situazioni ancora peggiori, nelle quali gioca un ruolo importante anche la mafia, e qui parliamo di ecomafie. 
Allora, noi diamo atto al Governo di avere affrontato, con gli strumenti nazionali, questo tema. Voglio ricordare il decreto-legge n. 133, con le misure sull’export, il piano straordinario sull’export e per il rilancio del made in Italy, piano di comunicazione, per esempio, per combattere quel fenomeno che è l’italian sounding. Richiamo anche l'attività di questo Parlamento, con la mozione già citata del luglio 2014, in cui si impegnava il Governo a monitorare e a intervenire con forza suiloop del regolamento attuativo del made in. 
Infatti, signor Viceministro, signor Presidente, questo è il punto. L'Italia è completamente inserita in Europa, dal punto di vista economico e dal punto di vista del diritto. Noi siamo una parte di quel sistema e sarebbe velleitario, così come è successo nel passato, cercare soluzioni avulse dal contesto comunitario per la protezione del nostro made in. Questo problema deve trovare la sua soluzione all'interno delle regole e delle norme comunitarie. Nel passato alcuni maldestri tentativi di azioni unilaterali italiane – ricordo la legge n. 55 del 2010, sull'obbligatorietà dell'uso esclusivo del made in – si sono rivelate assolutamente impraticabili e hanno trovato uno stop, una legge mai applicata. 
È per questa ragione che lo sforzo del Governo a Bruxelles diventa fondamentale. È per questa ragione che siamo assolutamente e convintamente a supporto del Governo, quando tende a porre con forza questo tema sul tavolo della trattativa comunitaria, sulle due direttrici che venivano prima indicate, quella della tutela economica delle aziende piccole, medie e grandi e quella della tutela dei consumatori e dei cittadini dell'Italia e dell'Unione. Una battaglia che – abbiamo capito dal Viceministro – non è facile, ma non si combattono solo le battaglie facili. Una battaglia che per l'Italia vale dal punto di vista economico. Come volume d'affari nei settori in gioco si tratta di circa 52 miliardi di euro nel settore del tessile e dell'abbigliamento; nel settore calzaturiero possiamo contare 7,5 miliardi di euro ed altri. 
Ma vorrei anche ricordare che la posizione del Parlamento europeo, che è stata richiamata, è una prima ed importante breccia in quel muro di ostilità che alcuni Governi stanno muovendo a questo regolamento e al riconoscimento della provenienza e anche, in parte, della tracciabilità. E non è un caso che questa breccia si apra tra i rappresentanti diretti dei cittadini, che hanno il senso di quella che è la situazione tra i loro elettori. 
Per questo, signor Viceministro, signor Presidente, ripeto che noi apprezziamo lo sforzo del Governo nelle difficoltà e nelle complessità che ci sono state descritte dal Viceministro. La proposta della Presidenza lettone può essere una base di discussione, ma non nascondiamoci che il punto di caduta deve essere più avanzato. 
Bene, quindi, che il Governo abbia in animo di porre con fermezza questo tema di modificare questa proposta e anche di arrivare a porre in essere azioni significative, ove questa situazione non si dovesse realizzare. Io credo – lo dico a titolo personale, ma penso anche di poter interpretare, in questo caso, lo spirito del mio gruppo parlamentare – che noi tutti saremo convintamente a supporto del Governo in questa battaglia, in tutta la fermezza che vorrà dispiegare a tutela di quello che è un interesse nazionale e un interesse dei nostri concittadini.