Relatrice di minoranza per la XI Commissione
Data: 
Lunedì, 18 Marzo, 2019
Nome: 
Debora Serracchiani

A.C.1637-A

 

Grazie, Presidente. Desidero innanzitutto ringraziare le relatrici per la maggioranza, l'onorevole Murelli e l'onorevole Nesci, per questa cortesia ma, purtroppo, per un problema familiare dovrò allontanarmi.

Noi abbiamo esaminato, in questa settimana, il cosiddetto “decretone”, che contiene due misure particolarmente importanti già annunciate nella manovra di bilancio che abbiamo approvato alla fine dello scorso anno, due misure importanti che sono state definite ormai come il “reddito di cittadinanza” e “quota 100”. È stato un esame complesso perché, nonostante il testo arrivasse, appunto, da una prima lettura al Senato e, quindi, fosse stato già ampiamente in qualche modo discusso dalla maggioranza, presentava alcune criticità che noi della minoranza abbiamo voluto puntualizzare e che, a nostro avviso, mettono a rischio anche la concreta attuazione delle misure. Purtroppo, devo onestamente riconoscere che, nonostante il lavoro complesso e lungo che ci ha portato anche a un'impegnativa seduta notturna, molte delle richieste che sono state avanzate dal Partito Democratico, ma mi permetto di dire un po' da tutte le opposizioni, non sono state assolutamente prese in considerazione. Di questo mi dispiaccio anche perché credo che il lavoro fatto in precedenza e il lavoro fatto, appunto, in Commissione meritasse un atteggiamento diverso da parte della maggioranza.

Anche in questo caso, come nel caso del “decreto dignità”, partiamo da alcuni principi che non possono non essere condivisibili: non è forse condivisibile la lotta alla povertà? Non è forse condivisibile il principio di garantire una flessibilità in uscita per il pensionamento di categorie di lavoratori magari più fragili e deboli? Assolutamente sì! La risposta, però, è sbagliata. Non è sbagliata tanto quantitativamente, perché le risorse ci sono ed effettivamente sono tante; se volete è sbagliata dal punto di vista qualitativo e della modalità con cui si pensa di affrontare questi temi. Dirà meglio di me sul reddito di cittadinanza l'onorevole Carnevali, che ringrazio per il lavoro insieme a tutta la nostra Commissione, sia la Commissione affari sociali sia la Commissione lavoro per la puntualità con cui siamo intervenuti e anche per la costante presenza, però devo dire che quello che emerge dall'esame di questo testo è che onestamente non riusciamo a capire qual è l'obiettivo che si vogliono prefiggere il Governo e la maggioranza.

È forse la lotta alla povertà? Sono forse politiche attive del lavoro? Sinceramente non l'abbiamo capito perché la misura è talmente ibrida e talmente difficile nella sua attuazione che oggettivamente ci lascia molto perplessi.

Dicevo dei principi, principi assolutamente condivisibili. È condivisibile la lotta alla povertà? Certo, ed è talmente condivisibile dal punto di vista del Partito Democratico che noi per primi abbiamo pensato di agire con una misura nella scorsa legislatura che è il reddito di inclusione e avremmo assolutamente voluto - e lo ribadiamo anche in questa sede - che al posto del reddito di cittadinanza, anche chiamandolo “reddito di cittadinanza”, si mettessero più soldi sul reddito di inclusione. Tutto questo non avviene ma, soprattutto, non avviene il rafforzamento delle politiche attive del lavoro.

Non è forse importante la flessibilità in uscita e il pensionamento anticipato di categorie di lavoratori? Ebbene sì! Quali lavoratori, però? Su chi deve ricadere la scelta? Noi diremmo sui lavoratori precoci, sui lavoratori gravosi, sugli usuranti, cioè su quelle attività lavorative per le quali inizi a lavorare da molto, molto giovane, 14, 15 o 16 anni, oppure fai lavori particolarmente gravosi nell'attività fisica oppure fai lavori che sono particolarmente usuranti anche per il tipo di attività e per come viene svolta. Ebbene, di tutto questo nel testo del cosiddetto “decretone” non c'è nulla: non c'è nulla per i lavoratori precoci, anzi si è scelta la categoria - e perdonatemi se la definisco così e non vorrei ovviamente essere fraintesa - di più facile gestione perché è una categoria marginale ed è una categoria costruita sulla carta: basta avere 38 anni di contributi e 62 anni di età e si va in pensione prima, ovviamente trascurando il fatto che ci sono tanti, ma tanti lavoratori italiani che hanno più anzianità contributiva o più anzianità anagrafica ma che, ciò nonostante, non potranno andare in pensione e non potranno andare in pensione perché non rientrano in quella cosiddetta “quota 100”.

Senza contare, poi, che si tratta di una misura cosiddetta “sperimentale”. Infatti, non si è mai vista una riforma delle pensioni che dura soltanto tre anni ma, soprattutto, quello che emerge dall'esame del “decretone” è che non si è affatto abolita la “Fornero”, che è pienamente in vigore, tant'è che per tutti quei lavoratori che non hanno 62 anni di età e 38 anni di contributi si applica pienamente, dal 1° gennaio 2019, l'allungamento dell'aspettativa della vita sia per le donne sia per gli uomini. Tocco subito una delle più grandi iniquità che ha questa riforma, cioè il fatto che si pensi soltanto a una categoria specifica di lavoratori e li si qualifica anche da un punto di vista dei criteri: si tratta di uomini per lo più del nord e per lo più del pubblico impiego. E perché questo? Perché solo questi possono permettersi una continuità contributiva di 38 anni e solo questi sono quelli che potranno anticipare il loro pensionamento così come prevede “quota 100”, “quota 100” che ha un costo non banale: stiamo parlando, infatti, di oltre 30 miliardi di euro in un triennio e parliamo di una platea che, tra l'altro, graverà pesantemente sulle prossime generazioni, perché andare in pensione a 62 anni con una finestra di soli tre anni e con l'aspettativa di vita per fortuna che si allunga significa pesare fortemente sul sistema pensionistico. Tra l'altro, stiamo mandando in pensione probabilmente quelli che hanno pensioni medio-alte, contrariamente a tutti gli annunci fatti dalla maggioranza, perché solo loro potranno permettersi di vedersi ridotta la pensione perché ovviamente riducendo l'anzianità contributiva e riducendo l'anzianità anagrafica è chiaro che si va in pensione con una pensione ridotta.

Ma chi pagherà questa “quota 100”? La pagano tutti gli altri pensionati che prendono pensioni da 1.500 euro lorde in su e ai quali dal 1° gennaio 2019, nonostante quello che il precedente Governo aveva previsto e, cioè, l'entrata in vigore piena, come richiesto anche da tutti i sindacati nelle loro piattaforma unitaria, della indicizzazione delle pensioni questa indicizzazione è nuovamente bloccata. Quindi, quei pensionati continuano a pagare le pensioni di chi andrà in pensione con “quota 100” e - ripeto - non sono pensionati certamente che prendono pensioni alte visto che stiamo parlando di 1.500 euro lordi, quindi poco più di 1.200 euro netti al mese.

Ma, come dicevo all'inizio, c'è una cosa più grave e qui francamente non posso non ricordare quello che è accaduto, appunto, nel corso dell'esame in Commissione rispetto ai cosiddetti lavoratori precoci e a una particolare categoria di lavoratori: mi riferisco, in particolare, agli edili.

Il Partito Democratico aveva presentato un emendamento e a dire il vero anche la Lega aveva presentato un emendamento molto simile e questo emendamento era il frutto di un lavoro con il quale ci si era confrontati, sia con l'ANCE, quindi, con i costruttori, sia con i sindacati unitari, ed era una norma, una misura semplice nella sua attuazione, a nostro parere, e senza costi aggiuntivi per il bilancio dello Stato, che avrebbe dato una risposta immediata a una categoria, quella gli edili, particolarmente fragile e debole. Noi, oggi, abbiamo persone che a 65, a 67 anni salgono ancora sulle impalcature. Forse, avremmo dovuto guardare a queste persone con maggiore attenzione, dando loro una scelta prioritaria e se volete, tra virgolette, come spesso dite, “privilegiata” nella flessibilità in uscita, una misura privilegiata determinata dal fatto che questo emendamento che noi abbiamo presentato prevedeva che le risorse che le imprese danno sulla base della contrattazione collettiva per i pensionamenti anticipati potessero - con una convenzione e in deroga a quanto avviene finora, con una convenzione con l'INPS, e tramite gli enti bilaterali - essere riconosciute come contribuzione volontaria proprio per il perfezionamento del montante contributivo di chi, appunto, ha un'attività contributiva discontinua; anche perché questi lavoratori raramente hanno 38 anni di contributi continuativi e, quindi, a queste persone si poteva e si doveva dare una risposta, invece, vengono penalizzate, come vengono penalizzati i lavori gravosi e usuranti.

Poi, dopo il danno, la beffa; ad un certo punto, in quella famosa notte, non solo viene respinto questo emendamento, sul quale addirittura il Governo e la maggioranza avevano dato, dapprima, un parere favorevole, per poi cambiare idea negli ultimi secondi prima dell'approvazione dell'emendamento stesso - non discuto qui del comportamento di tutti, ma credo che, insomma un'idea ce la siamo fatta -, ma, certamente, c'è un altro aspetto che non è trascurabile e rispetto al quale, sinceramente, lo ripeto, oltre al danno, la beffa: quando si è cercato di dare un segnale anche ai lavoratori precoci, su insistenza, senza ombra di dubbio, delle minoranze e del Partito Democratico in particolare, si è fatta una scelta, posso dire, “delirante”. Mi perdonerà la Presidenza se uso questo termine, ma vedersi piombare nell'aula della Commissione un'ipotesi nella quale il pensionamento anticipato dei lavoratori precoci veniva garantito attraverso la tassazione in capo alle famiglie italiane del lavoro cosiddetto domestico, trasformando questi datori di lavoro, cioè le famiglie italiane, in sostituti d'imposta e gravandoli di una tassazione, ebbene, dire: “oltre il danno anche la beffa”, mi sembra oggettivamente poco. Mi riferisco all'introduzione della cosiddetta colf tax che, vorrei ricordare a tutti, non significa che ci sono famiglie che possono permetterselo e che hanno il collaboratore domestico o maggiordomo, come qualcuno ha insinuato; qui stiamo parlando delle persone e delle famiglie, probabilmente le più fragili, che hanno persone in difficoltà, anziane o con disabilità e che hanno come unico aiuto quello della cosiddetta badante o della persona che assiste queste persone, con i cosiddetti lavori di cura, ebbene, su questo non c'è nulla.

Spiegherà bene Elena Carnevali che non c'è nulla sul reddito di cittadinanza, ma, credetemi, non c'è nulla anche nel caso del pensionamento anticipato di cui tanto si parla, e perché? Perché avete respinto tutti gli emendamenti che riguardavano la possibilità di sommare nel montante contributivo i cosiddetti periodi nei quali le donne, in particolare, si occupano dei lavori di cura e, soprattutto, la maternità; infatti, questo vostro decreto, questo vostro provvedimento è contro le donne, è assolutamente contro le donne, perché non consente loro un pensionamento anticipato. Basterebbe fare due conti: le donne in media hanno 25 anni di contribuzione continuativa, non di più, quando sono fortunate, e restano fuori da «quota 100», ma soprattutto gli abbiamo dato, anzi, gli avete dato, su nostra insistenza, un anno di proroga dell'opzione donna, tra l'altro cambiandone i criteri e diminuendo anche la platea delle donne che possono aderire ad opzione donna, quindi, anche qui, oltre al danno, la beffa. Ciò senza considerare che, non soltanto avete eliminato tutti gli emendamenti che chiedevano di riconoscere il periodo della maternità come periodo contributivo, ma, oggettivamente, avete trascurato ogni richiesta che chiedeva di fare una valutazione diversa rispetto ai montanti contributivi delle donne.

L'altro provvedimento prorogato soltanto per un anno è l'APE sociale, ma, anche qui, il cambiamento dei criteri non aiuterà le persone in difficoltà, anche perché, vorrei che fosse chiaro a tutti - perché dalle discussioni che sono emerse anche in sede di Commissione, a me pare che questa chiarezza non ci sia - che quota 100 è complementare con APE sociale, perché, mentre quota 100 riguarda i lavoratori che hanno un'anzianità contributiva continuativa, l'APE sociale riguarda quei lavoratori più fragili, di una categoria dei quali ho parlato prima, che quella continuità contributiva non possono averla. Ebbene, rispetto anche a queste persone, le risposte sono sostanzialmente zero.

È una misura, quindi, iniqua? Sì. È una misura che costerà tantissimo agli italiani nei prossimi anni? Sì. È una misura che peserà tantissimo sulle nuove generazioni, a cui spesso fate finta di rivolgervi? Sì, perché in questa proposta non esiste neppure il fondo con cui garantire il perfezionamento dei montanti contributivi per i giovani, che restano i più fragili in vista di una pensione a cui, a queste condizioni, non arriveranno mai. Pregherei però, davvero, la maggioranza, e mi auguro che così sia negli interventi che verranno, di riconoscere che tutto quello che è stato promesso non è stato fatto: la Fornero non è stata abolita, la Fornero non è stata profondamente cambiata, la Fornero continua ad essere applicata, tant'è che tutti i calcoli che sono stati fatti anche con quota 100 sono stati fatti con i criteri della Fornero. E senza considerare che nulla è stato previsto rispetto, appunto, come ho detto fin qui, a quelle persone che sono maggiormente in difficoltà.

Quindi, e concludo il mio intervento, io credo che la propaganda, prima o poi, debba avere una fine, lo dico al MoVimento 5 Stelle, come alla Lega, così come credo che debba terminare questa logica per cui gli interventi, i provvedimenti che vengono portati in Aula altro non sono che la somma di due campagne elettorali: io ho quota 100, tu hai il reddito di cittadinanza, disinteressandosi totalmente di quelli che sono i conti pubblici, di quelle che sono le esigenze e i bisogni dei cittadini, delle categorie più fragili e di quegli invisibili di cui, sostanzialmente, fate finta di nulla. Io non so se vi siete resi conto anche dell'iniquità del cosiddetto “scalone”, perché qui ne abbiamo parlato poco, ma qui c'è uno scalone di cinque anni che fa impressione, che è contro ogni logica e facciamo subito un esempio; è stato fatto anche al Senato dal collega Nannicini e lo voglio riportare qui: due lavoratori che iniziano lo stesso giorno a lavorare, se uno compie gli anni, 62 anni, a dicembre del 2018, e un altro li compie a gennaio del 2019, vanno in pensione con cinque, dico “cinque”, anni di differenza. Uno entra nella quota 100 e va in pensione prima, l'altro continuerà a lavorare per almeno altri cinque anni. Io non so se vi siete resi conto - oltre al fatto che questa misura è iniqua perché penalizza il Sud, perché penalizza il lavoro privato, perché penalizza le donne, perché penalizza i lavoratori precoci, perché penalizza i lavori gravosi, perché penalizza i lavori usuranti, perché assolutamente non tiene insieme il sistema pensionistico - della grave iniquità che c'è nello scalone di cinque anni.

Penso che di tutto questo non vi siete avveduti, anche perché, come spesso ci avete detto, è meglio avere un consenso elettorale immediato che va all'incasso piuttosto che una visione del Paese e di quelle che sono le esigenze e i bisogni del Paese che, invece, hanno bisogno anche di tempi diversi, perché non si è mai vista una riforma delle pensioni che duri soltanto tre anni. Per cui, per le ragioni che ho esposto, direi che il Partito Democratico ha lavorato, e tanto, per cercare di migliorare un testo che però la maggioranza non ha voluto assolutamente migliorare.