Discussione generale
Data: 
Lunedì, 18 Marzo, 2019
Nome: 
Antonio Viscomi

A.C.1637-A

Grazie, Presidente. Sa, molti anni fa, in una ricerca di sociologia giuridica, fu formulato un teorema, il teorema della cosiddetta copertura amministrativa delle leggi. Secondo questo teorema, l'introduzione da parte di una norma di legge di nuove funzioni amministrative non accompagnate da una puntuale definizione e da un rafforzamento dei sistemi burocratici chiamati a darne attuazione produce effetti perversi. In particolare, per un verso, rende impossibile portare a compimento le funzioni assegnate dalla nuova legge e, per altro verso, fa perdere efficienza ed efficacia alle funzioni già svolte sulla base delle vecchie leggi. Un teorema di buonsenso, forse anche al limite dell'ovvio, ma se analizzato nella prospettiva di questo teorema, a me pare che il decreto, anzi il “decretone”, come piace chiamarlo alla maggioranza governativa, violi in modo evidente i criteri fondamentali di una buona legge, esponendosi al rischio di non mantenere ciò che promette e, quindi, di risolversi in pura narrazione comunicativa.

Sia chiaro, non parlo del rispetto di canoni formali di legiferazione e neppure di una questione meramente quantitativa di risorse disponibili, ma piuttosto, come abbiamo più volte ripetuto inascoltati in Commissione, di una confusione concettuale che invalida la stessa architettura istituzionale del sistema reddito di cittadinanza. A guardarlo bene il “decretone”, sembra di trovarsi di fronte a uno di quei quadri il cui disegno si comprende con sufficiente facilità quando si guarda da lontano, ma, poi, evapora velocemente quanto più ci si avvicina alla tela. È così anche per quel sistema, costantemente alla ricerca di un equilibrio tra dimensione familiare e situazione individuale, tra politiche proattive e istanze repressive, tra competenze amministrative da distribuire e competenze professionali da riscoprire, tra perdurante mitologia delle piattaforme digitali e dei sistemi informativi che tutto risolvono, e la drammatica realtà della frammentazione amministrativa e delle critiche condizioni organizzative delle agenzie chiamata ad operare sulle stesse piattaforme. Basta leggere l'articolo 6, comma 7, del decreto; dovendo individuare i soggetti chiamati a svolgere le attività connesse alle piattaforme, l'articolo ricorda esplicitamente l'INPS, il Ministero del lavoro con gli enti controllati, vigilati e in house, l'AMPAL, i centri per l'impiego, i comuni, ma conclude poi con un rinvio generico alle altre amministrazioni interessate. Verrebbe da dire: ma come, state scrivendo una legge che considerate il cuore del vostro programma di governo e non avete nemmeno il quadro completo delle amministrazioni che saranno chiamate a darne attuazione?

Ovviamente, la questione non è avere un elenco nominativo, ma acquisire completa chiarezza su chi fa cosa, quando, come, dove e perché, nell'ambito di un sistema amministrativo multilivello che è costituzionalmente condizionato e che si vuole fare operare su una piattaforma digitale comune, che, poi, da sempre, o almeno a partire dal Sistema informativo lavoro, introdotto nella seconda metà degli anni Novanta dal pacchetto Treu, è lo scoglio reale che ha portato al naufragio di ambiziosi interventi riformatori, che per funzionare davvero richiederebbero un'agenzia, un sistema, una strategia univoca, se non proprio unica.

E oltremodo ambizioso è l'intervento di cui stiamo parlando; all'articolo 1, comma 1, del decreto, vi è la norma manifesto: ‘Il sistema “Rdc” è misura fondamentale di politica attiva del lavoro, posta a garanzia del diritto al lavoro, misura fondamentale di contrasto alla povertà, alla diseguaglianza e all'esclusione sociale. Misura fondamentale - cito sempre testualmente - diretta a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura e tutto questo attraverso politiche volte al sostegno economico e all'inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro'. A ben vedere, dunque, l'incerta architettura istituzionale che segna il sistema reddito di cittadinanza non è un tratto occasionale, facilmente emendabile, ma trova radice profonda nella stessa incertezza concettuale di una misura alla quale si affidano, anzi, sulla quale si riversano confusamente funzioni plurime e diversificate, quanto ad attori, competenze, vincoli, risorse, strategie e finalità ultime. È questo il vero punto debole del sistema Rdc, che è costretto geneticamente, strutturalmente e funzionalmente nel dilemma di fondo tra strumento di contrasto alla povertà e strumento di politica attiva del lavoro, tra competenze dei servizi sociali e dei comuni e competenze delle agenzie che governano il mercato del lavoro, tra vincoli reddituali di carattere familiare e politiche di attivazione necessariamente individuali.

E che questo sia un problema serio è confermato dagli emendamenti della maggioranza in Commissione, laddove è stato introdotto il comma 10-bis nel corpo dell'articolo 11. Il comma 10-bisistituisce che cosa? La più tradizionale - cito testualmente – cabina di regia come organismo di confronto permanente tra i diversi livelli di governo. Previsione, questa, che conferma quello che stiamo dicendo da tempo, ma non risolve i problemi di una governance multilivello, condizionata, come ricordavo prima, da previsioni costituzionali molto chiare in ordine alla distribuzione delle competenze tra tutti gli attori istituzionali interessati.

Provo, ora, a fare solo due esempi, due fra i tanti possibili e di maggior dettaglio, per segnalare alcune delle contraddizioni che segnano il sistema Rdc, derivanti proprio da questa irrisolta confusione originaria di funzioni, attori, competenze, vincoli, risorse, strategie e finalità. La prima è relativa alla tensione che è stata introdotta tra la dimensione familiare e la sfera individuale e che pure sta portando a quella sorta di fuga dalla famiglia anagrafica, segnalata ripetutamente in questi ultimi giorni dai mass media. La dimensione familiare definisce il perimetro per stabilire l'esistenza o meno delle condizioni di accesso al beneficio economico del reddito, nonché il relativo importo globale; al contempo, però, gli obblighi conseguenti all'inserimento del nucleo nel sistema del reddito assumono una dimensione individuale, tant'è che il beneficio economico è suddiviso per ogni singolo componente, non si comprende ancora se in parti uguali, come previsto esplicitamente per la sola pensione di cittadinanza, o no, e l'erogazione è condizionata dalla dichiarazione di immediata disponibilità, dall'adesione ad un percorso personalizzato.

Addirittura, l'articolo 4, comma 6, impone al richiedente che non sia sottoposto agli obblighi connessi al Patto per il lavoro di individuare un componente del nucleo che lo sostituisca nel primo incontro con i servizi, stabilendo così una sorta di intercambiabilità dei componenti del nucleo familiare. Ma, cosa succede se un singolo componente non effettua la predetta dichiarazione o non sottoscrive il patto? Ebbene, l'articolo 7, comma 5, dispone la decadenza dal reddito e, sembrerebbe, la decadenza dal beneficio per l'intero nucleo, atteso che altrove, in particolare nell'articolo 2, comma 3, è previsto chiaramente che le dimissioni volontarie privano della quota parte del reddito il solo componente del nucleo familiare disoccupato volontariamente. Insomma, le colpe di uno ricadono tendenzialmente su tutti i componenti del nucleo familiare.

Guardate, non è una sorta di responsabilità oggettiva a preoccuparmi, quanto piuttosto il fatto che si trascura di considerare che, il più delle volte, le famiglie in condizioni di povertà estrema rappresentano ambienti ideali per l'insorgere di dinamiche conflittuali, in cui la responsabilità reciproca è oscurata dal disagio di una difficile quotidianità; non è un problema giuridico, ma è un problema serio di contemperamento tra libertà del singolo componente di effettuare le proprie scelte e responsabilità dello stesso componente nei confronti del nucleo familiare.

Vorrei segnalare un secondo esempio, per evidenziare la tensione interna al sistema, derivante da una non chiara distinzione di ruoli e di competenze. In relazione all'articolo 4, comma 5-quater, introdotto in Commissione con emendamento delle relatrici, il punto in questione è il seguente: l'interfaccia primaria del richiedente o del beneficiario del reddito è il centro per l'impiego, la cui funzione propria dovrebbe essere quella di agevolare l'incontro tra domanda e offerta del lavoro; dico “dovrebbe”, perché, come è ben noto, credo, non tutti i centri per l'impiego riescono a svolgere questa funzione, per ragioni di varia natura, che qui non è il caso di approfondire, ma che, però, non sembra neppure aver approfondito chi ha redatto la norma. Ora, da un punto di vista generale, è quindi del tutto evidente che il decreto ritiene necessario aggredire la condizione di povertà anzitutto come condizione creata dall'assenza di lavoro e, dunque, appunto, come condizione individuale e non già come situazione di disagio familiare, relazionale, personale e professionale.

Dal punto di vista particolare, non è però da escludere che proprio le condizioni di disagio siano tali da rendere impossibile, se non inutile, la stessa ricerca di lavoro. Per questo il comma 5-quaterprevede una sorta di transizione dai servizi per l'impiego ai servizi sociali: l'operatore del centro per l'impiego che ravvisa la presenza, nel nucleo familiare, di particolari criticità - cito sempre testualmente -, per il tramite della piattaforma digitale, invia il richiedente ai servizi competenti per il contrasto della povertà dei comuni, motivando le ragioni che l'hanno a ciò determinato, dopodiché, i servizi comunali, a livello territoriale, si attivano per la valutazione multidimensionale e per le misure conseguenti.

Sembrerebbe tutto simmetrico: vado al centro per l'impiego, parlo con l'operatore, l'operatore si rende conto che è un problema più ampio, mi invia ai servizi sociali dei comuni e così via. E, però, non è proprio così, perché le competenze amministrative e le competenze professionali dell'operatore del centro per l'impiego non sono istituzionalmente rivolte a verificare le condizioni di criticità familiari, tanto da poter addirittura motivare il rinvio ai servizi competenti per il contrasto alla povertà.

Ribadisco, la legge richiede esplicitamente all'operatore del centro di essere capace di ravvisare, nel nucleo familiare dell'interessato, la presenza di particolari criticità che rendono difficoltoso l'avvio di un percorso di inserimento al lavoro. Il punto è di così estrema delicatezza, anche a motivo dello stigma socialmente o soggettivamente percepito come negativo che potrebbe derivare dal rinvio del disoccupato dal centro per l'impiego ai servizi sociali, che, non a caso, si prevede di definire, in sede di Conferenza unificata, i princìpi e i criteri generali da adottare in sede di valutazione. Ma è soluzione, questa, più attenta ai profili formali di riparto delle competenze amministrative che di adeguamento delle competenze professionali degli operatori.

Insomma, non solo di nuove assunzioni necessitano i centri per l'impiego, ma di una più significativa revisione dei profili professionali, in coerenza con l'incremento di funzioni determinato dalla legge. È questo il punto di snodo reale.

Tutte le politiche di attivazione presuppongono la presa in carico della singola situazione e per questo richiedono operatori professionali altamente specializzati. Non la disoccupazione ma il disoccupato, non la povertà ma il povero e il disoccupato e il povero considerati nella loro concreta condizione storica. Questo è l'orizzonte operativo delle politiche di attivazione. Qualcuno lo dica, per favore, a chi ritiene, con molta astrattezza, che la questione importante sia solo quella di assumere personale e non la concreta qualificazione professionale del personale assunto per la quale serve a poco ricorrere alla suggestione della lingua inglese.

Insomma - e mi avvio a concludere - credo risulti del tutto evidente la radicale ambiguità dell'architettura istituzionale del sistema RDC. Lo abbiamo visto per quanto riguarda i rapporti tra nucleo familiare e singolo individuo e lo abbiamo visto per quanto riguarda i rapporti tra servizi per il lavoro e servizi sociali, quelli di competenza delle regioni e questi dei comuni, ma si tratta di profili essenziali per consentire il buon funzionamento di un'ambiziosa misura che pretende di essere al contempo strumento fondamentale di politica attiva del lavoro, di contrasto alla povertà, alla diseguaglianza, all'esclusione sociale nonché ancora misura fondamentale diretta a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura.

Ma per essere veramente tale e assicurare i risultati promessi la misura fondamentale in questione avrebbe necessità di essere sostenuta da una visione chiara dell'ordinamento come sistema, da una realistica valutazione dei sistemi amministrativi, da una profonda consapevolezza della complessità delle situazioni reali. Purtroppo, non lo è e l'abbiamo detto come gruppo del Partito Democratico più volte in Commissione e continueremo a dirlo in quest'Aula. Siamo stati inascoltati prima e temo che saremo inascoltati anche ora.