Discussione sulle linee generali
Data: 
Martedì, 18 Aprile, 2017
Nome: 
Marco Causi

Presidente, colleghe e colleghi, vorrei innanzitutto ringraziare i presentatori di queste mozioni: grazie ad esse mettiamo al centro della discussione parlamentare la costruzione di una nuova governance europea, in particolare, in materia economica e finanziaria. Un argomento importante, forse il più importante, oggi, nell'attuale fase storica, soprattutto per i Paesi dell'area euro. Mi siano concesse due digressioni storiche: la prima riguarda gli Stati Uniti. Il dollaro nacque come moneta dei nuovi Stati Uniti nel 1785, ma soltanto trent'anni dopo, venne affiancato da un bilancio federale e da regole di integrazione finanziaria fra i Paesi federati. Ci volle una guerra, la guerra del 1812, la cosiddetta Seconda guerra di indipendenza. In mancanza di un bilancio federale, la giovane repubblica fu messa in ginocchio per l'assenza di risorse con cui sostenere l'esercito. La nuova capitale, Washington, fu invasa e distrutta da un'armata inglese. La nazione fu salvata dalla decisione inglese di concentrare il suo sforzo bellico sull'Europa contro Napoleone e dalle insperate vittorie dell'Armata del sud del generale Jackson. Dopo questa vicenda gli Stati Uniti integrarono la loro finanza e fecero un bilancio federale.

L'euro è entrato in circolazione quindici anni fa, ma gli Stati che lo hanno adottato entrando nell'Unione economica e monetaria non ne hanno altri quindici per completare il progetto: devono fare presto. Non hanno neppure bisogno - io auspico e spero - di una vera guerra guerreggiata: dovrebbe essere più che sufficiente la tempesta che si è abbattuta sull'Europa, il rischio di una sua disintegrazione, il crescente clima antieuropeo nelle opinioni pubbliche, la sfida neoisolazionista della nuova amministrazione americana con i suoi aspetti inediti, poiché condita da una certa aggressività e non, come è accaduto in passato nella storia, dalla dottrina del non intervento.

La seconda digressione è su quanto è avvenuto in Europa e in Italia nel 2011-2012. Nell'estate del 2011, il rischio di default sul debito pubblico italiano è stato reale, non inventato. L'intervento della Banca centrale europea è stato essenziale per evitarlo e la sua condizionalità era inevitabile per una questione prettamente politica e, cioè, per l'incrinatura che esisteva, e che esiste ancora, nel rapporto di fiducia fra Paesi finanziariamente forti e loro opinioni pubbliche e Paesi finanziariamente deboli e loro opinioni pubbliche.

Questo è un punto storico-politico su cui auspico che il giudizio della storia possa portare a una minore divergenza di opinioni di quella che oggi esiste. Sarebbe non solo politicamente, ma anche intellettualmente disonesto dimenticare le condizioni di fragilità finanziaria del nostro Paese in relazione non solo al fabbisogno di finanziamento del debito pubblico, ma anche al gap di finanziamento del settore creditizio. Come sappiamo, fra depositi e impieghi in Italia, c'è un gap da ricoprire, con finanziamenti da trovare sui mercati internazionali, che varia fra i 100 e i 200 miliardi di euro all'anno.

In ogni caso, in quelle condizioni così drammatiche, in cui l'Italia, tra l'altro, era molto debole sul piano dell'agibilità e della contrattazione politica, io continuo a ritenere che i risultati ottenuti siano stati positivi. Primo: il Fiscal compact è un Trattato provvisorio, come è stato più volte detto, che deve essere ricontrattato entro il 2018 dell'architettura europea. Positive sono a nostro modo di vedere in questa direzione le risoluzioni Verhofstadt e Bresso-Brok approvate dal Parlamento europeo, oltre che i nuovi accordi fatti a Roma in occasione del sessantesimo anniversario, con l'ampliamento delle possibilità di cooperazione rafforzata. Un punto questo importante per la costruzione delle istituzioni necessarie a gestire una nuova politica economica nell'ambito dei Paesi dell'euro.

Secondo: la costituzionalizzazione dell'impegno al rigore della finanza pubblica, che continua ad essere chiamato e raccontato come regola del pareggio di bilancio, si è trasformato in realtà in una regola molto più sostenibile e, cioè, l'equilibrio di bilancio al netto del ciclo economico e del “una tantum”.

Per fare il salto di qualità nelle politiche economiche europee le parole chiave sono tre: bilancio federale, condivisione dei rischi, utilizzare i motori interni di crescita europea, superando la dottrina di tipo mercantilista. Un bilancio federale integrato, gestito da un Tesoro dei Paesi euro, può permettere all'Unione di intervenire in modo asimmetrico e, cioè, aiutare i Paesi quando vengono colpiti in modo specifico, ad esempio, con un sussidio europeo di disoccupazione, come proposto dall'Italia nel “documento Padoan” da più di un anno. Può gestire le azioni necessarie a superare altre asimmetrie, come, ad esempio, gli squilibri macroeconomici che derivano dalla persistenza di elevati avanzi di bilancio dei pagamenti. In questo caso, ricordo il caso della Germania, dove redditi e domanda interna potrebbero e dovrebbero aumentare. Può superare, grazie ad una gestione diretta e non mediata dagli Stati, la sfiducia dei Paesi forti nei confronti degli apparati statali e politici dei Paesi deboli.

Un bilancio federale europeo può finanziarsi rendendo europea la base imponibile delle imposte sulla società, eliminando, fra l'altro, questo tipo di concorrenza fiscale all'interno dell'Unione. Si tratta di un obiettivo da sempre perseguito dall'iniziativa di politica estera italiana, rilanciato nel recente rapporto del gruppo di lavoro Monti, a cui la risoluzione Verhofstadt fa riferimento e si tratta, grazie alla Brexit, di un obiettivo oggi più realisticamente perseguibile, perché, come sappiamo, è stato soprattutto il Regno Unito a frenare in tutti questi anni sulla armonizzazione delle politiche fiscali.

Condivisione dei rischi significa completamento dell'unione bancaria, assicurazione europea sui depositi, rafforzamento delle capacità e del ruolo del meccanismo europeo di stabilità, ESM, ad esempio, nella gestione delle crisi bancarie e nella gestione dello smaltimento dei crediti deteriorati nel settore bancario e, in prospettiva, anche nella gestione dei debiti sovrani tramite una sua trasformazione in fondo monetario europeo.

E poi, infine, la questione culturale e politica più importante: superare un approccio di tipo mercantilista e accendere i motori interni di crescita, in particolare sul fronte della domanda interna, anche domanda di consumo e non solo domanda di investimenti. Ci sono Paesi, ad esempio la Germania, che possono permettersi un aumento dei consumi. La domanda di investimenti, invece, va aumentata in tutti i Paesi. E, per quanto riguarda gli investimenti, sono necessarie sia politiche di livello europeo, finanziate dal tesoro europeo, sia politiche di livello nazionale, andando verso la golden rule e, cioè, escludendo le spese per investimenti e altre spese definite in alcuni comparti strategici dai parametri di finanza pubblica validi ai fini delle politiche di coordinamento europeo.

È chiaro che tutto ciò non ha nulla a che fare con la questione dello “zero virgola”. Vista in questa prospettiva, la discussione sull'aggiustamento finanziario che la Commissione europea ha chiesto all'Italia è surreale. Attenzione, però, sbaglia la Commissione sullo zero virgola, ma sbaglierebbe anche l'Italia a non tenere conto dei vincoli che derivano dall'appartenenza all'Unione. Ecco, questi vincoli, in realtà, se maturerà il passo avanti federale necessario alla salvezza dell'euro, aumenteranno e cresceranno le zone della decisione pubblica, da trasferire ad ambiti di sovranità di tipo federale. L'Italia non può chiedere agli altri la condivisione dei rischi, se non è disponibile a contropartite politiche di rilievo importante. Nessuno in Italia può cullare l'illusione di rilanciare il Paese con qualche flessibilità aggiuntiva dello zero virgola e non proseguendo, invece, un lavoro di lunga lena e di medio termine per la riforma e la modernizzazione delle strutture portanti del sistema Paese.

Il problema italiano non è congiunturale, non si risolve invocando banali keynesismi di breve periodo. Il problema italiano è strutturale, dipende dalla domanda, ma dipende anche dalle debolezze della struttura produttiva (bassa produttività, nanismo d'impresa, arretratezza nel settore dei servizi, poca innovazione tecnologica).

Sulle proposte di profonda innovazione della governance europea, io auspico il massimo di convergenza tra le forze politiche italiane. Si tratta di dare forza a un'azione cruciale per gli interessi del Paese, un obiettivo che deve portarci tutti a non indulgere né su posizioni puramente accademicistiche o ideologiche né su posizioni di mero opportunismo protestatario. Le proposte italiane saranno tanto più forti nella trattativa dei prossimi mesi, quanto più compatto l'intero Paese sarà percepito intorno ad esse.