Discussione sulle linee generali
Data: 
Martedì, 18 Aprile, 2017
Nome: 
Ernesto Preziosi

A.C. 4314-A

Grazie, Presidente. Il disegno di legge presentato dal Governo manifesta con ogni evidenza la volontà di garantire un adeguato risalto nazionale ed internazionale all'opera, al pensiero, alla vita di queste tre figure sicuramente eccezionali ed eminenti ed è anche opportuna la strada scelta, come una misura ulteriore speciale rispetto a quanto si potrebbe fare in base alla normativa vigente, perché credo che questo possa conferire un'utilità maggiore a quello che è l'impegno di studio e di ricerca che verrà dedicato da qui alla scadenza di questi anniversari.

La specificità, inoltre, del disegno di legge risiede proprio nell'interazione della programmazione culturale nel coordinamento delle conseguenti attività di ciascuno dei comitati di cui si prevede l'istituzione; comitati che, quindi, non opereranno in modo frammentario ed individuale, ma che, al fine di divulgare e valorizzare questo patrimonio unico e davvero universale, dovranno lavorare collaborando con il Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale. Anche questo mi pare un passaggio importante e pregevole. Il tutto per realizzare un percorso mirato all'arricchimento dell'offerta culturale in termini di formazione, ricerca e divulgazione.

Vi è un aspetto che mi sta particolarmente a cuore e che ritengo opportuno sottolineare in questa sede: perché la politica si interessa della cultura? Perché la sostiene e contribuisce con disegni di legge come questo a finanziarla? Il rapporto cultura-politica vive una fase delicata della sua storia, anche come esito di una duplice e speculare crisi che sta attraversando: da un lato, più di un politico tende ad appropriarsi della cultura o evidenziandone in maniera eccessivamente stringente e strumentale il rapporto con il territorio in chiave di sviluppo turistico magari, oppure pensando di poterne utilizzare, in una fase invasiva della comunicazione, i benefici effetti in termini di ritorno di immagine.

Il patrimonio culturale di un Paese, così come si è stratificato storicamente nel tempo, può altresì divenire un fattore importante, e oggi per certi versi decisivo, di acculturazione popolare, di identità e, quindi, in definitiva, di cittadinanza. La cultura può favorire il sentirsi parte di uno Stato, far cogliere lo spessore profondo di diritti e doveri che tale relazione comporta. Ciò è ancora più vero oggi, in un tempo in cui la mobilità interna del Paese e l'apporto e la presenza di potenziali nuovi cittadini, frutto anche dei flussi migratori, pongono un tema di inclusione accanto e, vorrei dire, prima di quello di cittadinanza.

Le nostre città e i nostri territori devono offrire, rendere fruibile la cultura di cui dispongono come elemento di identificazione e di cittadinanza: ci sono in proposito pagine molto belle di Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, che parlava di vocazione delle città. Per questo la politica nel suo insieme, ai vari livelli, deve interessarsi di cultura e destinare ad essa risorse ingenti, curandosi anche delle modalità di utilizzo delle stesse, anche con riferimento all'opera di ricerca e divulgazione. È quanto mi pare fa la disposizione in oggetto e di questo possiamo esserne grati.

Non dovrebbe essere necessario mettere in rilievo la motivazione che ha fatto includere Raffaello Sanzio tra i tre grandi considerati dal disegno di legge. La sua statura è universalmente riconosciuta e, accanto alle doti personali, affinate con rapidità nella sua breve vita, ci racconta di un ambiente, anche di un ambiente territoriale, geografico: nonostante ciò che è intervenuto nella trasformazione di un territorio per quanto riguarda il paesaggio rurale, ancora oggi il Montefeltro costituisce un'unità molto importante e molto interessante da questo punto di vista, ma anche come riferimento all'ambiente culturale in cui Raffaello è nato e cresciuto.

Se oggi è di tutta evidenza il rapporto tra Raffaello e Urbino, così non è sempre stato. Per molto tempo, infatti, lo si è trascurato, se non negato, a partire proprio dal Vasari, che, insieme ad altri, ha contribuito a relativizzare sia l'influsso paterno di Giovanni Santi sia quello dell'ambiente e della cultura urbinate, mettendo, invece, in primo piano, nella formazione di Raffaello, il rapporto con il Perugino, prima, e l'influsso dell'ambiente fiorentino, poi.

La critica, oggi suffragata da nuovi studi e da importanti scoperte e soprattutto dalla ricomposizione delle raccolte, ha stabilito il legame profondo tra Raffaello e la sua città natale. In quella piccola città, collocata sulla dorsale appenninica del Centro Italia, proprio in quegli anni, nel 1507, Guidobaldo I di Montefeltro istituisce l'Ateneo: una stagione ricca, se si pensa a cosa significa l'Ateneo per quella città.

Attorno a quella città e alla sua università, in quell'epoca, maturano numerosi ingegni di grande portata. Si pensi ai matematici come Luca Pacioli, Guidobaldo Del Monte, gli architetti Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini, rappresentanti di quell'Umanesimo scientifico, che costituì una delle più feconde stagioni, destinate ad avere un'influenza notevole anche nella moderna civiltà europea.

Ancora oggi quell'Ateneo è il segno di una vocazione internazionale, che la città conserva sino a quando gli spiriti più illustri dell'epoca convenivano alla corte di Federico II e di Guidobaldo di Montefeltro. E accanto all'Ateneo esiste, ormai dal 1869, l'Accademia Raffaello, proprio con il compito di conservare e promuovere il genio di Raffaello.

Gli anni in cui egli opera nella città urbinate sono quelli, come dire, successivi all'aver appreso l'insegnamento nella bottega del padre Giovanni Santi, all'interno di quella temperie artistica che Urbino vive attraversando la prima decade del XVI secolo. E incrocia poi i prodromi del Rinascimento a Firenze. Ma l'avvio, come dicevo, è tutto urbinate. Infatti, il padre Giovanni Santi, anch'egli pittore, insieme ai primi insegnamenti, lo incoraggia a studiare le opere che proprio Piero della Francesca aveva realizzato ad Urbino. Raffaello, così, comincia a prendere dimestichezza col disegno e la prospettiva e, di fronte alla bravura dimostrata, il padre stesso si adopera per inserirlo nella bottega dove lavorava un altro grande maestro, il Perugino. Qui Raffaello assimila la grazia tipica delle sue opere e, insieme, apprende dal Pinturicchio il gusto decorativo.

La sua opera, come sappiamo, rivela una bellezza ideale classica, una bellezza destinata a divenire canone, canonica appunto, destinata a passare nel gusto dei secoli, a divenire elemento di civiltà e ad influire nel nostro ideale di bellezza. È un bello che non si distingue dal bello di natura e dal bello artistico. Al centro dell'arte di Raffaello sta, infatti, la concezione dell'arte come imitazione della natura, ma non limitandosi alla sola descrizione.

Pietro Bembo gli dedicherà un epitaffio, che ancora oggi compare sulla sua tomba al Pantheon di Roma: qui giace Raffaello dal quale la natura temette mentre era vivo di essere vinta, ma ora che è morto teme di morire. Omaggio, quindi, a questa creatività grande di questo artista, cui fa eco una sentenza di Goethe: Raffaello è sempre riuscito a fare quello che gli altri vagheggiavano di fare.

Un grande rettore dell'università di Urbino, che è stato tale per molti lustri, Carlo Bo, in una pubblicazione del 2001, intitolata proprio “Raffaello, bellezza e verità”, e in “Città dell'anima”, ha avuto modo di notare come l'arte moderna abbia in seguito spostato il senso del valore della bellezza, modificandone profondamente la linea di traiezione. Ha scritto Carlo Bo che Raffaello ci aveva lasciato un'immagine completa dell'uomo, del suo carnale e del suo spirituale. L'arte nuova prima ha separato e poi ha scomposto e sezionato all'infinito le due suggestioni. Quel suo equilibrio felice, quasi naturale, era stato attento o tenuto da una saldatura assoluta, fino a ricostituire una sorta di paradiso ritrovato, fino a rinnovare l'uomo.

Che cosa dice Raffaello con l'illustrazione di questa sublime armonia? Che il fragile - scrive Bo -, il corruttibile della vita, riassunto nel fuoco e nella luce della bellezza, è riscattato dalla nozione di verità. Il corporale, il carnale, viene presentato come un momento e un punto di passaggio e, però, tutto deve essere pronto per la trasfigurazione.

Vi è un'attualità struggente - vorrei dire concludendo - nell'opera del pittore. La sua bellezza invita a guardare più in alto. Raffaello racconta un mondo che ha ancora un senso, uno scopo, degli obiettivi ed è un mondo aperto, in cui bisogna far confluire le forze della natura e quelle soprannaturali.

Concludeva Bo in quel suo saggio: il mondo senza Dio, la bellezza che non riesce a guardare in alto, è il mondo della corruzione inevitabile.