Discussione sulle linee generali - Relatore
Data: 
Lunedì, 27 Febbraio, 2017
Nome: 
Davide Mattiello

A.C. 3500-A

Presidente, l'Aula arriva ad occuparsi della proposta di legge n. 3500, a prima firma dell'onorevole Bindi, dopo un lungo percorso che merita di essere sintetizzato, perché rappresenta una bella prova di responsabilità da parte delle forze politiche presenti in Parlamento. Una prova particolarmente significativa, dal momento che parlare di testimone di giustizia significa parlare di contrasto alle organizzazioni criminali di stampo mafioso e, più generalmente, di promozione della cultura della legalità, che spesso passa dal coraggio di chi denuncia il delitto subìto o il delitto cui ha assistito.
  Quando, nell'ottobre 2013, venne costituita la Commissione parlamentare antimafia, la presidente Bindi individuò tra le priorità di lavoro il tema dei testimoni di giustizia, e mi affidò per questo il coordinamento del quinto comitato, che cominciò a lavorare nel mese di maggio 2014 e che, grazie al costante lavoro dell'onorevole D'Uva insieme al mio e di altri colleghi, chiuse l'inchiesta a luglio e propose la relazione a settembre, che la Commissione approvò all'unanimità ad ottobre. Durante il 2015, entrambi i rami del Parlamento hanno discusso e votato a larga maggioranza delle risoluzioni impegnative, auspicando la riforma della normativa posta a tutele e a sostegno dei testimoni di giustizia, secondo le linee individuate dalla relazione medesima. Nel frattempo, insieme ai consulenti e ai funzionari della Commissione antimafia, in una costante e proficua interlocuzione con il Ministero dell'interno, e segnatamente col Viceministro Bubbico, presidente della commissione centrale, abbiamo cominciato ad elaborare un testo che traducesse effettivamente in norme la riforma auspicata.
  Arriviamo così al gennaio 2016, quando contemporaneamente, in entrambi i rami del Parlamento, vengono depositati i testi sottoscritti da tutti i gruppi politici presenti in Commissione antimafia. Proprio a suggello di questa condivisione, la proposta di legge ha come prima firmataria, alla Camera, l'onorevole Bindi, e, al Senato, il vice presidente della Commissione antimafia, senatore Gaetti. La Commissione giustizia della Camera, con lo stesso spirito, sotto la guida della presidente Ferranti, ha avviato negli scorsi mesi l'esame del testo, decidendo di sottoporlo anche alla valutazione di operatori particolarmente qualificati (i procuratori di Torino, Milano, Roma, Napoli, Reggio Calabria, Palermo, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, lo stesso Viceministro Bubbico), raccogliendo ulteriori elementi di riflessione che hanno indotto a qualche limatura aggiuntiva.
  Ed eccoci qua in Aula, consapevoli che, dopo tutto questo cammino, senz'altro positivo ma non breve, ci vorrà uno slancio potente per evitare che esso venga vanificato dalla conclusione della legislatura. Veniamo al testo. Quali sono i suoi obiettivi fondamentali ? Riconoscere piena dignità ai testimoni di giustizia, definirne l'identità e il rapporto con lo Stato. Perché c’è bisogno di riconoscere piena dignità ai testimoni di giustizia ? Perché ancora oggi si fa troppa confusione tra i testimoni di giustizia e i collaboratori di giustizia, e questa confusione deriva anche dal fatto che le norme che si occupano dei testimoni di giustizia non sono altro che una costola della normativa risalente al 1991, legge n. 82, che è appunto quella che tratta dei collaboratori; costola prodotta dal legislatore del 2001 con la legge n. 45 e successive modifiche.
  Ma confondere un testimone con un collaboratore è un'offesa grave, che va evitata, prima di tutto nel lessico e quindi nell'atteggiamento conseguente. Il collaboratore di giustizia, infatti, è un delinquente che decide di negoziare con lo Stato condizioni migliori del trattamento penitenziario, processuale ed economico in cambio di informazioni su reati che questi abbia commesso e che altri abbiano commesso. Talvolta questo negoziato si apre a seguito di una reale conversione esistenziale, ed è per questo che nella vulgata i collaboratori sono spesso definiti «pentiti». Tutt'altra storia è quella dei testimoni di giustizia, che invece sono persone perbene che hanno subìto un crimine, ne hanno visto commettere uno e decidono di reagire denunciando. Vedremo tra poco quali siano nello specifico le caratteristiche che questa scelta deve avere per rientrare nella previsione della presente proposta di legge, ma intanto vale la pena affermare questa differenza per fissare questo primo imprescindibile, improcrastinabile obiettivo: una legge esclusivamente dedicata ai testimoni di giustizia, che ne definisca lo Statuto, evitando qualunque confusione, sia sul piano giuridico, amministrativo e culturale, con i collaboratori di giustizia.
  Così arriviamo al secondo obiettivo, quello di definire l'identità dei testimoni di giustizia ai fini della presente legge, cioè di chi stiamo parlando. Stiamo parlando di chi, denunciando ciò che ha subito o ciò che ha visto, si mette in una condizione di pericolo talmente concreto, grave e attuale da rendere inadeguate le misure di protezione ordinarie, quelle, per intenderci, disposte dal comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica. Questo è un altro aspetto fondamentale su cui spesso c’è confusione. Questa proposta di legge, infatti, non si occupa genericamente dei testimoni processuali, si occupa di quella più ristretta cerchia di testimoni che, in ragione della testimonianza resa, debba essere protetta – e questo fortunatamente non succede né sempre né spesso –, e che debba essere protetta con misure speciali, perché quelle ordinarie non sono adeguate. Di questi e soltanto di questi ci occupiamo. L'oggetto della testimonianza deve essere intrinsecamente attendibile e rilevante ai fini delle indagini o del giudizio, anche perché, se non fosse così, non si capirebbe come il testimone potrebbe esporsi a un pericolo così qualificato. Il testimone deve essere persona che non abbia subito condanne per delitti non colposi, che non abbia o non abbia avuto applicate misure di prevenzione dalle quali si possa desumere l'attualità della sua pericolosità sociale, e soprattutto che non abbia tratto beneficio dai reati che sta denunciando. Per intenderci: l'imprenditore che per anni abbia subìto un'estorsione da parte di un'organizzazione criminale ma che, proprio grazie al rapporto con questa organizzazione, sia stato concretamente avvantaggiato nell'accaparrarsi degli appalti, non potrà essere considerato un testimone di giustizia ai fini della presente proposta di legge, anche se a un certo punto decidesse di denunciare.
  Il terzo obiettivo della legge è quello di descrivere il rapporto tra il testimone e lo Stato. Intanto, chi valuta la gravità del pericolo ? Qual è l'autorità deputata a questo delicatissimo compito e quindi incaricata di proporre per il testimone l'immissione nelle misure speciali ? L'autorità giudiziaria e soltanto l'autorità giudiziaria. Solo i magistrati, che, in rapporto con le forze dell'ordine, conducono le inchieste e sono in grado di apprezzare l'insorgere del pericolo qualificato e il permanere nel tempo di tale pericolo; non l'autorità amministrativa, in particolare non la commissione centrale o il servizio centrale di protezione, che della Commissione è il braccio operativo. Questi sono organi amministrativi dipendenti del Ministero dell'interno, che hanno piuttosto il compito di predisporre e di gestire le misure di protezione speciale, ma non sta a loro definire se e fino a quando un testimone ne abbia bisogno.
  Questo punto lo voglio sottolineare, perché spesso certe aspettative più o meno legittime di alcuni testimoni si scaricano – mi si passi il termine – sulla commissione centrale, quando invece dipendono dalle valutazioni dell'autorità giudiziaria, alle quali la commissione si adegua, deliberando di conseguenza.
 Fatalmente, i contenziosi che si generano sono di carattere amministrativo, perché materialmente ad essere impugnata è la delibera della Commissione ma questo succede perché il testimone insoddisfatto, più o meno legittimamente, non può impugnare le valutazioni dell'autorità giudiziaria che sono il vero nocciolo delle decisioni della Commissione. Ciò posto, stabilita la necessità per il testimone di entrare nel sistema delle misure di protezione speciale, cosa gli succede ? Intanto questi ed eventualmente al suo nucleo familiare, cui noi facciamo riferimento con il termine «protetti», vengono presi in carico dalla Commissione centrale che, sulla base delle valutazioni raccolte, decide se siano sufficienti le speciali misure di protezione o se occorra quella forma specialissima di protezione che è il programma di protezione in località segreta. Da qui in avanti la vita del testimone e degli altri protetti è nelle mani di Commissione e Servizio ed è su questa relazione che siamo intervenuti con alcune delle modifiche più significative. Pur essendo, infatti, il nostro sistema di protezione tra i migliori al mondo, frequenti sono i disagi, i traumi veri e propri cui le persone sottoposte alle misure vanno incontro tanto che queste, alla fine del periodo di affidamento al sistema di protezione, sono sì vive ma non altrettanto vegete. L'affidamento al sistema di protezione lascia spesso dietro di sé la compromissione più o meno irreversibile della posizione lavorativa e quindi sociale, sofferenze fisiche, psicologiche che segnano le esistenze di queste persone a volte per sempre. Come ridurre i danni, come ripararli ? Rendendo il programma speciale in località protetta l'eccezione a favore della protezione in loco attraverso le speciali misure. Quante volte infatti ci siamo detti in questi anni che da certi territori sono i mafiosi che se ne devono andare e non le persone per bene ? Superando la distinzione tra le misure di sostegno economico previste per chi è sottoposto allo speciale programma e chi è sottoposto alle speciali misure, mettendo in questo modo a disposizione l'ampio ventaglio degli strumenti previsti per chi è sottoposto a speciale programma anche a chi è sottoposto alle speciali misure e aggiungendo alcune nuove misure di sostegno economico e sociale come l'indennizzo forfettario per i danni psicologici e biologici derivanti dalla testimonianza resa, l'inserimento lavorativo nella pubblica amministrazione come extrema ratio qualora ogni altra forma di reinserimento occupazionale sia fallita, il sostegno all'impresa con tutti gli strumenti previsti dal codice antimafia per le aziende sequestrate nella forma già approvata da questa Camera nel novembre del 2015 così come la possibilità che al testimone vengano assegnati in uso beni confiscati e gestiti dall'Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati. Inevitabile, Presidente, a questo riguardo che rinnovi il rammarico e la preoccupazione per il gravissimo ritardo accumulato dal Senato sul codice antimafia fermo ormai da un anno e mezzo. Andiamo avanti: si riducono i danni prevedendo la figura del referente del testimone di giustizia individuato all'interno del Servizio centrale di protezione che affianchi i testimoni e gli altri protetti, anche avvalendosi di uno psicologo, fin dal momento dell'inserimento nel piano provvisorio e che resta punto di riferimento senza soluzione di continuità fino a che l'affidamento al sistema non sia terminato con soddisfazione del testimone; prevedendo esplicitamente l'incidente probatorio e la videoconferenza come strumenti cui l'autorità giudiziaria debba ricorrere per raccogliere nel procedimento le dichiarazioni del testimone – basta con la sovraesposizione in Aula del testimone insomma – e riorganizzando infine la Commissione centrale in modo tale da prevedere la nuova figura del vicepresidente della Commissione, designato all'interno dei membri della Commissione medesima, che affianca il presidente che di norma è un sottosegretario o un viceministro dell'interno. Questa novità, che si deve in particolare alla sensibilità del Viceministro Bubbico, ha il pregio di garantire continuità operativa e quindi tempestività ai lavori della Commissione potendo il vicepresidente della Commissione continuare a far lavorare la Commissione medesima anche in quei casi, purtroppo non infrequenti, di vacanza del ruolo del viceministro delegato magari a causa di una crisi di governo. Mi avvio alle conclusioni, Presidente. Dentro ogni buona riforma c’è un sogno e anche dentro questa ce n’è uno. È forse quello di avere da domani mille, diecimila nuovi testimoni di giustizia ? No.
  Noi desideriamo che in futuro i testimoni di giustizia per come li abbiamo considerati in questa proposta di legge non ci siano più. Il nostro sogno è zero testimoni di giustizia. Può sembrare un paradosso soltanto a chi sfugga che stiamo parlando di persone che, in ragione delle denunce fatte all'autorità giudiziaria, si espongano ad un pericolo tale da non poter essere protette adeguatamente con le misure ordinarie, un pericolo che si comprende soltanto pensando ruolo cardinale che queste persone assumono come fonte di prova nel procedimento giudiziario. Rischiano così tanto perché loro sono la prova vivente della colpevolezza dell'imputato. Noi dobbiamo lavorare affinché sempre di più la prova del crimine venga trovata a prescindere dalla dichiarazione del testimone, scommettendo sempre di più sulle potenzialità straordinarie delle nuove tecnologie. Non dimentichiamoci che la normativa madre da cui tutto discende, quella del 1991, fu ideata e voluta fortemente da Giovanni Falcone. Non è un caso che Falcone non avesse allora nemmeno presi in considerazione la figura del testimone di giustizia, eppure ne avrebbe avuto ben donde sul piano della raccolta delle prove. Stiamo infatti parlando di un'epoca, gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, in cui non esisteva il web, non si spedivano mail, non c'erano i droni e nemmeno i trojan ma Falcone aveva ben chiaro che il contrasto alla criminalità organizzata soprattutto di stampo mafioso fosse una guerra che lo Stato dovesse combattere con le sue energie migliori, senza pretendere da inermi cittadini una disponibilità esorbitante. Oggi, ventisette anni dopo, non è possibile tergiversare proprio in considerazione delle sofferenze fisiche e psichiche cui comunque i testimoni di giustizia vanno incontro, sofferenze che sono state enormi in particolare per quegli uomini e quelle donne che hanno scelto la via della denuncia in un tempo in cui non esisteva nemmeno uno straccio di norma a loro tutela. Tali uomini e donne per la legalità si sono affidati completamente allo Stato. Voglio ricordarne due per tutti che simbolicamente sono stati due testimoni da cui abbiamo voluto iniziare la nostra inchiesta nel maggio 2014: Piera Aiello da Montevago e Pino Masciari da Serra San Bruno. A loro e a tutti i testimoni di giustizia che ancora oggi stanno nel sistema di protezione deve andare la riconoscenza della Repubblica italiana che non ha ancora fatto i conti fino in fondo con la cultura mafiosa, con la cultura dell'omertà, del farsi i fatti propri per evitarsi i problemi e lo dobbiamo in particolare ad una giovanissima siciliana che la vendetta mafiosa preferì la giustizia nella legalità e che per questo si affidò allo Stato che per lei ebbe il volto e le premure di Paolo Borsellino. Lo dobbiamo a Rita Atria che, in ragione delle importanti dichiarazioni fatte, era stata allontanata dalla famiglia ancora minorenne, sottoposta a protezione e trasferita infine in un appartamento romano. Lo dobbiamo a Rita che scelse di non sopravvivere alla morte di Paolo Borsellino e che ci lasciò l'onere di impedire per il futuro tanta violenza e tanta sofferenza.