Grazie, Presidente. Ho il compito di presentare la mozione con cui il Partito Democratico chiede al Governo di consolidare, anzi, di consolidare, rafforzare ed estendere l'esperienza positiva del reddito di inclusione, potenziando quella rete di servizi sul territorio la cui presenza consente di trasformare uno strumento di mero sostegno al reddito in un più completo progetto per l'autonomia, credibile e sostenibile al contempo; autonomia della persona, signor Presidente, con la sua rete di relazioni familiari, indebolita dal bisogno economico, con la sua fragilità esistenziale che chiede di essere presa in carico dai servizi territoriali, con il bisogno di senso che solo il lavoro, e il lavoro equamente retribuito, può riconsegnare a soggetti resi vulnerabili da eventi avversi.
Il Partito Democratico ritiene che questa prospettiva sia profondamente coerente con l'impegno che il secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione pone a carico della Repubblica e che, pertanto, la misura in esame possa e debba essere considerata uno strumento di attuazione della predetta norma costituzionale, ma, alla stessa stregua, riteniamo siano da considerare anche le altre due iniziative legislative che il Partito Democratico ha già messo in campo, sentendo l'urgenza di offrire al Parlamento e al Paese una agenda sociale coerente, realistica e, soprattutto, di immediata operatività; mi riferisco alle tre proposte di legge sul reddito, sulla genitorialità e sull'equità salariale che portano a più avanzato compimento processi di innovazione legislativa ed amministrativa già avviati negli anni passati.
Trasformare i bisogni in politiche pubbliche è l'obiettivo della nostra agenda sociale, ma credo sia anche il compito proprio di quest'Aula, nella quale sono presenti sensibilità e culture profondamente differenti, ma egualmente consapevoli del fatto che il bisogno non può e non deve essere trasformato in strumento di consenso; ed invoco, invece, un approccio tipicamente riformista, impregnato di attenzione verso gli effetti di lungo termine, caratterizzato da una logica di progressività, orientato alla costruzione di un sistema integrato di servizi alla persona, prima ed oltre che alla monetarizzazione del bisogno stesso. Questo è l'approccio già messo in atto dal Partito Democratico nella scorsa legislatura che ha voluto affiancare alla parola “reddito” l'altra, e per noi più importante, di “inclusione”, volendo chiaramente esprimere che quella introdotta è una misura a carattere universale, condizionata alla prova dei mezzi, come usuale, ma, anche e soprattutto, all'adesione ad un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativo, finalizzato all'affrancamento dalla condizione di povertà. Questo è un punto decisivo.
L'obiettivo del reddito di inclusione non è tanto di assicurare, a chi è sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, il mantenimento e l'assistenza sociale, e cito così il primo comma dell'articolo 38 della Costituzione, ma, semmai, di concorrere a rimuovere quegli ostacoli che l'articolo 3 della nostra Costituzione considera come limiti allo sviluppo personale e alla partecipazione piena alla vita del Paese. Il modello così creato funziona e funziona seriamente; lo dice l'INPS, nella relazione annuale del suo Presidente, e, secondo le stime, entro la fine dell'anno, le famiglie beneficiarie raggiungeranno quota 700.000, corrispondenti a quasi due milioni e mezzo di persone. Chi ricorda i 50 milioni stanziati una tantum nel 2012 per la nuova Social card, avrà immediata percezione di cosa vuol dire avere, ora, una misura permanente che vale oltre 2 miliardi e 300 milioni di euro, nel 2018, e quasi 3 miliardi di euro a partire dal 2020. Consapevoli e, consentitemi, giustamente fieri di questo risultato, il Partito Democratico ha presentato una proposta di legge destinata a rafforzare ulteriormente la misura e a sollecitare l'orientamento dei beneficiari verso comportamenti proattivi e, poiché riteniamo che la presa in carico da parte dei servizi, debba essere effettiva, abbiamo proposto, anche in deroga ad ogni vincolo, di assumere assistenti sociali, presi in carico da parte dei servizi, signor Presidente, perché le persone in situazione di povertà non hanno bisogno di un mero sostegno economico, ma di qualcuno che li accompagni in un percorso di ristrutturazione della loro intera esperienza personale, sociale e professionale. È questo un punto sul quale vorremmo ancorare l'attenzione dell'Aula e del Governo, che, pure nel suo contratto fondativo, ha dedicato molto spazio al reddito di cittadinanza, misura questa le cui ambiguità di fondo sono correlate essenzialmente al modello socio-antropologico di riferimento: l'individuo senza lavoro, direi quasi senza famiglia, senza storia personale, senza reti di relazioni; cittadino italiano, perché ai contraenti governativi poco importa di quanto la Corte costituzionale da anni va ripetendo sull'estensione del principio di non discriminazione, al quale si chiede di iscriversi obbligatoriamente al centro per l'impiego, ma senza nessuna interazione con i servizi sociali territoriali come presupposto per maturare il diritto al beneficio economico. Ma così configurato, il reddito di cittadinanza non è una misura contro la povertà, e non interviene per nulla sulle condizioni di deprivazione che la generano e che da questa sono a loro volta generate, viceversa è solo una tradizionalissima misura lavorista dall'importo tanto elevato da determinare un sicuro effetto di fuga dal mercato del lavoro regolare; un effetto ben conosciuto, signor Presidente, e dico questo da meridionale, consapevole degli effetti perversi che nel tempo hanno avuto alcune misure di sostegno al reddito.
E a rendere ancora più discutibile il progetto governativo è il tentativo di trasformare la misura di cittadinanza in una manovra di politica economica, al fine di ottenere in sede europea spazi di flessibilità. La revisione al rialzo del PIL potenziale, realizzata tramite l'aumento del tasso di partecipazione della forza lavoro e il conseguente peggioramento del rapporto tra PIL potenziale e PIL effettivo, dovrebbe permettere, nella prospettiva fatta proprio dal Ministro l'altro giorno, nell'audizione con le Commissioni riunite, di realizzare un deficit strutturale maggiore in termini assoluti, utile per finanziare la misura. In estrema sintesi, più che lavoro, il reddito di cittadinanza sembra destinato a generare debito. Confesso di apprezzare lo slogan del Maggio francese: la fantasia al potere. Ma le parole del Ministro sono un esempio da manuale di ciò che può succedere quando la realtà supera la fantasia. A prescindere dal fatto che il modello di calcolo dell'output gap è questione su cui Italia, Francia, Portogallo e Spagna hanno chiesto di avviare una discussione politica in sede comunitaria - sulla quale non mi soffermo -, resta il fatto che proprio la ricerca affannosa di vie impervie per recuperare risorse future da destinare alla misura proposta dimostra inequivocabilmente l'inesistenza attuale di risorse disponibile per realizzarla. La verità è molto semplice: non ci sono soldi per il reddito di cittadinanza e si rinvia strumentalmente ad una riforma dei centri per l'impiego. Inoltre, l'assenza di ogni riferimento ai servizi sociali territoriali dimostra un'idea arcaica e parziale di povertà come assenza di lavoro e non come condizione di deprivazione multifattoriale quanto all'origine e multidimensionale quanto agli affetti. È per queste ragioni che il Partito Democratico, consapevole dell'urgenza drammatica del problema povertà nel nostro Paese e della necessità di dare risposte forti ed immediate, senza rinviare a futuri interventi, tutti ancora da costruire e da finanziare, propone di dare continuità all'applicazione di una misura di contrasto alla povertà e dell'esclusione sociale già oggi operativa, credibile, sostenibile sul piano economico, ma soprattutto coerente ed adeguata rispetto all'obiettivo di accompagnare i soggetti deboli in un processo di riconquista della loro autonomia.
Il reddito di cittadinanza è una risposta sbagliata ad un problema reale. Viceversa, consolidare, rafforzare ed estendere il reddito di inclusione è la via maestra per dare attuazione all'articolo 3 della Costituzione: non un aiuto estemporaneo, ma una misura sistemica ed integrata per iniziare a rimuovere gli ostacoli - e sono veramente tanti - che di fatto limitano la libertà della persona, ne impediscono il pieno sviluppo e rendono impossibile la piena partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).