Grazie, Presidente. Io credo che questa sera stiamo affrontando una discussione su un tema molto importante, anzi, va dato atto ai colleghi del gruppo di Forza Italia di averlo opportunamente sollevato, con la prima di queste mozioni, ed è un tema che, naturalmente, riguarda il presente, ma, soprattutto, il futuro dell'Italia. Noi - lo richiamo solo per mia memoria, Presidente - siamo una nazione che è nel pieno del travaglio dell'Occidente produttivo, in questo momento in cui l'economia globale sta cambiando, un Paese di trasformazione, un Paese che vuole - spero che su questo siamo tutti d'accordo - mantenere il suo livello di industrializzazione e presenza fra i grandi produttori del mondo e, come dicevamo prima, il tema della globalizzazione, che ha avuto aspetti anche significativi per molte parti delle economie mondiali, per molte popolazioni che sono uscite dall'indigenza, ha avuto ed ha, anche, degli aspetti negativi, soprattutto per noi che viviamo nella parte di quello che una volta si sarebbe definito l'Occidente industriale del mondo. Infatti, a fianco dell'apertura di nuovi mercati, a fianco delle nuove possibilità di espansione, ci sono fenomeni come questo della delocalizzazione, ovverosia, signor Presidente, dello spostamento di tutto o di parte di sistemi produttivi o, addirittura, di quartieri generali di aziende, verso altri lidi, che sono, effettivamente, un danno alle economie che li subiscono.
Certamente, è già stato detto, questi fenomeni di spostamento avvengono e sono avvenuti su modelli e per motivi non encomiabili, un tema di dumping, un tema di concorrenza, di ricerca di una malsana competitività sui costi, sfruttando Paesi con un costo del lavoro inferiore, quando il costo del lavoro è importante per unità di prodotto, ma anche Paesi - e ci ricordiamo tragedie su questo - in cui si possono più agevolmente bypassare o non esistono, addirittura, normative del lavoro da Paese avanzato o, addirittura, anche le regole ambientali delle produzioni sono, come dire, più lasche. E questi vantaggi, diciamo così, malsani creano una certa stabilità per qualche azienda, ma drogano il mercato e, a lungo termine, sono nocivi per le aziende stesse che li praticano.
Su questo, però, signor Presidente, vorrei che noi non facessimo troppa confusione fra delocalizzazioni e internazionalizzazioni delle aziende, perché, nel dibattito, mi è capitato di sentire accostare queste due fattispecie; da un lato, si può spostare un insediamento produttivo per le motivazioni che indicavo prima e questo è estremamente nocivo, come dicevo, è estremamente nocivo per il sistema che lo subisce e, a lungo andare, anche per l'azienda che lo pratica; però, poi, ci sono anche fenomeni di spostamento di tutte o parti delle attività produttive che sono collegati, non a scelte, ma a obblighi imposti da questo sistema di produzione. Si può essere costretti a dover aprire una sede in un Paese estero per le condizioni di quel Paese, ricordo, per esempio, la Cina di diversi anni fa, con un'economia non propriamente di mercato, che aveva dei requisiti anche di presenza; si può essere costretti anche sui termini di una presenza su mercati e sulla logistica delle distanze. Quindi, vediamo, anche nel fenomeno di questi spostamenti, chi adotta comportamenti assolutamente scorretti e chi, invece, stando sui mercati globali, segue delle logiche che, poi, portano un vantaggio all'Italia, perché queste aziende sono e rimangono italiane.
Allora, sulle delocalizzazioni, anche qui, ho sentito diverse cose; anche qui vorrei fare alcune osservazioni; le delocalizzazioni, nella fattispecie negativa che indicavo, hanno colpito tutti i Paesi di antica industrializzazione dell'Occidente e in questo l'Italia, probabilmente, meno di altri, meno degli Stati Uniti, meno della Germania; e anche i numeri che ho sentito in quest'Aula, che provengono da un importante studio di Confartigianato, cioè l'aumento degli occupati nelle aziende a controllo italiano, nelle aziende italiane con sede all'estero, del 12 per cento fra il 2007 e il 2015, pari circa a 94.000 dipendenti, sono un segno di quella crescita. Per inciso, l'occupazione in Italia, fra il 2014 e il 2017, è cresciuta di 1.100.000 unità, per fortuna. Ma questo numero, che all'apparenza è così negativo, possiamo confrontarlo, sempre in quello studio - perché la verità ha sempre tante facce -, con i Paesi ospiti di quelle delocalizzazioni. Tra i primi dieci Paesi è vero che ci sono sei Paesi che hanno un costo del lavoro inferiore a quello dell'Italia, ma il primo Paese di delocalizzazione indicato in quello studio sono gli Stati Uniti, poi c'è la Francia, la Germania, la Spagna, che certamente non hanno il problema del costo del lavoro, ma hanno altre ragioni di mercato per quella presenza. Anche la Cina, come dicevo, aveva in parte temi del costo del lavoro e regole del mercato interno.
Da questo punto di vista, il deprecabile fenomeno di utilizzare spostamenti per guadagnare capacità di mercato, lucrando sul lavoro, sulle condizioni del lavoro, sul costo del lavoro, sulle regole ambientali, va combattuta. Ci sono poi questioni diverse. Sempre nel 2015, faccio presente che l'incidenza dell'industria sull'export italiano era del 79 per cento; praticamente, l'80 per cento di quello che esportavamo in quell'anno erano prodotti industriali. È un punto importante, perché noi abbiamo assistito all'esplosione dell'export in questi anni, che ci ha tenuto a galla nella crisi. La Germania aveva il 70 per cento, la Francia il 66 per cento, e l'Olanda il 28 per cento; il resto, per l'Olanda, erano prodotti che derivavano da transazioni commerciali, i grandi porti di arrivo nel Mare del Nord, il commercio. È chiaro, quindi, che l'Italia continua ad avere questa vocazione industriale. Dobbiamo stare attenti, quando parliamo di questi temi, anche alle nostre aziende che operano nei mercati internazionali in maniera positiva.
Poi si sta evidenziando un fenomeno che è già stato richiamato, che è il fenomeno del ritorno. Non è di oggi, è di questi anni il back-reshoring, il ritorno verso le origini. È un ritorno delle produzioni che - commento anch'io i dati dello studio condotto dalle diverse Università (Bologna, Reggio, L'Aquila, Udine, Catania) nell'ambito dell'Osservatorio sulle ristrutturazioni in Europa - ci dice quello che qualche collega ha già detto: l'Italia, sui 700 casi analizzati, è il primo Paese per ritorni in Europa, il secondo nel mondo. È vero che le la maggior parte dei ritorni arriva dal lontano Oriente, ma non è vero che è solo sistema del fashion. È vero che il tessile, la pelletteria, gli accessori sono una larga parte di questo ritorno, ma ritornano anche le produzioni tecnologiche e di qualità: l'elettronica, le macchine elettriche, sistemi che erano stati delocalizzati. Perché ritornano? È già stato detto, però su questo vorrei un attimo soffermarmi anch'io. Tutti abbiamo concordato che una delle prime questioni è il made in. Certamente, se la moda, il fashion, costituiscono il 40-45 per cento di questo ritorno, è chiaro che è così. Io stesso vengo da una realtà in provincia di Bologna dove una delle più grandi e note aziende italiane di pelletteria e borse, che aveva stabilimenti in Cina, ha riportato in Italia le grandi produzioni di qualità. Ma come si difende allora il made in Italy? Tante cose sono state dette, faccio solo due osservazioni. Quando parliamo di italian sounding, quando parliamo di difendere, sui mercati esteri, in Paesi che hanno una legislazione diversa, i nostri prodotti, servono i trattati, servono i trattati sul commercio, perché lì sta la difesa dei nostri prodotti.
Allora farei molta attenzione quando si mettono in discussione trattati. Così come, è vero, c'è il tema dell'etichettatura: una battaglia annosa che hanno condotto diversi Governi nella XV, nella XVI e XVII legislatura. Sottolineo al Governo che per superare il problema dell'obbligatorietà, in cui c'è un'ampia discussione a Bruxelles, in questo ramo del Parlamento, nella scorsa legislatura, è stata approvata, a tutela del consumatore e notificata a Bruxelles, una legge per l'etichettatura volontaria in cui il Governo, il Paese, dava incentivi alle aziende italiane che volevano indicare la tracciabilità dei loro prodotti per testimoniarne la genuinità o la qualità produttiva. Questa legge si è fermata - perché non è stata convertita - al Senato, era già stata approvata alla Camera. Era già stata notificata a Bruxelles, e scavalcava il tema dell'obbligatorietà.
Il tema del made in, dicevo, è uno dei primi, ma poi abbiamo anche il tema della produzione, della qualità della produzione in Italia, molto migliore che all'estero; la competenza dei lavoratori, la possibilità di seguire al meglio i clienti e, naturalmente - si diceva prima -, la logistica. Da questo punto di vista, gli incentivi sono una delle ultime voci nell'ambito del ritorno a casa: solo lo 0,8 per cento degli intervistati ha indicato questo come elemento importantissimo per il rientro, mentre indicava gli altri.
È un fenomeno mondiale, quello di favorire la spinta al ritorno, la spinta al reshoring. Gli Stati Uniti, che sono stati forse l'economia più colpita, perché sono un grande mercato aperto (300-350 milioni di consumatori), hanno perso in pochi anni 5 milioni di occupati nell'industria. Già Barack Obama fece partire il programma Backtomanufacturing, fatto di incentivi fiscali, abbassando le tasse a chi rientrava - questione che anch'io trovo abbastanza avanzata, perché potrebbe penalizzare chi non se ne è andato - e fatto di moralsuasion. Però certamente Trump - vedremo cosa avrà in serbo per questo -, un mercato come gli Stati Uniti cerca di proteggerlo escludendo gli altri, cosa che noi ovviamente non possiamo fare; noi assolutamente siamo penalizzati da una chiusura dei mercati altrui. La Francia stessa ha un programma importante, pur non avendo una manifattura come la nostra e come la Germania in termini di peso specifico, puntando come sempre sulle condizioni Paese: un Paese ordinato, con una burocrazia veloce e precisa, con ricerca e sviluppo fra le più agevolate in Europa, con regole fiscali che aiutano i ritorni delle aziende, però intese come quartier generali, intese come testa delle aziende stesse; e hanno un programma di localizzazioni e aiuti che aiuta le aziende a reinsediarsi.
Su questo devo dire che il made in Italy è stato importante, che tutti i motivi che ho citato sono stati importanti per far sì che l'Italia sia il primo Paese di ritorno in Europa, ma mentirei se non dicessi che sono state importanti anche le politiche per l'industria e per la manifattura che sono state messe in atto in questi anni. Dal 2013 al 2018 non c'è stata solo l'idea di superare la crisi, c'è stato un modello di come superare la crisi. Cito solo alcune piccole cose, che hanno una grossa rilevanza. Non torno a parlare di Industria 4.0, di cui hanno già parlato i colleghi, che è fondamentale per il futuro della manifattura italiana, per la sua competitività, quindi per il ritorno delle produzioni, ma connessa a questo c'è anche una grande parte di formazione del personale, il Fondo per la reindustrializzazione, che è stato approvato nel febbraio 2018 (200 milioni di euro, al quale si aggiungono 850 milioni per processi di reindustrializzazione); il tema dei fondi per il made in Italy; il tema della “Nuova Sabatini” dell'iper-ammortamento; si è detto dell'IRAP, e quant'altro. Molte misure - e vado a concludere, Presidente - che hanno aiutato e reso più attrattivo il nostro Paese.
La delocalizzazione non si combatte solamente con le sanzioni, anzi. La delocalizzazione si combatte con molteplici fattori: con la qualità del nostro Paese, con gli incentivi all'imprese, con le buone scuole, con l'innovazione e la ricerca. Fascino, qualità e tecnologia sono le caratteristiche italiane, purtroppo nel decreto dignità vediamo un po' una grida manzoniana da questo punto di vista, che non avrà molti effetti, ma noi riteniamo che, se quello che abbiamo sentito sulle mozioni verrà messo in pratica, l'idea di politiche attive in questo senso sia quella vincente e noi saremo al vostro fianco se continuerete su questa strada.