Data: 
Lunedì, 25 Febbraio, 2019
Nome: 
Roberto Morassut

A.C. 712-A

 

Presidente, la proposta di legge in discussione prevede una deroga, di fatto generale, per la partecipazione pubblica nel settore lattiero-caseario e dei prodotti alimentari in genere dalle indicazioni del testo unico per le partecipate approvato nel 2016, che, a sua volta, come tutti sanno e ricordano, aveva escluso queste aziende dal campo della gestione pubblica. Le motivazioni di quella scelta non erano improvvisate, e non erano un tributo ideologico ad un europeismo dei vincoli o delle privatizzazioni; venivano da una lunga evoluzione legislativa, non solo italiana, almeno di un decennio, che nasceva anche sulla base della concreta esperienza, e dei dati di fatto, della constatazione che l'impegno pubblico attraverso gli enti locali e le loro emanazioni operative nel settore alimentare rappresentava ormai, nella maggior parte dei casi, un freno alla crescita del mercato, in molti casi una condizione impropria di monopolio in un settore decisamente non strategico, e in altri casi addirittura un ostacolo anche ad una migliore qualità del prodotto e dei suoi derivati. Questa è in gran parte la storia di molte delle centrali del latte e delle aziende municipalizzate di questo settore degli anni Novanta, tranne rari casi o eccezioni, e l'azienda di Brescia di cui si è parlato in Commissione era ed è in qualche modo tra queste eccezioni.

Lo stato delle aziende pubbliche o partecipate nel settore del latte o alimentare era caratterizzato, tranne rare eccezioni, da negatività di bilancio, da forti passività, debiti che gravavano sulle economie pubbliche. Avendo io vissuto per diversi anni le vicende politiche e amministrative del comune di Roma, sono testimone diretto di quanto ha riguardato nello specifico la vicenda della Centrale del latte di Roma, forse una delle più grandi e forse una delle più antiche. Come la gran parte delle aziende partecipate o interamente pubbliche di produzione e distribuzione del latte in Italia, era sorta - mi scuserà questa brevissima parentesi storica, ma essenziale - agli inizi del secolo per esercitare un controllo pubblico ed in primo luogo sanitario sulla produzione del latte, la cui lavorazione da parte delle aziende agricole o di semplici allevatori non sempre garantiva la distribuzione di un prodotto sano, sterilizzato e pastorizzato. Fino agli anni Sessanta, nelle campagne italiane, ma non solo, una delle malattie infantili o dell'adolescenza più diffuse era la cosiddetta brucellosi, altrimenti conosciuta come febbre maltese, che proprio deriva da un consumo o contatto con un latte di mucca esposto all'azione di batteri di vario tipo per la mancanza di un'accorta lavorazione di pastorizzazione e sterilizzazione. Come è noto, la pastorizzazione è un procedimento in primo luogo termico, che viene applicato ad alcuni alimenti per debellare i rischi di virosi, di proliferazioni batteriche, senza incidere però sul valore nutritivo dell'alimento stesso. Benché questa parola, come è evidente, tragga origine dal nome del noto biologo e chimico francese Louis Pasteur, che per primo l'applicò nel procedimento alla birra e al vino, la pastorizzazione del latte iniziò ad essere effettuata alla fine dell'Ottocento in modo sempre più esteso e sistematico anche per combattere la tubercolosi. È sulla spinta di queste scoperte e della crescente urbanizzazione delle città italiane che fu necessario in qualche modo contare su una regia pubblica e su un controllo della produzione del latte. A Roma, nei primi anni del secolo, durante la sindacatura Nathan, fu quindi avviato il primo nucleo di servizio pubblico del settore in una città che era cresciuta di 600.000 abitanti in poco meno di trent'anni, dopo la presa di Porta Pia.

La popolazione era per larga parte proveniente dalle campagne dell'intorno, e l'approvvigionamento del latte seguiva le linee dell'inurbamento. Ho fatto questa parentesi non per tediare chi ascolta e chi assiste, ma per ricordare che il senso della funzione pubblica in termini di gestione diretta del latte e dei suoi derivati è una cosa del Novecento, della prima metà del Novecento, maturata e sviluppatasi per ragioni sociali e sanitarie prima ancora che economiche; e come tutte le iniziative pubbliche a scopo sociale, non era mirata ad un obiettivo di realizzazione di un profitto o di un vantaggio economico per la collettività, ma finalizzata a scopi di protezione dai rischi generali di carattere sociale. È un settore pubblico sorto quindi per essere in qualche maniera un costo; e in quell'epoca aveva evidenti finalità strategiche, perché quel costo, in ultima analisi, serviva a scongiurare rischi importanti e generatori di costi ancor più gravi in termini sanitari ed assistenziali.

Sta di fatto che (per restare brevemente alla Centrale del latte di Roma, che è un'esperienza abbastanza topica e particolare, che in questa discussione possiamo assumere appunto ad un esempio delle grandi aziende pubbliche del settore) essa giunse alla fine degli anni Novanta ad essere un'azienda decotta, schiacciata dai debiti generati anche da anni di clientelismo e saccheggio da parte dell'occupazione di potere dei partiti e delle loro correnti interne, un'azienda che ormai non aveva più lo scopo di tutela sanitaria di quasi un secolo prima e nemmeno riusciva più, a causa dei suoi debiti, a tutelare la rete degli allevatori e dei produttori del territorio cui era storicamente legata. Per questo si decise di venderla, dopo un referendum popolare, e sottoporla alla prova del mercato.

La Corte dei conti (è stato richiamato) nella sua relazione depositata in audizione in Commissione agricoltura, sottolinea oggi con grande nettezza ed evidenza la necessità di considerare che le esigenze di tutela sanitaria non rientrano più, né potrebbero, nelle competenze di un'azienda di settore, ma afferiscono, come è naturale, alle competenze specifiche e specializzate del Sistema sanitario nazionale, attraverso l'Istituto superiore di sanità, le ASL ed i poteri vigilanti rispettivi dei Ministeri competenti.

Il carattere strategico dell'impegno pubblico, in questo come in altri settori, è invero molto discutibile, anzi anche abbastanza inesistente, stante il fatto che non sussistono più oggi le esigenze di tutela sanitaria dell'inizio del secolo scorso, e che queste sono comunque garantite più efficacemente dallo Stato nel suo complesso. Tornare ad una gestione pubblica o diretta, incentivarla, non ha altro significato alla fine che quello di inviare un illusorio segnale di tutela dei bacini produttivi locali e regionali, nell'astratta credenza che la presenza di un soggetto pubblico possa tutelarli nel mercato della concorrenza di competitori più agguerriti sul prezzo e sull'organizzazione, grazie ai ben noti effetti della globalizzazione sul costo del lavoro e della produzione in altre aree nel mondo o in Europa, soprattutto in Europa. Si tratta in realtà di illusorie credenze e di miraggi, che rischiano presto di infrangersi sulla dura realtà dei conti di aziende pubbliche che in questo settore - tranne rari casi, ripeto, come ho già detto - sono quasi tutte andate incontro a gravi rovesci, trascinando con sé proprio i sistemi regionali e locali di produttori ed allevatori.

Comprendiamo gli argomenti e le preoccupazioni esposti in audizioni dalle organizzazioni di impresa e della cooperazione del settore lattiero-caseario. E del resto, lo stesso testo unico, al comma 9 dell'articolo 4 (quindi il testo in discussione che si chiede di modificare), già lascia aperte le porte del servizio pubblico a quelle realtà e a quelle aziende che, come nel caso di Brescia, dovessero dimostrare, fatti e numeri alla mano, la propria virtuosità, sia in termini di risultati economici performanti sia in termini di efficacia dei risvolti sociali e sanitari e di sicurezza pubblica.

In realtà, tutta la filosofia dell'ordinamento attuale in materia di aziende di pubblico servizio si muove nella direzione di favorire una logica di mercato e di concorrenza incardinata sulla base del miglior servizio per gli utenti, ma lascia aperta sempre la discrezionale scelta dei comuni di restare attivi con proprie aziende o di affidare loro in house determinati servizi pubblici o di investire in determinati servizi pubblici, se essi dimostrano di garantire costi e qualità adeguati e convenienti. Come si vede, è una logica molto pragmatica, nient'affatto ideologica, e che parte dal merito, almeno nei presupposti parte dal merito.

Bisogna stare quindi molto attenti a non scadere in un ideologismo opposto, di segno opposto. Oggi generalizzare ed estendere a tutti, senza distinzioni, aprendo le porte erga omnes, le opportunità previste dal comma 9 dell'articolo 4 del testo unico per le società partecipate, senza una garanzia statistica del reale stato di salute delle aziende che si chiedono in deroga o della convenienza degli eventuali investimenti per l'ingresso o reingresso del pubblico nel settore attraverso municipalizzate, ci fa rischiare molto: ci fa rischiare di riesumare - scusate l'espressione - dei cadaveri aziendali, la cui esperienza è stata sostanzialmente superata dai fatti e dalla storia. Ed è questo il caso della Centrale del latte di Roma, privatizzata nel 1998, virtualmente restituita al comune da una sentenza del Consiglio di Stato, con tutti i gravami che essa avrebbe prodotto, di debiti e di accolli vari; quindi, tornata ai privati ed oggi in balìa della latitanza di una giunta che nella capitale sta distruggendo tutto il settore del comparto dei servizi pubblici, dai trasporti ai rifiuti (ma questa è una considerazione politica che qui trova e deve trovare uno spazio limitato).

In secondo luogo - e ho concluso - si rischia con questo provvedimento di moltiplicare i nuovi “poltronifici” e di aggiungere alla biada altra biada alla famelica e mai doma bulimia di posti da gestire delle correnti partitiche, sindacali, delle lobby di interessi, che ormai dominano il campo sconfinato delle nomine pubbliche, spesso e volentieri fuori da ogni valutazione di merito.

In terzo luogo, si corre il rischio di aprire un varco ad ulteriori deroghe (e segnali ne abbiamo avuti tanti nella discussione di questa legge e anche del testo unico del 2016) ad altri settori, dove si cercherà di favorire il ritorno, l'ingresso del pubblico, la qual cosa anche sottolinea con chiarezza la Corte dei conti nella sua audizione.

Infine, nessuna garanzia di un sano investimento pubblico nella situazione attuale deriva dall'esame delle concrete e residuali esperienze di municipalizzate e di società partecipate pubbliche nel settore lattiero-caseario, tranne - ripeto - le rare e già citate eccezioni. E, quindi, è forte il rischio di investimenti non redditizi, che si trasformano e si configurano di fatto come dei trasferimenti assistenziali a settori non produttivi.

Nel settore alimentare, invece, dovrebbe esercitarsi in modo speciale la natura tipica degli enti locali regionali, la capacità di programmazione e di fare politiche di scala territoriale. Si parla di nuove regioni, di nuove competenze, di autonomie differenziate, corroborate, ma mai si giunge nella discussione politica italiana alla concretezza dei problemi, al vero tarlo del regionalismo italiano, nel quale la funzione di indirizzo, di controllo, di programmazione dei sistemi regionali, e quello alimentare ed agricolo è tra i principali, non viene esercitata nella misura dovuta, ma le regioni tendono sempre a competere con i comuni e le province per gestire le cose, non per programmarle. È qui, invece, che andrebbe esercitata la funzione pubblica, per dare risposte alle preoccupazioni dei settori, delle aziende, dei produttori e degli allevatori; preoccupazioni legittime: offrire regole, programmi, pianificazioni, indirizzi, matrici legislative, politiche di settore, e non carrozzoni clientelari e burocratici, per magari acquistare la produzione, per soddisfare un mercato locale ristretto ed assistito, e poi distruggere il prodotto, come spesso è accaduto.

Per queste ragioni, non nascondiamo - pur non avendo una pregiudiziale contrarietà - perplessità su un provvedimento che, pur rispondendo, così, vagamente, ad un'esigenza, ad un impulso di un importante settore dell'economia nazionale e locale, non sembra andare nella direzione giusta per dare risposte a queste domande, e rischia anzi di creare nuovi problemi e riproporne di antichi che pensavamo superati.