A.C. 1511-A e abbinate
Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 ha visto - io dico purtroppo - la prevalenza dei “no” alla riforma costituzionale, ma questo è il dato che ha dato il Paese; aveva come obiettivo, però, quel referendum, il superamento del bicameralismo paritario. Oggi diventano inevitabili nuove discussioni, in parte ci sono state anche nuove decisioni, sul tema delle riforme costituzionali. Però questa discussione induce a un'attenta riflessione, per quanto si è già arrivato a un primo punto d'incontro, come ha detto il collega Ceccanti.
Com'è noto, l'Italia è uno dei pochissimi Paesi a conservare un sistema parlamentare bicamerale perfetto, con due Camere, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, che svolgono identiche funzioni legislative. In altri Paesi, infatti, le Camere svolgono funzioni differenziate oppure è prevista un'organizzazione istituzionale monocamerale. Il Senato italiano si ispira ai modelli delle cosiddette camere alte, presenti nei primi sistemi istituzionali liberaldemocratici, nati per lo più nell'Ottocento dalla crisi delle monarchie assolute dell'Ancien Régime. Le costituzioni o gli statuti concessi dai sovrani introducevano il principio dell'elettività della rappresentanza nazionale con le elezioni dei Parlamenti, ma mantenevano agli stessi sovrani alcune prerogative, tra le quali, appunto, la facoltà di nominare i membri delle camere alte. Questo breve excursus storico serve poi a giustificare il perché bisogna modificare profondamente, invece, sia l'elettorato attivo che quello passivo.
Il modello a cui ci si ispirava era quello inglese della Camera dei Lord, residuo dell'antica assemblea medievale, dove sedevano i rappresentanti della nobiltà e del clero. Anche il Regno d'Italia ispirava il proprio modello istituzionale a quello inglese. La camera alta assunse, pertanto, il nome di Senato, come quello dell'antica Roma, volendo indicare un organo rappresentativo dei saggi e degli anziani della nazione, dal latino senex, cioè anziano, e dal suffisso atus, che indica un ufficio o una dignità onorifica.
I componenti del Senato del Regno erano, infatti, nominati dal re e mantenevano la carica a vita. Era evidente, dunque, che questa Assemblea era stata pensata allo scopo di condizionare il potere e di limitare il peso della Camera eletta. Tuttavia, si deve osservare che, come era avvenuto per la Camera dei Lord in Gran Bretagna, anche il Senato italiano aveva subito un profondo e radicale ridimensionamento per il progressivo prevalere della Camera eletta nel processo legislativo, fino alla prassi, divenuta poi obbligo per il sovrano, di limitarsi a ratificare la proposta dei nuovi senatori. Appare pertanto assai comprensibile, e qui arriviamo all'Assemblea Costituente, e si ricordi il dibattito della Commissione dei settantacinque circa l'effettiva necessità di mantenere il Senato o, comunque, un bicameralismo paritario dopo la caduta del fascismo e della monarchia in Italia. La soluzione trovata, frutto anche del cambiamento del clima politica internazionale, coincidente con l'inizio della cosiddetta guerra fredda, fu il frutto di un compromesso.
Il Senato divenne una Camera eletta a suffragio universale diretto, ma che si differenziava dalla Camera dei deputati per alcuni elementi, tra i quali la diversa disciplina dell'elettorato attivo, fissato a 25 anni di età - alla Camera è prevista la maggiore età - e dell'elettorato passivo. Possono essere senatori i cittadini che hanno compiuto il quarantesimo anno di età, mentre alla Camera sono sufficienti 25 anni. Questo aspetto, insieme ad altri, era stato introdotto perché il Senato veniva comunque concepito, pur nella novità dell'elezione diretta a suffragio universale, come una camera di compensazione e di attenuazione dei possibili effetti distorsivi derivanti proprio dal suffragio universale. Si credeva che una Camera eletta da una base elettorale più anziana e composta da rappresentanti più anziani avrebbe costituito un ulteriore elemento di equilibrio in un sistema istituzionale nel quale la paura del tiranno e delle dittature era ancora fortemente presente.
L'evoluzione culturale e sociale italiana ha reso da tempo obsoleta questa norma - per questo la proposta del referendum costituzionale e il superamento del Senato così come è oggi -, e del resto molti padri costituenti ne avevano già denunciato gli elementi contraddittori anche rispetto allo stesso articolo 48 della Costituzione, che, con molta chiarezza, nel primo comma dichiara: sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. E nei commi successivi afferma che il voto è personale, eguale, libero e segreto e che tale diritto-dovere civico non può trovare alcuna limitazione, se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge. D'altro canto, gli stessi costituenti, legando il voto al compimento della maggiore età e non fissando la definizione di questa in Costituzione, ma affidandola alla libera determinazione del legislatore, volevano implicitamente affermare il carattere evolutivo della definizione di maggiore età, intesa come capacità di agire.
Infatti, il legislatore è intervenuto nel 1975, con la legge n. 39, abbassando da 21 a 18 anni la maggiore età.
Per i primi ventisette anni di esperienza repubblicana la differenza di classi di età per l'ottenimento del requisito di elettorato attivo nell'elezione dei due rami del Parlamento era di quattro anni: dal 10 marzo la forbice anagrafica si è allargata di ben sette anni. Per questo è importante l'incontro che c'è stato sulla modifica della disciplina dell'elettorato attivo; tuttavia, mi pare altrettanto importante la modifica dell'elettorato passivo, così come previsto nelle proposte di legge di cui una a mia prima firma e l'altra dell'onorevole Ceccanti, anche per rispondere a un'indicazione politica, appunto, che l'elettorato italiano ha inteso fornire proprio con il referendum del 4 dicembre 2016.
Oggi, dunque, discutiamo la modifica dell'articolo 58 della Costituzione soltanto per modificare, però, l'elettorato attivo del Senato della Repubblica. La disciplina dell'elettorato attivo per l'elezione dei due rami del Parlamento produce, però, degli effetti, in particolare sulla differenza di platea elettorale, che sono in contrasto con il principio costituzionalmente garantito, come ho già detto, dell'eguaglianza del voto, espresso dall'articolo 48 della Costituzione. Abbassare, quindi, la soglia per l'elettorato attivo è sembrato a tutti noi un atto dovuto, una questione che deriva dal concetto stesso di democrazia parlamentare rappresentativa. Se i senatori legiferano anche per la fascia dai 18 ai 24 anni, ovvero, appunto, per quattro milioni di persone, perché questi ultimi non possono votare chi deciderà per loro? Ma la domanda è, ancora, perché non possono anche legiferare per loro. In altre democrazie europee, del resto, anche il voto degli under 18 è già una realtà. In Scozia ma anche in Austria, così come in Germania, il voto ai sedicenni e ai diciassettenni è garantito nelle elezioni dei Parlamenti di alcuni Länder. Non capiamo, allora, a questo punto, davvero, perché non si voglia procedere anche con la modifica dell'elettorato passivo. Noi abbiamo già presentato un emendamento in Commissione Affari costituzionali - e lo riproporremo in Aula - che non solo riconosce il voto ai diciottenni ma anche la possibilità di essere eletti a 25 anni al Senato, invece degli attuali 40, difendendo in questo modo - e non mi pare che gli argomenti portati anche in questa discussione dai colleghi del MoVimento 5 Stelle ne abbiano spiegato il motivo - una concezione antiquata e superata della composizione del Senato come Camera alta, non più attuale, secondo la quale è solo l'età a fare l'esperienza. Sarebbe davvero incomprensibile mantenere differenze per le elezioni della Camera dei deputati e di tutti gli altri livelli istituzionali del Paese - anche i comuni e le regioni - tali da determinare nei fatti un'evidente contraddizione con l'altro principio che ho già più volte citato, ossia quello dell'uguaglianza del voto.
Ecco, mi rivolgo soprattutto ancora una volta al MoVimento 5 Stelle: perché alla prova dei fatti non dimostrate mai tutto il coraggio che serve per fare delle scelte veramente di cambiamento? Noi vi sfidiamo ad accogliere la modifica dell'elettorato passivo e a dare a milioni di giovani, oggi coinvolti a metà, i pieni diritti politici. In gran parte delle democrazie ciò avviene già, mentre sono rari i casi in cui l'elettorato passivo è tenuto ferma a quarant'anni (insieme all'Italia solo la Repubblica Ceca e la Romania a 33 anni). Avete già sprecato l'occasione quando è stato bocciato il nostro emendamento e non vi rendete conto quanto sia importante questa occasione, non solo per rendere più omogenee le Camere e, di conseguenza, più stabili i Governi, ma anche per riconoscere non solo a parole ma con i fatti la centralità di una generazione di giovani italiani e italiane che ha le idee chiare e che è persino più informata della media dei propri coetanei europei, ed è molto più propensa al voto, stando ai sondaggi effettuati nelle ultime elezioni europee del 2019. Sono giovani che fanno già politica nel senso più alto, cioè quello dell'ideale, elettori che meritano maggiore considerazione, maggiore spazio e un'adeguata rappresentanza istituzionale.
Vi riempite la bocca di ricambio generazionale dei partiti ma, di fatto, state impedendo ai ragazzi e alle ragazze di essere il ricambio generazionale. Forse a voi sembrerà normale, ma l'Italia è uno dei pochi Paesi al mondo nel quale non tutti gli adulti, ma solo quelli dai 25 anni in su, eleggono metà del Parlamento e quindi determinano il Governo, che non può essere in carica senza la fiducia del Parlamento, e partecipano soprattutto alla capacità di legiferare. Decidete di negare, dunque, la possibilità di avere una propria voce all'interno di un'istituzione fondamentale della Repubblica a un'intera generazione e non si sa per quanto tempo ancora.
Non trovate ingiusto escludere parte dei giovani dal processo partecipativo e democratico in un'Italia che invecchia inesorabilmente e dove la metà degli elettori ha più di cinquant'anni ed esercita, quindi, un peso sempre maggiore nelle decisioni per le generazioni future? Dove i sindacati e i partiti dei pensionati difendono, giustamente ed efficacemente, gli interessi degli anziani mentre i giovani non hanno alcuna rappresentanza del genere, in un Paese che avrebbe bisogno di energie vitali e spinta al cambiamento?
È una rivoluzione generazionale che ci chiedono nel Paese europeo tra i più in basso nell'indice di giustizia tra generazioni. L'indice è composto da quattro indicatori: debito pubblico per ogni minorenne, povertà giovanile, spesa sociale pro capite per gli anziani divisa per il resto della spesa sociale e impronta ecologica pro capite. Secondo gli autori di questo indice, i Paesi dell'OSCE prosperano in buona parte a spese dei loro giovani e delle generazioni future. Mentre la disoccupazione giovanile continua ad attestarsi al 32 per cento e nel Sud al 50 per cento, è paradossale che proprio i più colpiti non siano autorizzati a essere eletti in metà del Parlamento e, quindi, a contribuire a determinare il Governo. Allora, la scelta davvero coraggiosa è una sola: coinvolgere nella governance questa generazione esclusa, dandole modo di influenzare i processi decisionali in prima persona.
Concludo. In una fase in cui la politica sembra prevalere negli insulti reciproci, nel fango sparso a piene mani sull'avversario e il populismo sublima le pulsioni peggiori dei cittadini elettori, ci sono i giovani che vogliono perseguire un ideale e hanno il sogno di cambiare questa società con la forza dei valori. Questo è un bene prezioso che non va disperso nell'interesse di tutti, perché soltanto i giovani, con l'energia delle loro convinzioni e con la pratica coerente della loro visione della società, possono dare il colore giusto al cambiamento necessario di questo Paese.