Grazie, Presidente. Le confesso - non dovrei dirlo - di nutrire talvolta qualche perplessità, un sospetto, perfino, nei confronti della memoria. Lo so di dire qualcosa di assai poco presentabile, una scemenza, magari, o, come usa dire oggi, una provocazione che assai spesso è sempre una scemenza, solo impudica, ma d'istinto, tra ricordare e dimenticare, io, anche solo per costituzione e per carattere, chissà, in genere preferisco l'oblio, facendomi forte di chi, come Aleida Assmann, sostiene che - cito - dimenticare e non ricordare è la modalità fondamentale della vita umana e sociale - chiudo la citazione -, mentre ricordare implica uno sforzo, una ribellione, un veto contro il tempo e il corso delle cose. Endiadi, insomma, non semplicemente opposti. Dimenticare e ricordare si richiamano, rincorrono, in una “dinamica elastico” che non si lascia ridurre in un gioco a somma zero.
Siamo abituati a considerare la sola memoria come la malta e il lievito di una comunità, fino quasi a coincidere con essa; una comunità è innanzitutto la sua memoria, memoria della propria fondazione, delle proprie radici, del proprio passato. Le nostre città, lastricate di monumenti, di statue, di cippi, insegne, intestazioni, cenotafi, lapidi, steli, edicole, medaglioni, memoriali appunto, per tacere oggi dei big data che tutto sanno e serbano di noi, riflettono questo novecentesco sforzo pedagogico, un intento capillare di costruzione o ricostruzione della identità, del senso comune, della koinè degli appartenenti a una o più comunità.
La fragilità della memoria - recita il paradosso brechtiano - dà forza agli uomini, come se la solidità marmorea, equestre, baffi a manubrio, del progetto di una comunità si fondasse, poi, alla fine, su fondamenta impalpabili, invisibili, friabili e porose, oggi perfino digitali. Una clausola di salvaguardia, una norma di chiusura, un prologo in cielo sul quale costruire incerto il nostro abitare, il nostro stare assieme.
Di fronte a questo abisso e al suo paradosso, dicevo, di fronte a questo proposito così determinato, alla sua sfida e alla forza di gravità, alle leggi della fisica, ho sempre preferito non dimenticare, mettiamola così, la naturalità del processo “oblivionale” (mi scuso per il calco), la sua inesorabilità, la sua non meno fragile umanità: quasi un ritorno a casa, una resa, Let it be. Non mi sono mai ritrovato, insomma, nella coincidenza adesiva anche in democrazia di memoria e identità, e nella svalutazione dell'oblio come allontanamento, come perdita, come crepuscolo in cui sprofondare mores, costumi, e legami. (Mi perdonerà per il lungo prologo, Presidente, ma ci arrivo, prometto: se sembro Fusaro mi interrompa, la prego.)
Leggevo di recente alcune considerazioni portate da Paolo Mieli proprio sulle virtù direi repubblicane, civili del dimenticare, e di come nel corso della storia soltanto attraverso un uso intelligente e paziente dell'oblio si sia riusciti a chiudere pagine dolorose ed oscure, lacerazioni profonde che abbisognavano solo di un'abrasione del tessuto comune della memoria, di una “scarificazione”, di un corto circuito che scaricasse a terra tensioni ed energie insopportabili per la vita ordinata, ordinaria di una comunità, di una democrazia: spegni e riaccendi. Contrariamente dunque all'ordine fondante della memoria, quello dell'oblio, dello scordare, letteralmente rimuovere dal cuore, desintonizzare come un intervento chirurgico, può rivelarsi tuttavia altrettanto prezioso per il mantenimento di una comunità, del suo benessere, della sua esistenza, una linea di continuità.
Queste riflessioni facevo a proposito della mozione a prima firma Lia Quartapelle, che ringrazio, e molto, per questa opportunità di intervento, e che qui sono chiamato ad illustrare. Una mozione il cui cuore è la richiesta al Governo di promuovere ad ogni livello la costituzione di un tribunale ad hoc sui crimini di Daesh, dello Stato islamico, nei confronti delle minoranze religiose, a principiare da quella yazida, nel Sinjar, in Iraq. Da molti anni ormai, e ben oltre la caduta di roccaforti di Daesh come Raqqa e Mosul, migliaia e migliaia di uomini, donne e bambini vengono massacrati, sequestrati, ridotti in cattività, schiavizzati, decapitati, seviziati, uccisi, in quello che il rapporto della Commissione internazionale indipendente d'inchiesta sulla Siria, istituita dal Consiglio dei diritti umani dell'ONU nel 2011, considera letteralmente un genocidio. Un genocidio, non c'è bisogno di aggiungere altro.
I crimini ai danni della minoranza yazida continuano ad essere perpetrati con ferocia disumana, o forse assai umana, e a restare impuniti, in questo straccio di mondo consegnato all'odio etnico e alla violenza sessuale come arma di guerra, all'annichilimento dell'altro come progetto e pianificazione. Di fronte a questa notte fonda, la mozione che discutiamo in Parlamento ritiene fondamentale l'istituzione di un apposito tribunale internazionale per giudicare i crimini di Daesh contro le minoranze religiose in Iraq, che abbia un mandato chiaro e circoscritto. Anche se questo non deve far dimenticare che oltre a Daesh nella regione ci sono altri soggetti che si sono macchiati di crimini contro l'umanità, a partire dal regime di Assad: penso soltanto all'infamia dell'utilizzo delle armi chimiche, per poi continuare con quei regimi nella regione che hanno utilizzato milizie fondamentaliste per una guerra per procura che è costata 400 mila morti. Iraq e Siria non saranno in pace finché anche quei crimini non saranno investigati e processati, e questo è il fuoco della nostra mozione.
E in particolare l'Italia, che uno pensa: già, ma noi che c'entriamo? Come possiamo fare qualcosa che riguardi e curi e salvi un altrove apparente come il Sinjar, con il suo nome di favola? L'Italia, dicevo, può, anzi deve farsi promotrice di un'iniziativa internazionale per istituire un tribunale speciale per perseguire i crimini di Daesh contro le minoranze religiose. A maggior ragione perché il Trattato che istituì la Corte penale internazionale è stato firmato proprio qui, a Roma, in Campidoglio: lo ricordo bene e personalmente, Kofi Annan e i delegati entrare nella Sala degli Orazi e Curiazi, la stessa dove venne firmato il Trattato di Roma, la carta d'identità dell'Unione europea. Il che costituisce anche una sorta di mandato… Consideriamolo morale italiano, e soprattutto perché esso rappresenterebbe un tassello importante nel complicato mosaico per portare pace e stabilità tra Siria e Iraq, e per contribuire a salvare la natura plurale del Medioriente, recita testuale la mozione Quartapelle Procopio ed altri n. 1-00230.
Fin qui l'architettura, l'impalcatura istituzionale di cui l'intera comunità internazionale chiede di dotarsi, per chiudere quest'ulcera insanabile, per tirare una linea e attribuire responsabilità e colpe e pene e rendere giustizia. Ci avete mai pensato a questo “rendere”, come fosse possibile una restituzione, ma anche una resa, reintegrare l'altro di ciò di cui è stato spogliato, privato, denudato, la propria umanità in questo caso? Di fronte a questa dismisura, all'estremo del genocidio, quella dinamica tra memoria e oblio che richiamavo in esordio è come se venisse sospesa, sterilizzata, disarticolata: sembra quasi non valere più, in una epochè che siamo tuttavia chiamati a forzare, a scassare, a sbloccare, a non poter più accettare.
Cos'è un tribunale, se non un inesorabile processo di dare memoria e nome, di attribuire responsabilità e stabilire pene da scontare? Questo sforzo di memoria, di fare ordine e dare senso, che corrisponde alla sproporzione di quella violenza, quella che abita inestirpabile come un colore negli occhi di Nadia Murad, Premio Nobel per la pace proprio a riconoscimento di un hapax, quello che Il Foglio, scrivendo di lei, sintetizza così: “È la prima volta che lo stupro viene riconosciuto come un crimine contro l'umanità, un'arma di guerra: non la conseguenza di una guerra, non un effetto collaterale, ma un metodo premeditato per combattere e piegare popoli interi, per fare implorare le donne ‘non scegliere me, non scegliere me'“. Questo era ed è ancora oggi il progetto di Daesh: portare il terrore in quegli occhi, la disperazione di fronte all'abuso, alla violenza di scongiurare, di implorare, di fronte al proprio aguzzino, al proprio boia “ti prego, non scegliere me”.
Domani, oggi siano chiamati a giudizio coloro i quali costrinsero queste donne, i loro figli, i loro uomini ad avere una sola speranza: quella di non essere scelti da quell'odio che ti scruta, che ti pesa, ti vede dove pensi di essere al sicuro, ti riduce a nuda vita, ti sceglie come il destino, “sto dicendo proprio a te”. Ho riletto le minute dell'audizione di Nadia Murad in Commissione, le sue risposte puntuali, la determinazione della sua missione, un senso concreto di cosa ottenere rispetto all'indicibile, al tentativo di mettere ordine e dare perimetro alla richiesta di responsabilità, di sostegno, di futuro. Nadia Murad non ha asciugato nulla del suo dolore, ma ha trasformato quella rabbia, quella vendetta impossibile in una ricerca di giustizia, che ha fatto conoscere la tragedia yazida in tutto il mondo.
Torno a citare: “Non siamo la violenza che abbiamo subito, non saranno gli stupri, la desolazione, la rabbia a definire il nostro futuro”. Perché si apra questo avvenire, uno nel quale dagli occhi di Nadia Murad possa cadere per terra, ai suoi piedi quel velo di dolore, quel sudario, per guardare avanti, c'è bisogno, c'è urgenza di fare giustizia, tenendo assieme il dovere della memoria, quello sforzo innaturale, quello scatto, con il naturale fluire delle cose, per renderle, se non sopportabili, meno dolorose e vive, meno presenti. Il compito degli uomini è di aiutare il bene a prevalere, prescrive l'antica saggezza yazida, alla prova del genocidio, della dannazione della memoria, della pulizia etnica, dello stupro come arma di distruzione di massa; per tacere della fame come arma di distruzione di massa, lo teorizza un recentissimo rapporto delle Nazioni Unite.
Questo e non altro, Presidente, chiede al Governo la nostra mozione, questo e non altro: di aiutare a ricordare; di pretendere giustizia; di tornare a sperare, nel Sinjar come altrove si soffra, di tornare a vivere.