Data: 
Lunedì, 16 Ottobre, 2017
Nome: 
Giorgio Zanin

A.C. 4522

Discussione generale

 

Grazie, Presidente. La legge che discutiamo, già approvata dal Senato ,si occupa di normare la delicata materia dei domini collettivi. Al Senato ha avuto una coerente ed approfondita lavorazione tra la Commissione giustizia e la Commissione ambiente, e anche un buon contributo della Commissione bilancio per sbloccare una certa resistenza. Qui alla Camera la discussione è stata affrontata anzitutto in Commissione agricoltura, con la cura attenta del collega relatore Romanini, e già questa molteplicità di soggetti parlamentari coinvolti lascia intuire quale matassa la legge provi a tessere in modo nuovo.

Ci ricorda il presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi che, se noi non cominciamo ad ammettere l'elementare verità che non esiste soltanto una cultura ufficiale e che non esiste, a livello di utilizzazione e gestione dei beni, soltanto il modello della proprietà individuale di indistruttibile stampo romanistico, ma che possono ben coesistere altre culture giuridiche portatrici di mondi alternativi nella concezione dell'appartenenza, ci precludiamo ogni possibilità di capire il problema della proprietà collettiva. Dunque il riconoscimento formale dei domini collettivi, che è l'obiettivo strategico della legge, non è cosa di poco conto.

Come dice la proposta di legge, il pianeta delle proprietà collettive costituisce una realtà a sé stante, che unisce fattispecie diverse quali la proprietà, la gestione e l'uso civico delle terre, dei boschi e - perché no? - anche delle lagune: una specie di origine premoderna, che vive quasi una vita separata dagli altri domini privati o pubblici, a partire dallo specifico ruolo esercitato dalla collettività locale, un ruolo non solo di utilità, ma soprattutto di gestione civica. Si tratta perciò di un riconoscimento non secondario, che di fatto rende giustizia ad una storia che, per modificazioni socio-economiche e volontà di superamento politico, rischiava di far perdere molti treni al nostro contesto nazionale.

Bisogna anzitutto sforzarsi di scendere in profondità dentro la radice storica della formazione dei domini collettivi, e ricordare come la solidarietà intracomunitaria abbia costituito un modello indispensabile per la sopravvivenza delle famiglie di numerosissime comunità. A prescindere dall'atto formale di nascita del dominio, possedere ed usare insieme era la chiave di gestione che permetteva di avere sempre qualcosa: partecipazione, controllo, mutualità erano le regole per costruire passo passo un equilibrio di benessere, un equilibrio che intrecciava i diritti del presente con la garanzia del futuro, sia in termini intergenerazionali che in termini ecologici. Rovinare qualcosa significava danneggiare in modo percepibile gli altri e in primis la propria famiglia, con conseguenze non banali in termini di auto e mutuo controllo nella gestione, e con la formazione perciò di un senso civico, di cui si avverte francamente il bisogno oggi più che mai. Non si trattava infatti solo di comproprietà di beni particolari quali bosco e pascoli, goduti in un modo particolare, cioè collettivo, ma si trattava e si tratta di persone che esprimono nell'articolazione fondiaria una scelta squisitamente antropologica della vita: il primato della comunità sul singolo.

È giusto domandarsi perciò in quale misura questi valori, queste forme di gestione e questi interessi siano ancora attuali e necessari. Non va nascosto, infatti, che essi sono stati via via abbandonati in tanta parte del Paese, sulla base della fase di sviluppo socio-economico che si è determinato dopo la seconda guerra mondiale, in particolare con lo spopolamento nelle aree interne e nelle zone di montagna, ma anche con la mentalità, non sempre in linea, dei molti amministratori locali, che, invece di accompagnare la resistenza di queste istituzioni, hanno spesso costituito un polo di energia per il loro superamento definitivo.

Ma ora, con questa legge siamo di fronte ad un atto di discontinuità rispetto a questo declino, delineato peraltro sin dalla legge n. 1766 del 1927, che indirizzava verso la liquidazione giuridica della proprietà collettiva. Ora anche in queste Aule vogliamo certo affermare con questa legge la salvaguardia di qualcosa di antico, e nel contempo anche affermare qualcosa di nuovo, un seme di futuro.

Non è un caso, del resto, a segnalare la nota sui tempi che riferisce del clima politico e dell'analisi socioeconomica che accompagna questa discussione, che sono trascorsi appena 20 giorni dall'approvazione parlamentare della legge per il sostegno ai piccoli comuni, quasi a dire come la sensibilità del legislatore sia, più spesso di quanto si creda, in trazione con modelli e riflessioni dove l'identità viene coniugata non solo con la difesa di qualcosa, ma anche con la volontà di declinare diversamente il futuro.

In quali termini? In primo luogo, proprio tramite il riconoscimento della centralità della comunità come soggetto neoistituzionale del patrimonio civico; in una stagione di grandi crisi dei corpi sociali intermedi, si tratta di un'apertura di credito non secondaria, capace di riavviare il risveglio dei soggetti dormienti per cogliere le opportunità che il modello collettivo offre.

Non si tratta, in questo senso, di paradigmi ideologici, ma di vere esperienze, che in numerose comunità locali stanno segnando la stagione di riconsiderazione di una serie di valori connessi al dominio collettivo, non ultima la valorizzazione delle comunità, laddove i necessari processi di aggregazione istituzionale dei comuni eppure anche delle realtà religiose tradizionali, come le parrocchie, vanno accompagnate da forme di riequilibrio identitario.

Certo la terra, certo la possibilità dell'iniziativa e della rendita economica, ma non solo questo: anche la partecipazione e la cultura della condivisione e della solidarietà, merce preziosa al tempo della globalizzazione.

Senza dimenticare, inoltre, che gli enti gestori delle terre di collettivo godimento rientrano a pieno titolo nell'imprenditoria locale, cui competono le responsabilità di tutela e di valorizzazione dell'insieme di risorse naturali ed antropiche presenti nel demanio civico, il che da un lato afferma in modo chiarissimo la centralità della comunità quale motore di sviluppo locale, dall'altro si capisce la ragione per cui questa proposta di legge diventi fondamentale per il territorio e il paesaggio, che comprende specificità agrosilvopastorali inalienabili.

Non va dimenticato, infatti, che in Italia dei quasi 17 milioni di ettari di superficie agricola ben il 9,77 per cento risulta appartenere a comunanze, università agrarie, regole o comune che gestiscono le proprietà collettive, secondo i dati forniti dall'Istat nel 2010; circa il 10 per cento della superficie agricola utile del nostro Paese costituisce un valore enorme per il passato e per il futuro, che da solo basta a rendere ragione dell'importanza della legge, tanto più quando la legge individua anche un'impostazione non solo conservativa, ma anche dinamica, volta a comprendere l'attuale fase di sviluppo delle aree rurali della montagna in particolare, le cui strategie fanno affidamento essenzialmente sul modello di sviluppo locale e su quello di sviluppo sostenibile, una fase in cui ai domini collettivi viene riconosciuta la capacità di rendere locali anche gli stimoli provenienti dall'esterno della comunità per la mobilitazione delle risorse interne, di trattenere in loco gli effetti moltiplicativi, di far nascere indotti nella manifattura familiare, artigianale, nella filiera dell'energia, delle risorse rinnovabili e del settore dei servizi.

Insomma, c'è in ballo una capacità delle aree interne - quelle che, turismo a parte, faticano a produrre PIL - di costruire un modello economico alternativo, orientato ad autosostenersi, un modello in cui non sia centrale la capacità di appropriarsi delle risorse, ma la loro gestione.

È tempo, anche in Italia, di orientarsi diversamente, come suggerisce da qualche anno anche il nuovo indicatore BES promosso dall'Istat.

Si parla sempre delle cose che si possono acquistare, ma meno di quelle che si distruggono per poterle produrre.

I costi della crescita senza limite sono tanti, basti pensare ai danni all'ambiente, ma anche ad alcuni costi sociali che non vengono presi in considerazione quando si calcola il PIL.

Nei Paesi occidentali è vero che la gente guadagna di più, ma spende ancora di più per compensare ciò che distrugge.

Questa legge va, dunque, in un'altra direzione e non è un caso che in tante regioni le iniziative per la realizzazione dei distretti di economia solidale vedano tra i protagonisti le comunità che detengono i domini collettivi.

Dicevamo, perciò, che il dato più importante sul piano della dottrina è il riconoscimento dei domini collettivi, comunque denominati, come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie, nonché il riconoscimento del diritto d'uso del dominio collettivo in quanto diritto avente ad oggetto, normalmente e non eccezionalmente, le utilità del fondo, consistenti in uno sfruttamento del dominio riservato ai cittadini del comune, un riconoscimento di grande valore per la conservazione dei caratteri identitari dei territori e per la valorizzazione degli ambienti naturali antropizzati.

Bisogna anche ricordare che questo importante passaggio giuridico si sviluppa e si attua con un riconoscimento di autonormazione che mira a garantire che le leggi che le regioni intendono eventualmente emanare sugli assetti collettivi non possano disconoscere l'idea e i valori della proprietà collettiva. Qui i riferimenti sono decisamente rilevanti, basta pensare al modo peculiare della comunità di vivere il rapporto uomo-terra, e al riferimento inevitabile alla disciplina dettata dalla consuetudine per cui le collettività agiscono con il fine di proteggere la natura salvaguardando l'ambiente. Del resto, le quattro “i” delle proprietà collettive (inalienabilità, inusucapibilità, inespropriabilità, immutabilità della destinazione agro-silvo-pastorale) bastano da sole a descrivere un profilo che si incastra precisamente con la discussione, purtroppo ancora non del tutto conclusa in sede legislativa, a proposito dello stop al consumo di suolo. Un tema questo certamente evocato anche dalla legge sui domini collettivi proposta dei senatori Pagliari, Astore, Dirindin e Palermo, quando all'articolo 3 la chiusura è assegnata ad un comma che recita: con l'imposizione del vincolo paesaggistico sulle zone gravate da usi civici. Un impegno tutt'altro che secondario, nel tempo in cui si cerca sempre di più e sempre meglio una progettazione urbanistica che cerca di mettere a sistema le specificità dei territori e la loro valorizzazione.

Questa sottolineatura per dire, infine, di una legge che, frutto del lavoro annoso di tanti, in primis del coordinamento nazionale delle proprietà collettive, ponendo al centro un nuovo rapporto tra le comunità e i loro territori, pare cogliere in pieno la sfida lanciata dalla “Laudatosi'” di Papa Francesco, là dove dice: non ci sono due crisi separate, una ambientale e un'altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale; le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura.

È una questione di modello di sviluppo, insomma, e la legge che mi auguro venga approvata definitivamente nei prossimi giorni penso possa rappresentare una tessera del mosaico di questa consapevolezza attiva.

Spetterà poi alle comunità locali cogliere l'occasione, rilanciare l'iniziativa, a questo punto senza più alibi, tanto più se, come è auspicato, le regioni sapranno cogliere l'opportunità offerta per sviluppare un'attività normativa che, oltre a favorire il riconoscimento in sé e per sé, uscendo da ambiguità e frammentazione, ricercando e costruendo occasioni di dialogo con le comunità, gli enti gestori e le associazioni che li rappresentano sul territorio, sappia offrire energia per rilanciare davvero i domini collettivi, una fattispecie, tra l'altro, che avrebbe ragionevolmente da essere anche spinta con la creazione di nuovi domini, ad esempio, al superamento della frammentazione fondiaria nelle aree interne, piaga perniciosa che impedisce tanto spesso una gestione attiva delle risorse di bosco e pascoli in montagna.

Concludendo, la legge sui domini collettivi apre quindi una breccia importante nella rassicurante e lapidaria incertezza delle forme più diffuse ed affermate di gestione dei beni, e semina una cultura che noi tutti dobbiamo con sempre più vigore continuare ad irrigare per farla crescere rigogliosa al servizio delle generazioni future.

L'auspicio è, dunque, che l'approvazione della legge diventi anche un'occasione preziosa per una discussione anche più ampia e progressiva, a diversi livelli, dove tra l'altro, almeno una volta, si dovrà riconoscere che il legislatore parlamentare, dopo aver recepito la storia e gli sforzi promossi anche nelle passate legislature, in primo luogo da chi rappresenta la memoria e la cultura attiva dei domini collettivi, tra i quali certamente merita una particolare citazione il Centro studi e documentazione sui demani civici e le proprietà collettive dell'Università di Trento, guidato dai professori Pietro Nervi e Paolo Grossi, ha saputo collaborare e orientare la direzione nell'interesse della comunità e dell'Italia tutta.