Grazie, Presidente. La discussione avviata oggi prende le mosse da una mozione che ha messo al centro dell'attenzione il tema della denatalità. È questo il focusdella nostra discussione; quindi, evitiamo di perdere questa occasione magari per parlare di ciò di cui si sta occupando l'altro ramo del Parlamento, che sono questioni assolutamente importanti che nessuno vuole sottovalutare, ma non creiamo un'operazione di distrazione (di distrazione !).
Gli indicatori demografici prodotti dall'ISTAT qualche giorno fa ci consegnano una nuova preoccupazione che non sopporta sottovalutazioni o l'individuazione di facili scorciatoie: la popolazione residente si riduce di 139 mila unità. Come afferma l'ISTAT, si tratta di un cambiamento rilevante nel contesto storico di un paese che, dal 1952 in avanti, aveva sempre visto aumentare la popolazione. Si tratta di una diminuzione uniforme sul territorio, salvo Lombardia e Trentino Alto Adige. Nel 2015 i morti sono stati 653.000, le nascite 488.000, 15 mila in meno del 2014. Si tocca un nuovo record negativo, è il minimo storico, come altri colleghi hanno ricordato, dall'Unità d'Italia; è dal 2010 che si registra un costante e continuo calo della natalità, che si accompagna ad una trasformazione strutturale della popolazione femminile in età feconda. Come ci ricorda l'Istat, le donne nella fascia d'età 15-49 anni sono meno numerose del passato, mediamente più anziane, perché stanno diminuendo le donne nate negli anni Sessanta-Settanta, rimpiazzate da generazioni più ridotte nate negli anni Ottanta-Novanta. L'andamento anche qui è uniforme sul territorio, in nessuna regione si riscontrano incrementi di natalità.
Se nel recente passato il saldo demografico negativo in parte era compensato dagli immigrati che presentavano tassi di natalità più elevati di quelli italiani, ora non è più così, le cifre nella composizione delle nascite ci dicono che si va riducendo il contributo delle cittadine straniere alla natalità. Infatti, come Istat ci dice, scendono a 93.000, ossia 5.000 in meno rispetto al 2014; per le madri italiane si riduce di 9.000 unità. Il fenomeno perciò va seriamente indagato; è il quinto anno consecutivo in cui si registra una riduzione del numero medio dei figli per donna, che scende a 1,35, un dato lontanissimo dal 2,4 necessario per garantire il ricambio generazionale, accompagnato anche alla scelta di rinviare il momento di avere figli, salita dagli anni 31,3 del 2010 a 31,6 del 2015. Del resto, fra gli effetti sociali della crisi va annoverata la difficoltà a progettare il futuro per i giovani e ciò comporta il posticipo delle nascite e, quando avviene, il numero medio dei figli tende ad abbassarsi. Anche per questo dato ci troviamo di fronte a un Paese che manifesta comportamenti riproduttivi omogenei.
Allora il crollo delle nascite ci interpella, se a metà degli anni Sessanta nasceva un milione di bambini ed ora non superiamo la metà, significa che stiamo viaggiando con il freno a mano tirato, rischiamo che questa tendenza si consolidi, provocando grandi incertezze per il futuro non solo dei sistemi di welfare, ma anche per la spinta all'innovazione e alla competitività per un Paese fra i più vecchi dell'eurozona. Nella descrizione del problema, tuttavia, è contenuta anche una parte della risoluzione dello stesso, che può intervenire se davvero riusciamo a cambiare rotta, perché se nascono meno figli non significa che non siano desiderati, al contrario tutte le indagini ci dicono che le giovani coppie idealmente pensano a due o più figli, il che significa che non sono incoraggiate in queste scelte dal contesto economico e sociale in cui vivono, ed è per questo che viene chiamata in causa un'opzione forte per la politica, chiamata ad incidere sulle scelte di governo in modo più efficace di quanto finora sia avvenuto.
Ricordo come siano trascorsi quasi dieci anni dalla Conferenza nazionale della famiglia, che nel 2007 pose le basi politiche per adeguare l'agenda politica e di governo, non solo alle necessità di ammodernare il sistema di welfare per corrispondere ai cambiamenti in atto, ma anche per affrontare i mutamenti culturali, l'emergere della pluralizzazione delle forme familiari, le sfide educative fino alla grande questione dell'effettiva parità da conquistare per il lavoro e nel lavoro. Su tutto ciò dobbiamo interrogarci per cambiare verso alle politiche per la famiglia. Le risultanze di quell'assise avviarono il più grande piano nidi, con valenza triennale, che abbiamo conosciuto; venne avviato un piano nazionale per la famiglia, ma come sappiamo l'avvento della grande crisi nel 2008 ha cambiato profondamente le politiche europee nazionali ed erroneamente, secondo me, sono state sacrificate le politiche di welfare nella illusione di poter recuperare competitività ai vari sistemi Paese.
Le politiche di austerity non hanno invece ottenuto i risultati sperati e anzi hanno prodotto impoverimento diffuso e non hanno avuto l'effetto anticiclico tanto auspicato. Più recentemente, in modo contraddittorio con il Governo Monti, ma in modo più deciso col Governo Letta e soprattutto con il Governo Renzi, è stata invertita la rotta. Sono stati ripristinati e talora aumentati i fondi che intervengono nell'area socio assistenziale, perché riteniamo che questi non siano costi, ma siano investimenti, ma ora è arrivato il tempo anche sul versante degli interventi assistenziali di varare i LEPS o i LIVEAS, come meglio preferiamo, e abbiamo iniziato in queste settimane con gli obiettivi di servizio per il «Dopo di noi» rivolto alle persone con disabilità gravi. Fissare un LEPS per gli asili nido, ad esempio, costituirebbe veramente una necessaria innovazione, anche attraverso gli obiettivi di servizio, perché dobbiamo necessariamente fare i conti con gli equilibri di finanza pubblica da osservare con rigore, ma il contrasto alle cause della crisi demografica chiaramente va ricondotto, non solo ad interventi di welfare, occorre affrontare il tema del creare famiglia cioè consentire ai giovani maggiore autonomia dalla famiglia di origine, trovare un lavoro con continuità di reddito e poter conciliare il lavoro con il progetto di avere uno, due o più figli. Numero di figli e partecipazione delle donne al lavoro non possono più entrare in conflitto, come bene si comprende aiutano il Paese ad uscire dalla crisi anche demografica.
Ecco il nodo centrale: il lavoro. I mutamenti del mercato del lavoro ci fanno capire come sia necessario innovare nelle politiche di conciliazione lavoro-famiglia, un'opportunità anche per le aziende e per il miglioramento delle performances aziendali; aziende che non possono privarsi delle capacità che solo le donne possono esprimere.
Sgravi fiscali, congedi parentali da rivedere, nuovi ammortizzatori sociali, sono alcune delle misure che andrebbero prese in considerazione e che abbiamo proposto con la mozione che il Partito Democratico ha depositato. Siamo convinte che non siano sufficienti i trasferimenti monetari, evitiamo di percorrere strade inefficaci, avviamoci invece con coraggio ad esplorare strade nuove. L'invecchiamento della popolazione e la condizione della famiglia più esile del passato, pone problemi inediti per l'assistenza agli anziani e alla non autosufficienza, addossata spesso alla donna, costretta ad abbandonare il lavoro e a rinunciare ad avere figli. Sarebbe indispensabile perciò riconoscere il lavoro di cura, compresa la crescita dei figli, riprendendo una proposta che non solo il PD ha fatto, ma anche studiosi valentissimi, ne cito una per tutti, la professoressa Del Boca, che la avanzò ormai parecchi anni fa, tesa a riconoscere un credito di imposta alla donna che lavora e che svolge il lavoro di cura, un credito di imposta per le spese sostenute nel lavoro di cura. È una misura che farebbe emergere il sommerso e incentiverebbe il lavoro femminile. So bene l'obiezione, bisogna innanzitutto creare lavoro e questo non si produce per decreto, ma sappiamo che questo è l'obiettivo principale del Governo, l'impegno totalizzante della maggioranza che lo sostiene e perciò, con fiducia, guardiamo ai segnali di crescita che appaiono all'orizzonte, convinti che si possa lasciare alle spalle la tremenda crisi esplosa nel 2008.
Gli studiosi che commentano gli andamenti demografici ci dicono che questi sono fortemente influenzati dalla crisi, ma non solo. La crisi economica, certo, ha avuto un ruolo prevalente nella caduta della natalità, ma la crisi ha prodotto la caduta della fiducia nelle persone e ha frenato la realizzazione dei progetti di vita, altrimenti non si spiegherebbe la circostanza che negli anni Sessanta, con 10 milioni in meno di residenti, nascevano più del doppio dei bimbi che nascono ora. E allora si impone un'inversione di marcia, anche con rinnovate politiche fiscali, per far comprendere che un figlio non è un costo da evitare, ma una risorsa indispensabile di cui il Paese ha bisogno per restituire alla società l'innovazione, la creatività e la produttività, elementi essenziali per alimentare crescita e sviluppo.
Con un'attenzione: non tutte le misure vanno nella stessa direzione. Mi riferisco, per esempio, a quest'ultimo accenno che è stato fatto al quoziente familiare. Se ci riferiamo al quoziente familiare come classicamente in genere ci si riferisce, all'esigenza di cumulare i redditi e dividerli per il numero dei componenti familiari, attenzione che si ottiene esattamente il risultato opposto, cioè un incentivo a far rientrare le donne in casa, ad abbandonare il lavoro, per adempiere semplicemente al lavoro di cura dei propri figli. Come abbiamo visto, è una strada già percorsa e va nella direzione opposta a quella che auspichiamo. Più lavoro per le donne consentirà di aumentare la natalità, non il contrario.