Discussione generale
Data: 
Mercoledì, 19 Luglio, 2023
Nome: 
Rachele Scarpa

A.C. 1135

Grazie, Presidente. Colleghe, colleghi, membri del Governo, la proposta di legge che discutiamo oggi, così come licenziata dal Senato, solletica un tema che sono sinceramente contenta che quest'Aula affronti, ossia la violenza domestica e di genere. Di contro, sono un po' dispiaciuta che il testo in discussione, appunto, sia scarno e piuttosto esile rispetto alla portata e alla complessità del tema stesso. Il testo su cui voteremo e che diventerà legge dello Stato, infatti, come veniva in parte anche spiegato precedentemente dalla relatrice, è quasi un intervento chirurgico, un correttivo e ha natura strettamente ordinamentale. Quello che cerca di fare è, in qualche modo, di irrigidire e rendere più cogente una disposizione normativa, certificando, innanzitutto, che quella stessa disposizione normativa non stava funzionando adeguatamente.

La PDL Bongiorno interviene sul cosiddetto Codice rosso, regolato dalla legge n. 69 del 2019, che comporta l'obbligo per il pubblico ministero, nel caso dei delitti di violenza domestica o di genere, di assumere informazioni dalla persona offesa nel termine di tre giorni dall'acquisizione della notizia del reato. Il testo prevede, dunque, che un procuratore della Repubblica possa, con provvedimento motivato, revocare l'assegnazione del procedimento al magistrato designato se questi, nell'ipotesi in cui si proceda per delitti di violenza domestica o di genere, non rispetti il termine di tre giorni dall'iscrizione della notizia di reato.

Questo, ovviamente, è previsto per acquisire le informazioni dalla vittima di violenza.

Ora ho ascoltato la relazione e l'intervento della collega Matone, che in parte mi ha dato delle rassicurazioni ma non del tutto. Per me rimane una perplessità, perché io non sono sicura che noi, in questo momento, stiamo del tutto rendendo giustizia al nostro ruolo e alle persone vittime di violenza e all'azione legislativa che penso che meritino, nella tragicità della loro condizione, limitando a questo testo e, in generale, a un approccio fatto di correttivi di corto respiro la nostra discussione su questo tema.

Cerco di spiegarmi meglio. Noi oggi interveniamo, appunto, modificando una piccola parte della procedura giudiziaria per renderla sostanzialmente più celere, ma non per questo, temo, più efficace. C'è un'idea semplice dietro e anche una constatazione giusta, cioè che troppe donne, che poi sono state uccise, avevano prima denunciato. Questo è un dato inquietante. Questa verità è tale, è drammatica e sicuramente devono essere trovate delle soluzioni, ma, appunto, le colleghe al Senato del Partito Democratico e di tutte le opposizioni già evidenziavano alcune criticità che anche nella discussione di oggi solo parzialmente hanno trovato risposta.

Insieme alle colleghe del Senato, anche le operatrici dei centri antiviolenza, le avvocate e tanti pubblici ministeri specializzati hanno posto più volte una criticità semplice ma vitale: noi siamo sicuri che sia migliore, per chi denuncia una violenza, essere interrogata forzatamente dal Pubblico Ministero sul trauma appena vissuto o essere interrogata subito dopo l'ulteriore trauma che la denuncia spesso costituisce? Siamo sicuri che questo passaggio, se è forzato, non rischi di avere un impatto drammatico anche sull'esito dell'interrogatorio stesso, perché la credibilità della persona interrogata potrebbe essere minata dalla fatica e dal dolore che la stessa prova nel gestire un passaggio così complesso con l'autorità giudiziaria?

Ho ascoltato quello che si diceva prima e mi fa piacere sentire che l'interrogatorio e l'ascolto non devono avvenire per forza di cose e si possa valutare caso per caso in base alla vittima. Tuttavia, rimane la mia perplessità più ampia che ci stiamo illudendo, purtroppo, che il problema qui sia solo di tempestività. Quello che volevo chiedere, appunto, è: ci fa davvero sentire più sicure, colleghe, questa tempestività obbligata di tre giorni? Per me, purtroppo, la risposta è “no”. La tempestività serve, ma nel creare le condizioni che possano farci sentire sicure. Io, purtroppo, ho imparato, nei miei 26 anni di vita in questo mondo, che, anche dalla mia posizione estremamente privilegiata, se io domani mi trovassi a denunciare una violenza subita potrei anche non essere creduta, potrei essere intimorita, potrei essere imprecisa, potrei trovarmi in situazioni che mi mettono più in una condizione di vergogna che in una di sostegno. Quindi, per quanto le intenzioni di questo testo siano effettivamente condivisibili, ci sono delle problematicità.

Io credo soprattutto che la politica abbia un ruolo più ampio rispetto al mero intervento sulla procedura penale, anche perché - non nascondiamocelo, appunto - anche la giurisprudenza ha un grande problema con la violenza di genere e non dipende dalle disposizioni procedurali, che sono assolutamente perfezionabili e perfettibili, ma dal fatto che anch'essa è il riflesso, talvolta, di un brodo culturale intriso di misoginia e di cultura dello stupro che la politica ha proprio il compito alto di affrontare. Colleghe e colleghi, adesso parliamo della cronaca recente anche, visto che ci siamo: assolvere un molestatore, dichiarando che la palpata minore di 10 secondi è uno scherzo e non costituisce reato, è complicità per quanto mi riguarda, è violenza di Stato ed è parte del problema che stiamo discutendo oggi. Era di questo che volevo parlare, Presidente: cogliere l'occasione di questa proposta di legge, che è incompleta e specifica, per provare a trattare il problema nel modo che, secondo me, è più corretto, con un approccio più ampio, e per invitare gli onorevoli colleghi e colleghe a ragionarci insieme.

C'è, infatti, un codice rosso più grande in Italia di quello di cui parliamo oggi, molto più grande, un codice rosso di sistema, per cui tante, troppe donne vengono uccise in quanto tali, in una dinamica di prevaricazione sistematica di natura patriarcale che inonda letteralmente le nostre relazioni, la nostra quotidianità, le cose che diciamo e le cose che pensiamo. E, poi, c'è ancora un altro codice rosso: secondo l'Istat, delle tante, troppe donne che subiscono violenza, solo il 15 per cento sceglie di denunciare, il 67 per cento non ne parla mai con nessuno (questi sono i dati, invece, della Commissione di inchiesta sul femminicidio).

È un altro codice rosso - lo accennavo prima - quello relativo a questo 15 per cento che si trova ad avere la forza o ad essere nelle condizioni di denunciare. Tutte, chi più, chi meno, si scontrano con un sistema giudiziario inadeguato e intriso della stessa cultura che ha generato il problema. È un codice rosso, colleghi, è vero, è un'urgenza, ma è un fenomeno che, nella sua urgenza, va affrontato complessivamente, che vuol dire anche e, soprattutto, con adeguate risorse e anche e, soprattutto, con un'idea di che cosa, con la nostra azione, vogliamo andare a cambiare della società e nella vita delle persone.

Quindi, se smettessimo per un attimo di guardare, compiacendoci anche, solo il dito che indica il cavillo normativo o il singolo tema della tempestività giudiziaria - legittimo - e rivolgessimo lo sguardo all'orizzonte, io vorrei chiedervi che cosa vedremmo. Vedremmo, ad esempio, che c'è un mare di cose che separa il momento in cui viene commessa una violenza da quello in cui si arriva al processo. Ed è vero, è un mare che comprende anche il ritardo e l'inerzia da parte dell'autorità giudiziaria nell'attivarsi a seguito della denuncia, certamente. Bene che lo si noti, ma c'è molto di più. Spesso, è un mare che è fatto anche dell'incertezza e della paura che generano situazioni di precarietà economica e abitativa o l'assenza di supporto psicologico o l'assenza di servizi capillari ed accessibili o l'inadeguatezza delle misure cautelari di protezione o una bigenitorialità imposta anche quando si è in presenza di casi di violenza.

I centri antiviolenza sono gravemente definanziati, sono sotto organico e, in alcune periferie, in diversi posti d'Italia, semplicemente non ci sono. Come può non essere questo parte del problema di cui discutiamo? È un mare di cose che potremmo fare e normare meglio, se volessimo intervenire con serietà su ciò che dovrebbe accadere prima di una denuncia di violenza o immediatamente dopo.

C'è anche una proposta del Partito Democratico, ripresentata in diverse salse, in numerose occasioni, anche dalle colleghe proprio qui, a fianco a me, che si pone l'obiettivo di disporre e anche di continuare il potenziamento di un'azione di formazione, di aggiornamento e di riqualificazione degli operatori e dei professionisti che possono entrare eventualmente in contatto con delle vittime di violenza. Quindi, parliamo di Polizia e Carabinieri, pubblici ministeri, magistrati, personale della giustizia, personale sociosanitario, insegnanti, qualcosa che deve avvenire e proseguire potenziato su tutti i livelli e, aggiungiamo noi, in modo continuo e permanente, in modo da risultare costantemente aggiornato.

Quanto senso ed efficacia stiamo togliendo noi al Codice rosso in discussione, se non ci occupiamo di queste cose? E, se davvero non possono trovare assolutamente spazio in questo provvedimento, dove sono le risorse per occuparci di tutto questo?

Perché a me non risulta che siano state stanziate fino adesso. Non nascondiamo a noi stessi ciò che è ovvio e palese: anche se volessimo solamente affrontare il tema dei tempi, dovrebbe rimanere, comunque, in noi la consapevolezza che, in qualche modo, il successo di un procedimento, oggi, è intrinsecamente legato a come funzionano le procure, a come si muovono, alla disponibilità di risorse umane, di risorse strumentali, di mezzi per poter andare avanti in maniera più spedita. Torno a chiedere a quest'Aula, quindi: con quali risorse intendiamo fare fronte a questi problemi? Io, nella proposta in esame, non ne vedo traccia, colleghi.

Se ci sforziamo, poi, ancora, di guardare oltre a questo mare di cose che potremmo fare, ma che, evidentemente, non stiamo facendo, c'è un oceano, che è l'oceano di quello che potremmo fare prima di ogni violenza per evitare che essa possa anche solo verificarsi. È un oceano che, in quanto tale, è più vasto, è più buio, è più faticoso, è più profondo, ma noi abbiamo la responsabilità, io credo, di uscire dal lacerante senso di impotenza che ogni caso di violenza getta addosso a tutte e tutti noi.

Questo Parlamento può e deve, a mio parere, avere l'ambizione di cambiare anche i processi che sono meno immediatamente riconoscibili, ma che sono comunque alla base della violenza di genere e non rassegnarsi a un'idea triste e spaventosa di inevitabilità della prevaricazione maschile di genere. Se vogliamo dare ancora una dignità al ruolo della politica, allora vi rivolgo un appello: agiamo assieme adesso per mutare radicalmente questa cultura che, sì, non ci fa sentire sicure per nulla. Voglio dare, quindi, una parte del mio tempo che ho oggi in questa discussione generale per darci la possibilità di accennare e di analizzare, anche se solo parzialmente in quest'Aula, alcuni pezzi di questo oceano, perché credo che, se ci limitiamo ad intervenire sugli aspetti singoli, goccia dopo goccia, finiremo presto per rimanere sommersi, forse già lo siamo.

Potremmo parlare del grande, enorme tema culturale, che ha veramente mille sfaccettature, faccio seriamente fatica a riassumerle, ho fatto fatica a metterle in fila nel momento in cui scrivevo questo intervento. In Italia persiste, incrostata e capillare, una cultura profondamente patriarcale, per cui spesso “donna” rimane, alla fine dei conti, sinonimo di oggetto, di proprietà, con un ruolo sociale definito e ben confinato. La rintracciamo plasticamente - ma dico cose che sappiamo tutti - quando apriamo il giornale alla mattina e troviamo, con una cadenza sinceramente inquietante, le cronache di femminicidi che mettono morbosamente il focus della loro analisi sulle dinamiche di coppia, non di rado con un accento sui presunti errori di lei, colpevolizzando la vittima, sempre, più o meno implicitamente, pur di ottenere quella narrazione che, sfiorando, neanche troppo, a volte proprio invadendo, il limite della decenza e della pornografia giornalistica, punta a solleticare i nostri click nella sezione notizie.

Troppo spesso, questo racconto mediatico, a cui siamo abituatissimi, accetta e incoraggia una narrazione, per cui un sentimento umano, normale, come la gelosia, ad esempio, viene legittimato e raccontato al punto da giustificare la violenza - il famosissimo raptus -, al punto da giustificare l'esercizio di controllo sul proprio partner. Se ci pensate, colleghe e colleghi, noi cresciamo in un mondo che ci insegna, con tutti i mezzi che può, con tutte le storie che può, dalle favole alle pubblicità, ai film, ai libri, che quella gelosia, ad esempio, quel senso di possesso e di privazione allo stesso tempo, quanto più è intenso e viscerale, tanto più è sintomo di amore puro, sincero. Forse ci sembrerà poco politico questo discorso, non sto capendo bene il brusio che c'è qui sotto, ma io credo che lo sia molto, perché non è solo di sfera privata, secondo me, ciò di cui parliamo in questi casi, ma della declinazione intima di quella che, alla fine, è anche una dinamica sociale di potere; dobbiamo avere gli occhi e l'intelligenza per accorgercene e la volontà di cambiare.

Oppure, potrei citarvi una delle principali fonti di cultura diffusa nel nostro Paese, sempre perché anche di un fenomeno culturale stiamo parlando, che è la televisione italiana. Quante volte, colleghi, anche recentemente, ci siamo trovati a commentare con indignazione la volgarità di certe esternazioni misogine e sessiste, sbandierate e rivendicate in prima serata, in programmi con uno share impressionante, come se nulla fosse, senza nessuna conseguenza per chi si permette di utilizzare certe parole in un'emittente, da un punto così rilevante di ascolto per il Paese? L'ultimo caso riguarda la telecronaca sportiva, ma sappiamo bene che non si tratta solo di quella, c'è il dato a mio parere che sembra non poter esistere in Italia una regia di qualche sorta in grado di dare un indirizzo, un'impronta di contrasto alla misoginia e al sessismo nella televisione pubblica italiana. Possiamo porci questo problema o pensiamo che non sia pertinente con quello di cui discutiamo oggi? Siamo sicuri, colleghi, che questo non abbia niente a che fare con i troppi episodi che, poi, sono concreti e non più solo verbali, purtroppo, di violenza di genere? Perché io non ne sono sicura affatto.

Potremmo parlare, infine, della totale assenza della cultura del consenso nella norma che punisce la violenza sessuale, così come nelle relazioni interpersonali. Parlare di consenso, oggi, è un qualcosa di molto fastidioso per la gran parte dell'opinione pubblica e, quindi, di quasi rivoluzionario, ma le parole inaccettabili che sentiamo ogni giorno ce ne dimostrano la necessità: aveva vestiti provocanti, aveva assunto cocaina, era ubriaca, era disinibita… Questa è la realtà che si trova di fronte una donna che denuncia una violenza sessuale ed è un gradino da scavalcare che noi non possiamo ignorare, anche se le imponiamo di scavalcarlo dopo soli tre giorni.

Se ci sembra una questione troppo ampia da affrontare, quella della cultura patriarcale, che favorisce il terreno della violenza di genere e che la replica e la fa replicare in tutte le sue forme più subdole, se questo ci sembra un problema troppo grande e troppo imponente, colleghi, è così, lo è e lo è al punto che impatta quotidianamente non solo la mia vita, ma, credo, anche quella di tutte le colleghe, a prescindere dalla parte politica, che siedono in quest'Aula e di tutte le donne nel nostro Paese.

Non è sufficiente, quindi, per me, accontentarsi di definire la norma che abbiamo in discussione, oggi, come un intervento circoscritto e rimandare a proposte di legge future una discussione approfondita su anche questi argomenti; noi dobbiamo cogliere ogni occasione possibile per farlo e non è accettabile che qualsiasi provvedimento volto anche solo a togliere un mattoncino al gigante muro della violenza di genere non preveda contemporaneamente un forte investimento di risorse, quantomeno nella formazione degli attori che per primi intercettano le vittime, perché altrimenti non stiamo facendo un servizio, non stiamo facendo qualcosa di utile, non stiamo rispondendo al codice rosso, stiamo solo esponendo più donne al rischio di subire vittimizzazione secondaria.

A me questo sembra un punto di dirimente importanza, per questo il Partito Democratico - lo annuncio già, anche se questa non è una dichiarazione di voto - voterà “astenuto” a questa proposta di legge, non tanto perché la riteniamo dannosa o perché non ne condividiamo l'intento e neanche mettiamo in dubbio la buona volontà che ci stia dietro, ma perché pensiamo che temi così complessi e così delicati come la violenza di genere e, soprattutto, ciò che nella società la causa, la origina e la rende così presente nelle nostre vite, non possano essere affrontati con la pinzetta, un intervento chirurgico dietro l'altro. Richiedono un impegno serio da parte di questo Parlamento, da parte di entrambe le Camere, un impegno bipartisan, quindi, non capiamo bene la logica, ad esempio, dello scegliere solo la proposta di legge Bongiorno e di slegarla ad esempio dalla proposta di legge Valente e dalla proposta di legge della collega di Italia Viva che era stata presentata al Senato e che era abbinabile. Se non vogliamo essere in malafede e non lo vogliamo essere, perché è un tema reale, non capiamo perché.

È questa la domanda che io consegno a quest'Aula, ma è soprattutto l'appello accorato mio e del Partito Democratico a continuare la discussione che nel mio piccolo ho cercato di avviare oggi, anche nei suoi aspetti più scomodi, anche nei suoi aspetti più fastidiosi, anche negli aspetti che ci vedono coinvolti in prima persona, non solo come vittime, ma anche come, più o meno, volontari perpetratori di una cultura che è violenta, è opprimente e che fa male non solo alle donne, ma alla cittadinanza tutta.