Lavoro

Decreto lavoro: provvedimento iniquo, niente per salari bassi e lavoro precario

27/06/2023

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Presentato in Consiglio dei Ministri il 1° maggio, con un’enfasi mediatica apparsa subito decisamente sproporzionata rispetto alla rilevanza e alla qualità del suo contenuto, il decreto-legge n. 48 del 2023, recante “Misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro” è stato approvato dal Senato il 22 giugno 2023 e dalla Camera dei deputati il 29 giugno.

I quattro fondamentali ambiti di intervento del provvedimento riguardano:

  • l’istituzione di un nuovo strumento di contrasto alla povertà;
  • la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro in relazione anche ai percorsi formativi scuola-lavoro;
  • il mercato del lavoro e in particolare l’espansione della possibilità di utilizzare contratti a termine;
  • la riduzione del cuneo fiscale lato lavoratore.

Nel complesso, si tratta di un insieme di misure non sempre coordinate tra loro e soprattutto figlie di un’impostazione di fondo che tende in modo chiaro a diminuire il sostegno a chi si trova in condizioni di povertà e le tutele per i lavoratori, penalizzando in particolare i giovani e le donne e chi si trova in una situazione di maggiore fragilità perché rientrante in settori dove le condizioni economiche e normative offrono meno garanzie.

Davvero si può dire che mai, come per questo decreto, titolo fu più sbagliato: invece di favorire l’inclusione sociale e il lavoro, si finirà per produrre l’esatto contrario: aumentare la marginalità e l’esclusione e moltiplicare il lavoro povero e precario.

Rispetto al primo dei quattro ambiti sopra citati, l’Italia è l’unico Paese che, grazie a questo Governo, si ritroverà privo di una misura di contrasto alla povertà di tipo universale, dato che l’Assegno di inclusione, a differenza del nostro Reddito di inclusione e poi del Reddito di cittadinanza – che con tutti i suoi limiti ha contribuito a garantire la tenuta sociale durante la pandemia – non può certo essere definito tale.

L'Assegno d’inclusione prevede infatti una misura categoriale destinata alle famiglie in povertà nelle quali siano presenti minori, disabili o persone con almeno 60 anni, avanzando così verso una nuova frontiera della disuguaglianza: l’adozione di politiche ineguali nei confronti di persone che si trovano in uguale condizione di difficoltà economica.

Il risultato è che la platea dei beneficiari sarà quasi dimezzata: circa 400 mila nuclei familiari che prima ricevevano un sostegno ne resteranno privi. E in un terzo dei casi, non perché in presenza di persone “occupabili” – concetto che dovrebbe tener conto delle esperienze di lavoro passate, alle caratteristiche psicofisiche, al contesto sociale dove si nasce e si vive – ma per mancanza di requisiti familiari.

Anche se, quanto a reddito e situazione patrimoniale, si è comunque in condizione di povertà. È come se si dividessero i poveri tra “meritevoli”, che hanno minori o non autosufficienti a carico, e “non meritevoli”, che non hanno invece questi carichi. Con l’implicito ma chiaro retro-pensiero che se qualcuno è in età di lavoro e non lo fa, è solo colpa sua. E con una evidente concezione della povertà come colpa da espiare e non come un’ingiustizia da combattere.

Detto che gli interventi riguardanti la tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro sono davvero minimi e perciò insufficienti ad affrontare quella che è una vera e propria emergenza nazionale, che dire delle misure introdotte sui contratti a termine, che vanno esattamente in senso contrario rispetto al contrasto alla precarietà?

È Bankitalia a dire che la quota di giovani che resta precaria anche dopo cinque anni è del 20 per cento e che i contratti a termine riguardano oltre 3 milioni di persone. Di fronte a questo, il Governo invece di adoperarsi per invertire la rotta mantiene le prerogative esistenti e anzi amplia le maglie, fino a consentire, in assenza di contrattazione, di far definire la causale fra le parti, senza tener conto dell’evidente diversità di potere contrattuale in campo. Come può il giovane precario, che spera in un rinnovo, avere lo stesso potere contrattuale del suo datore di lavoro, che il rinnovo lo decide? Di fatto siamo di fronte a una vera e propria liberalizzazione dei contratti a termine, che potranno avere una durata massima di 24 mesi e non più di 12 mesi. Così come va in questo senso la continua elevazione del limite economico, portato a 15 mila euro annui, dei voucher in alcuni settori.

Insomma, in un quadro di disuguaglianze crescenti, di bassa qualità del lavoro, di nuova insicurezza per i giovani e i meno giovani, il Governo, come ha sottolineato la deputata del PD-IDP Chiara Gribaudo nella sua dichiarazione di voto sulla fiducia, “si dimostra forte con i deboli e debole con i forti” e continua “a precarizzare il mercato del lavoro, per spingere i lavoratori ad accettare stipendi più bassi e contratti con meno tutele”.

Quanto al tanto sbandierato taglio del cuneo fiscale, non può certo essere considerato un dettaglio, ma l’aspetto centrale che porta ad esprimere anche qui un giudizio negativo, il fatto che non è stato fatto in modo strutturale, cioè in modo permanente, ma ci si è limitati a prevederlo con una scadenza ravvicinata, fino alla fine di quest’anno. Considerando poi che anche più nel merito il taglio è totalmente insufficiente rispetto all’impatto sui salari, la conclusione viene da sé: il costo del lavoro diminuisce, ma di poco, per pochi e per poco.

Anche su questo noi abbiamo avanzato proposte ed emendamenti, sia al Senato sia alla Camera, per rendere il taglio strutturale, ma nonostante avessimo indicato 3 anche le coperture necessarie, come sempre o quasi la maggioranza e il Governo non hanno ritenuto di ascoltare la voce dell’opposizione.

Aggiungiamo poi il fatto che oltre a tutto ciò che di sbagliato questo decreto contiene, c’è un lungo elenco di questioni cruciali che non vengono nemmeno affrontate: il tema dei salari, a partire dal salario minimo; il rinnovo dei contratti collettivi nazionali; le misure da adottare per tutelare i lavoratori in caso di delocalizzazione; vere ed efficaci politiche attive; la trasparenza nei rapporti di lavoro e gli algoritmi nelle piattaforme; il potenziamento dei centri per l’impiego; il potenziamento del welfare aziendale; il ripristino di Opzione donna.

Detto che tutto ciò ha portato ovviamente il Gruppo del PD-IDP ad esprimere un voto convintamente negativo su un provvedimento che il nostro deputato Arturo Scotto, nella sua dichiarazione di voto finale, ha definito “un concentrato di cinismo sociale, un incoraggiamento all’espansione del lavoro nero, una spintarella all’evasione contributiva, un colpo secco al sindacato e un manifesto carico di arroganza nei confronti della parte più debole del Paese”.

 

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