Relatrice di minoranza
Data: 
Giovedì, 22 Dicembre, 2022
Nome: 
Maria Cecilia Guerra

A.C. 643-bis-A

Grazie, Presidente. La legge di bilancio, che oggi discutiamo, è un primo manifesto politico delle intenzioni e dell'orientamento di questo Governo e di questa maggioranza su assi fondamentali come lavoro, welfare e fisco.

Sul fronte del lavoro, il potenziamento dei voucher, il cui utilizzo è stato ulteriormente ampliato dal passaggio parlamentare, è il sintomo più significativo della considerazione di un lavoro nella piena ed esclusiva disponibilità dei datori - un lavoro usa e getta - e questo perché solo ai datori di lavoro, lavoratori autonomi e imprese viene attribuito il merito di creare ricchezza. Una concezione del secolo scorso che credevamo fosse ormai superata, una visione dello sviluppo economico unicamente fondata sulla compressione del costo del lavoro, incapace, quindi, di confrontarsi con la sfida dell'innovazione tecnologica ed ecologica e della competizione internazionale.

Sul fronte del welfare, con il disprezzo con cui si guarda alla povertà, considerata responsabilità degli individui che ne soffrono e non come prodotto dell'organizzazione dell'economia e della società, che ne fa una questione largamente ereditaria, e di un mercato del lavoro che discrimina giovani, donne e immigrati, con il definanziamento pesante della sanità e dell'istruzione implicito nel mancato adeguamento della spesa in questi comparti, a fronte di un'inflazione che ha ripreso a mordere dopo decenni, con l'utilizzo delle pensioni per fare cassa, il blocco sostanziale di opzione donna e l'apertura dell'ennesima finestra di uscita anticipata per pochi, a fronte della totale assenza di risposte per molti.

Ma uno degli aspetti più sintomatici della filosofia di questa manovra è sicuramente il campo fiscale e io vorrei sottolineare con forza proprio questo tema, il tema della iniquità in campo fiscale. In questa manovra - e, in generale, nella filosofia dei partiti del Governo - il fisco non è considerato come lo strumento necessario per permettere il finanziamento di beni e servizi necessari a tutta la collettività, ma come uno strumento con cui si possono distribuire privilegi a questa o a quella categoria di contribuenti, con agevolazioni, esenzioni e regimi privilegiati. Ne è l'esemplificazione più significativa l'ampliamento del regime forfetario per lavoratori autonomi e imprenditori individuali, che viene chiamato flat tax. L'innalzamento della soglia di ricavi a 85 mila euro ne fa un regime ormai completamente alternativo all'Irpef, all'imposta progressiva, e interesserà il 74 per cento dei lavoratori autonomi. Un sistema che discrimina pesantemente lavoro autonomo, da un lato, e lavoro dipendente e pensione, dall'altro, con i primi che possono pagare fino a 10 mila euro in meno dei secondi a parità di reddito e che, non pagando le addizionali Irpef, si sottraggono, con questo, a ogni dovere nei confronti della comunità a cui appartengono, in quanto non finanziano né i servizi locali né la sanità. Ma è anche un sistema che discrimina pesantemente all'interno del mondo dei lavoratori autonomi, favorendo meno artigiani e commercianti e più i professionisti. Questo perché, in generale, sono più favoriti quelli che investono poco e hanno meno costi, quelli che non si associano, quelli che hanno anche altri redditi, quelli che vendono non a imprese ma ai consumatori finali. Si tratta, come ho detto, specialmente dei professionisti, ai quali, come ci dice l'Ufficio parlamentare di bilancio, viene riservato un vantaggio medio rispetto al regime ordinario di 9.600 euro, ma il 25 per cento di questi professionisti guadagneranno più di 13.264 euro. Non c'è, invece, nessuna attenzione e nessun vantaggio per tutti i lavoratori autonomi giovani con redditi bassi, specie donne, specie quelli che guadagnano meno di 10 mila euro e che, secondo l'Istat, rappresentano il 35,5 per cento del totale.

Ai più ricchi, che non hanno i requisiti per entrare nel forfetario, viene invece riconosciuta anche quella stramberia che si chiama flat tax incrementale, che ci costa 800 milioni e che paghiamo togliendo il reddito di cittadinanza a 440 mila famiglie povere.

Un'ulteriore fonte di iniquità è il premio molto grande che si riconosce a chi non paga le tasse. L'evasione fiscale non è considerata una piaga nel nostro Paese, ma una difesa legittima e giustificata verso un fisco considerato aggressivo, a cui, infatti, si vuole imporre una tregua. Ecco, allora, la saga dei condoni, che sono dieci e sono chiamati con nomi fantasiosi: definizione agevolata, regolarizzazione, adesione agevolata, conciliazione agevolata, rinuncia agevolata, stralcio. Riguardano tutte le fasi del rapporto tra fisco e contribuente, dall'accertamento al contenzioso e alla riscossione. Ci sono tagli su sanzioni e interessi, riduzioni e annullamenti di imposta, rateizzazioni lunghissime che rendono molto conveniente non aver pagato e allontanano nel tempo il momento in cui forse si pagherà. Nell'insieme ci costano un miliardo 100 milioni nel 2023, soldi che avremmo potuto spendere per rendere meno miserevole il taglio al cuneo fiscale per chi, invece, le tasse le paga.

A questi dieci condoni se ne è aggiunto, domenica notte, un altro: lo spalma debiti delle società di calcio. Ci provoca una riduzione di cassa per più di 800 milioni e solo grazie all'intervento del mio gruppo, il Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista, abbiamo per ora evitato un nuovo emendamento che permette anche uno scudo per i reati tributari penali, quali l'omessa dichiarazione e gli omessi versamenti, cioè un favore agli evasori totali, ma la minaccia incombe. Sono condoni generalizzati, senza nessun riferimento all'esistenza o meno di una difficoltà economica effettiva del contribuente, affiancati nella manovra anche da un indebolimento dell'attività di riscossione, che apre le porte a un'ulteriore libertà di evadere senza paura di essere chiamati a pagare il conto. I nostri emendamenti, che intervenivano per raddrizzare queste storture, sono stati bocciati in Commissione e, segnatamente, quello che vincolava la possibilità di aderire a questi condoni soltanto davvero, a fronte di importi molto elevati, a soggetti che fossero in difficoltà economica.

Vorrei, infine, sottolineare con forza che questa è una manovra pericolosa per l'unità del Paese, un Paese attraversato da profondi divari territoriali che interessano non solo le differenze fra Nord e Sud ma anche le aree interne, le montagne e le periferie. Nel Titolo V della nostra Costituzione i livelli essenziali delle prestazioni, che riguardano i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, non possono essere lasciati all'autonomia delle singole regioni. Quindi, per potere parlare di autonomia differenziata si è finalmente capito che prima occorre definire i livelli essenziali delle prestazioni. Quindi, violando palesemente, nel silenzio delle autorità di questa Camera, la legge di contabilità pubblica, viene introdotta una norma procedurale che definisce un percorso abbreviato per definire i livelli essenziali delle prestazioni solo nelle materie che potrebbero interessare, appunto, l'autonomia differenziata, e già questo è piuttosto anomalo. Però, non si tratta, in realtà, di un processo di definizione dei livelli essenziali di prestazioni, ma di un procedimento di mera ricognizione che fotografa gli standard normativi e i finanziamenti storici esistenti e li chiama livelli essenziali delle prestazioni, cristallizzando così le ingiustizie e i divari territoriali e ignorando ogni necessità di perequazione delle risorse finanziarie. Le nostre proposte di fare un serio percorso per definire i livelli essenziali, individuando un adeguato finanziamento e monitorandone l'attuazione, sono state brutalmente bocciate.

Questo processo di ricognizione è considerato urgente, da fare nel massimo di un anno. Peccato che, invece, noi sappiamo che prima di introdurre materie differenziate bisognerebbe almeno aver definito regole certe di partenza. Bisognerebbe definire almeno il finanziamento delle materie comuni. Invece, il processo di federalismo fiscale, che dovrebbe, appunto, definire il finanziamento ordinario delle regioni e i meccanismi di perequazione, non è considerato urgente e viene rimandato al 2027, cioè di quattro anni. Una strana scala di priorità temporale.