A.C. 1178
Grazie, Presidente. Colleghi, come già è capitato in altre circostanze, proprio circa un anno fa, in occasione di un'analoga circostanza di commemorazione della figura di Matteotti, pronuncio il mio discorso dal suo stesso seggio, questo seggio dal quale egli, il 30 maggio 1924, pronunciò il famoso discorso di denuncia dei brogli elettorali e delle violenze avvenute durante la consultazione elettorale. Lo faccio non per un semplice ricordo simbolico, ma anche, se fosse possibile, per sollecitare gli organi della Camera a lasciare una memoria di alcune figure particolarmente significative per la nostra democrazia tra questi seggi.
Matteotti pronunciò questo discorso da questo seggio non perché sedesse stabilmente qui - all'epoca, ci si sedeva un po' dove capitava -, ma quel giorno era esattamente qui, all'estrema sinistra, a pochi passi dal Presidente del Consiglio Mussolini, dagli organi del Governo e della Presidenza della Camera. Quella seduta, forse anche per questo, fu una seduta particolarmente movimentata, particolarmente accesa. Sono passi della storia che non sono stati dimenticati, nonostante sia passato più di un secolo. Sappiamo quanto il tempo corra velocemente, soprattutto negli ultimi anni, quanto tenda a cancellare la memoria, a ridurre lo spazio della memoria, a cancellare i fatti, a livellare le circostanze, eppure la figura di Matteotti è ancora una figura estremamente moderna, estremamente popolare. E le celebrazioni - che, poi, si svilupperanno ulteriormente nel corso dei prossimi tempi, anche grazie alla legge che stiamo discutendo, spero per approvare rapidamente - hanno svelato una particolare attenzione tra le scuole, tra gli studenti, tra i giovani e tra i giovanissimi.
Perché questo? Probabilmente, per un fatto, credo determinante del profilo singolare di Matteotti, specifico di questa figura della nostra storia politica e democratica: la sua integrità, che non vuol dire intransigenza, che non vuol dire integralismo, cioè la fermezza di alcuni principi che egli teneva ben fermi nella sua condotta politica e che, però, si accompagnavano anche alla capacità di stare sulle cose, com'è stato ricordato, di documentarsi per procedere su azioni che, gradualmente, nell'ottica del gradualismo riformista socialista - così come all'epoca si chiamava -, potessero determinare migliori condizioni di vita per i più poveri, per il proletariato. Nonostante quel tempo fosse il tempo delle grandi svolte rivoluzionarie mondiali, delle grandi rotture rivoluzionarie mondiali, che avevano dato a molti popoli la sensazione che addirittura si potesse superare il regime capitalista attraverso dei colpi di mano, egli rimase convinto dell'idea che, invece, si dovesse procedere su una strada di non violenza, di democrazia, di progressivo avanzamento, ma tenendo ben fermi alcuni principi, cioè l'idea che il riformismo non è attenuazione di principi, non è moderazione, ma è tenere insieme due poli e, cioè, fermezza dei princìpi, idealità, utopie e pratica politica concreta, cioè stare sul terreno delle conquiste reali.
Questa figura, questa, se vogliamo dire, atipicità, particolarità, è estremamente moderna, perché oggi il termine “riformista” appare un termine abusato. Chi non si ritiene riformista? Chi non si considera riformista? È un termine che, ormai, appare scolorito e, purtroppo, bisogna dire che, nella storia dei decenni passati, almeno dalla fine della Prima guerra mondiale, dal momento della diaspora socialista, della rottura del Partito Socialista Italiano, che aveva raggiunto una percentuale di voti assoluta, oltre il 30 per cento, e che, in pochi mesi, si disgregò in tre partiti, da quel momento - che, poi, aprì la strada al fascismo, fino alla fine della cosiddetta Prima Repubblica -, la fortuna del riformismo socialista è stata molto, molto difficile, assai poco influente, alla fine, nei destini generali della Repubblica e molto condizionata da grandi divisioni e da grandi contrapposizioni interne. Per questi motivi, la parola “riformista”, in Italia, non è mai andata molto di moda, anzi, spesso, si è considerato riformista qualcuno che si nascondeva dietro pratiche opportuniste, ministerialiste e, cioè, che preferiva utilizzare, per qualche piccola conquista, gli strumenti e le leve del potere puro.
Invece la figura di Matteotti era tutt'altro e questa sua specificità, questa sua diversità oggi è quello che manca alla politica italiana, quello di cui molta parte del popolo, di tanta gente semplice sente il bisogno, cioè una politica forte nei principi, integrale nelle sue appartenenze di fondo, nelle sue credenze di fondo, nei suoi principi di fondo, anche morali, non distinti dalla politica e non moralisti, ma di una politica morale, capace di accompagnarsi anche ad un profilo profondamente etico dei comportamenti e ad una attenzione, però, alle questioni fondamentali, cioè svisando, accantonando ed eliminando l'altro polo del problema, l'altro rischio del problema, cioè quello di scadere nella cultura delle parole, nella demagogia, nel populismo, nella capacità o nel tentativo di sventolare alcune bandiere che, però, poi, non portano a risultati concreti.
Questa è la grande modernità di Matteotti, anche a motivo della sua popolarità, del fatto che, in un mondo in cu spesso si chiede a tanti ragazzi, a tante persone quale è la capitale di un Paese, quale è la data dell'unità d'Italia e si ottengono risposte surreali, se si chiede, però, chi è Matteotti il più delle volte si sente rispondere che è stato un uomo politico, ucciso dai fascisti perché aveva denunciato storture in Parlamento.
Bisogna dire grazie a Liliana Segre per aver ripreso, in tempi molto rapidi, con grande determinazione, il disegno di legge, già approvato dal Senato, promosso dal senatore Nencini, perché a questa stagione di celebrazioni già in corso per ricordare la figura di Matteotti, che si avvale di finanziamenti e di risorse provenienti da diversi Ministeri, come sempre accade, anche dalla stessa Presidenza del Consiglio, si accompagnasse uno specifico strumento, una legge con finanziamenti ad hoc, in vista del centenario di Matteotti, destinato e specifico rispetto alle risorse già attivate, per celebrare questa ricorrenza, per iniziative nelle scuole, in molti comuni e, soprattutto, per valorizzare i cosiddetti luoghi della memoria matteottiana, da Fratta Polesine a Fiano Romano, ma non soltanto nella zona di Roma, restituendo centralità a questa figura.
Matteotti, abbiamo detto, è una figura attuale, moderna. C'è anche un punto che va ricordato. Probabilmente, l'espressione non è propriamente opportuna, non è propriamente e storicamente adeguata a descrivere il caso, ma potremmo definire Matteotti il primo partigiano d'Italia, cioè la prima figura che ha saputo porsi in posizione di intransigenza rispetto alla nascita di un regime che, già nel 1924, quel 30 maggio del 1924, quando egli pronunciò da qui quel discorso, agiva in un Parlamento già largamente fascistizzato per l'esito delle elezioni, che si erano svolte con la legge Acerbo. Ma la sua intransigenza non si determinò soltanto quel giorno, c'era un pregresso. Infatti, Mussolini era arrivato al potere attraverso un percorso molto tortuoso, attraverso un'azione di spinta dal basso, soffiando sul fuoco dei malumori dei reduci della guerra, della piccola borghesia spaventata, delle parti peggiori e più malate del Paese, tentando, allo stesso tempo, il rapporto con il grande blocco reazionario, conservatore, industriale e agrario del Paese, creando un OGM politico, quello che, per l'epoca, potremmo definire un OGM politico, cioè una cosa del tutto strana, del tutto incredibile, nella quale le spinte popolari, il ribellismo delle masse italiane, cioè quella rabbia di stare sotto, di non accettare il percorso graduale, i principi della libertà e della democrazia, ma di tentare la forzatura immediata, si andava saldando con il cuore reazionario di questo Paese, che è sempre esistito, che ancora esiste e che ancora è presente ogni volta che si determinano le condizioni dell'ascesa delle condizioni dei lavoratori all'esercizio del potere.
Questa unità incredibile, questa saldatura imprevista fu il primo fascismo. E in mezzo chi c'era? C'erano quei socialisti unitari, quei socialisti democratici, che, invece, volevano piantare le condizioni della libertà e del progresso in un regime di democrazia e di libertà, e in un regime parlamentare. Quell'avverbio, voglio parlare parlamentarmente, ha un grandissimo significato storico-politico. Matteotti si oppose non solo in quel discorso, ma si oppose a tutto il percorso che aveva portato in questo caos Mussolini al potere. Mussolini nel 1921, prima di giungere, con la marcia su Roma, ad avere l'incarico dal re di formare il nuovo Governo, aveva, con la sua sagacia, con la sua intelligenza felina, a un certo punto, tentato un patto di pacificazione, cioè si era reso conto che, senza un tentativo di coinvolgere alcune parti dei suoi avversari, i socialisti, i popolari, e di liberarsi magari delle parti più acute e più imbarazzanti del movimento delle camicie nere, delle parti più violente, forse la sua salita al potere sarebbe stata più complicata.
Aveva tentato un patto di pacificazione, ma quel patto di pacificazione era naufragato perché, a un certo punto, la parte più radicale del partito fascista lo aveva messo con le spalle al muro e gli aveva detto: dove vai, non puoi tirarci fuori. E lui aveva frenato su questa strada ed era tornato indietro. Poi, dopo il 1922, all'atto di formare il Governo, che, come è noto, era un Governo in cui il partito fascista contava il 19 per cento, e quindi aveva dovuto fare un Governo di coalizione, anche coinvolgendo una parte di partiti, tra cui i popolari, tra cui parte dei liberali, aveva continuato con i suoi vecchi compagni di partito nella direzione del partito socialista a tentare di avvicinare qualche dirigente. Fra questi vi era, per esempio, il segretario generale della FIOM-CGIL, Bruno Buozzi, che rifiutò, ovviamente, nettamente ogni offerta di coinvolgimento. Ma in questo percorso Matteotti fu una delle figure più coerenti, cioè fu uno di quelli che, fin dall'inizio, disse che con il fascismo, anche nelle sue forme più trattativiste, non ci poteva essere lo spazio di una trattativa e di un accordo. Quel giorno, il 30 maggio, la sua denuncia fu talmente netta e ancor più brillante, ancor più lucente alla luce del fatto che ci trovavamo in un Parlamento già fascistizzato e in uno stato di caos delle opposizioni, potrei dire anche in uno stato di paura, rispetto alla domanda del che fare di fronte ad una situazione del genere. Poi ci fu l'Aventino, ci fu il tentativo estremo di rivolgersi al re, che era una figura piccola non solo fisicamente, ma anche politicamente, e che aveva ereditato dalla morte del padre e dall'assassinio, nel 1900, di Umberto I la paura della rivoluzione, da qualunque parte venisse, la paura della sollevazione popolare contro la corona. Quindi teneva soprattutto alla salvaguardia della corona e non mosse un dito di fronte al rischio che queste squadre fasciste potessero incendiare il Paese, e dette il potere a Mussolini, umiliando le opposizioni. Ma in tutto questo Matteotti non si diede per vinto. In merito a questo discorso, quel momento, in cui lui poi disse ai suoi compagni di partito, come è noto, appena finito il discorso “preparate l'orazione funebre per me, il mio discorso l'ho fatto”, ricordavamo con il collega Fornaro, conoscitore e studioso, più di tutti in quest'Aula, della figura di Matteotti, che quel discorso fu improvvisato. Matteotti non aveva un discorso. Venne qui, in una situazione di grandissimo marasma, aveva degli appunti, aveva dei rapporti su quello che era successo, ma che cosa dovesse fare, che cosa si dovesse fare in quell'Aula nessuno lo sapeva. Fu preso da parte da Turati, che gli disse: tu sei il segretario del partito, ora devi fare il tuo dovere. Matteotti pronunziò quel discorso, famoso, noto, ma lo fece con un coraggio tanto più apprezzabile e tanto più eroico e stoico per il fatto che aveva già subito delle violenze. Matteotti aveva già subìto delle aggressioni, era stato pestato, era stato colpito, più volte, nel suo circondario elettorale, era una persona a rischio. Sapeva che, facendo un passo in più, avrebbe rischiato la morte, e sapeva che tra lui e Mussolini correva un sentimento profondamente rancoroso, che nasceva dalla storia dei rapporti interni al partito socialista, quando Mussolini rappresentava l'area rivoluzionaria, massimalista, del partito socialista nei congressi del 1912, quando si erano scontrati nei congressi. Matteotti, con questo aspetto borghese, con questi vestiti civili, con la cravatta, con il papillon, e Mussolini, uomo di popolo, uomo grezzo, che veniva da Dovia, una sperduta frazione di uno sperduto comune della Romagna; era un uomo di coltello, un uomo che veniva dagli istinti più violenti della Romagna, anticlericale. Si guardavano sempre in negativo, e Mussolini non sopportava questa continua e puntuale capacità di denuncia di Matteotti anche nei suoi confronti, anche di attacchi personali, proprio non la sopportava. Quindi, c'era qualche cosa di personale anche nei rapporti fra i due. Matteotti era soprannominato Tempesta. Tempesta non è un soprannome da riformista teoricamente, il riformista è una persona misurata, nella cultura media, uno che sa mediare. Lo chiamavano Tempesta perché era un uomo che attaccava, un uomo che non si fermava di fronte all'esigenza della mediazione politica. Quindi, tutte queste componenti arrivarono poi a esito quel 10 giugno, ma qui c'è da fare un'ulteriore riflessione… mi solleciti quando sono arrivato al termine del mio intervento, Presidente…
…riguardo a quello che sarebbe stato il discorso che poi Matteotti avrebbe dovuto pronunciare l'11 giugno, perché quando lui esce da via Pisanelli, quel fatidico 10 giugno, con una cartelletta sotto il braccio, e si dirige, attraverso il Lungotevere, verso il Parlamento, perché la via Flaminia aveva qualche edificio costruito, ma dava sulla campagna, dalla parte dove adesso c'è lo stadio Flaminio, c'è l'Auditorium, lì era una zona di campagna degradata, un'ansa del Tevere; quindi lui esce da via Pisanelli, passa lungo il Lungotevere e si trova di fronte la squadra, il commando. Capisce subito, perché era abbastanza strano trovarsi una Lancia Lambda con cinque persone che lo attendevano proprio in quel punto. Aveva una cartelletta. Che cosa ci fosse in quella cartella è stato poi ricostruito, non è ancora certo, ma è stato abbastanza ricostruito da importanti storici, tra cui voglio citare Mauro Canali, la persona che più si è dedicata a questo aspetto, che puntava a mettere in luce gli aspetti di affarismo del nuovo regime, nella vicenda dell'affare Sinclair Oil, ossia delle concessioni del petrolio emiliano a una compagnia petrolifera americana in cambio di finanziamenti che probabilmente sarebbero affluiti alla famiglia Mussolini, al partito fascista e direttamente alla corona. Lì c'erano le prove di una questione morale incredibile, che avrebbe potuto far saltare tutto, che avrebbe potuto far saltare per aria il regime. Allora, forse anche per questo, si spiega quella vicenda.
Tutto questo, mi consenta di dire, fa pensare a un'altra epoca successiva della nostra storia. Non voglio fare parallelismi, che sono arditi dal punto di vista storico, che sono spericolati dal punto di vista politico, ma una cosa la voglio mettere in luce, e cioè che l'altra figura, di cui si celebra il quarantennale della morte e di cui si è celebrato il centenario della nascita, la figura di Enrico Berlinguer, è una figura che sintetizza una situazione simile del movimento operaio e socialista di questo secolo.
Un partito che, negli anni Settanta, stava provando ad uscire dall'alveo di un mondo chiuso e che lo condannava all'inessenzialità per cercare un'altra strada, quella di governo. E, in quella strada, il Partito Comunista Italiano ed Enrico Berlinguer si trovarono di fronte gli stessi avversari opposti: da un lato, il cuore reazionario e antipopolare del Paese, industriale, agrario, ma, in quel caso, anche internazionale e, dall'altro, il ribellismo delle masse popolari, l'estrema sinistra rabbiosa che pensava di risolvere tutto con le armi, con le bombe e di trascinare le masse popolari con la violenza. E questo doppio fronte fu il doppio fronte degli anni Settanta.
Questo mi fa pensare non tanto a due figure simili - o forse sì per certi aspetti - ma a una storia del nostro Paese che, puntualmente, si trova di fronte alle stesse domande e agli stessi problemi.
Vorrei mettere in luce un ultimo punto. Si è parlato di tante cose di Matteotti, ma Matteotti era un grande amministratore, aveva fatto il consigliere provinciale, era stato sindaco, si era occupato di cose pratiche, ad esempio di agricoltura. Quindi, celebrare Matteotti significa tante cose (si era anche occupato di amministrazione nel Polesine), significa, anche, per esempio, occuparsi dello sviluppo sostenibile. Qualcuno dirà: ma che c'entra Matteotti con lo sviluppo sostenibile? Eppure, c'entra, perché occuparsi di agricoltura in quelle regioni, oggi esposte ai rischi dei cambiamenti climatici - e lo abbiamo visto in Romagna, il Polesine non è lontano -, di inquinamento e di crescita delle emissioni di CO2, proprio per il tipo di agricoltura intensiva che si è sviluppata nel tempo, richiama un approccio pratico, concreto, scientifico e politico a temi importanti e tecnici, che era la specialità di Matteotti. Egli trascorreva le sue giornate nella sala della biblioteca di allora - che adesso è una sala della segreteria della Commissione esteri - con un grande tavolo, ingombro di carte; passava le sue giornate lì, per documentarsi, per capire, per costruire politiche, per fare il suo lavoro parlamentare. Per fare non parole, ma atti, documenti, deliberazioni, circolari, proposte di legge, mozioni, ordini del giorno, unendo tutto questo a una grande utopia.
Matteotti riformista non fu mai tentato dall'interventismo. Matteotti fu pacifista, anche contro gli orientamenti di parte del suo partito, il Partito Socialista Unitario, e, per questo, fu criticato. Matteotti rimase internazionalista. Matteotti considerava il socialismo qualche cosa che si poteva costruire dal basso, attraverso il protagonismo delle comunità locali, e fu fondatore della Lega delle autonomie locali. Quindi, tutto questo ci riporta a una figura estremamente moderna per i suoi principi, per il suo modo di intendere la funzione politica e parlamentare, estremamente popolare, estremamente attuale, perché, di questo, in fondo, c'è bisogno. L'idea che si possa sacrificare la propria vita per la politica è qualche cosa che oggi non c'è più - non so se tornerà -, e questo consegna Matteotti addirittura a un'immagine risorgimentale, a qualcosa che è molto lontano, lontano anni luce dal nostro stesso universo di pensieri: che ci possa essere una classe politica, selezionata da partiti organizzati e strutturati, che metta in campo una classe dirigente seria, capace di essere espressione di governo, di intendere la funzione di governo senza abbassare la linea dell'utopia, dei grandi valori e delle grandi idealità.
Ed è quello che manca a tanta gente, ai tanti cittadini che non vanno a votare probabilmente anche per questo: perché vedono davanti a loro un panorama appiattito. Vedono tutti uguali, non vedono brillare alcuna luce e alcuna stella. E la stella di Matteotti brilla ancora. Per questo, è giusto, dopo cento anni, ricordarla, celebrarla e renderla popolare ancora di più, soprattutto ai giovani.