A.C. 1178
Grazie, signor Presidente. Onorevoli colleghe e colleghi, rappresentante del Governo: “Aveva nell'ovale degli occhi bruni e verdazzurri il riflesso de' suoi campi del Polesine, dell'acqua dei fossati che riverbera il fremito dei pioppi e disseta la lassitudine infinita di quei braccianti. Nell'agile persona, nel gesto tagliente, rivelava la stirpe tenace, calata dei greppi del Trentino. L'accento tenuemente, dolcemente veneto, non venezievole, ignorava la sdolcinatura. Mosse e sorriso di ragazzo. Fronte, e talora cipiglio, di studioso e pensatore. Animoso, a volte monello. Sobrio. Frettoloso sempre, come l'uomo il quale sa che, pur giovine, non avrà tempo da perdere”.
Queste parole furono pronunciate da Filippo Turati, in ricordo di Giacomo Matteotti, nel primo anniversario del suo omicidio. E per fare quanto propone l'articolo 1 di questa legge, promuovere e valorizzare la conoscenza e lo studio della sua opera e del suo pensiero, bisogna proprio ripartire dal Polesine, dalla sua scelta di vita. Giacomo Matteotti nacque a Fratta Polesine, un piccolo centro di circa 3.000 abitanti, a una quindicina di chilometri a Sud di Rovigo, il 22 maggio 1885 da Girolamo e da Elisabetta Garzarolo. I Matteotti erano originari di Comasine, un piccolo comune della Val di Peio, nel Trentino austriaco, ed erano giunti in Veneto effettuando lavori stagionali. Il 2 dicembre 1921, in quest'Aula, intervenendo in un dibattito, ricordò le ragioni della sua adesione al socialismo: “Noi giovani, specialmente, provenienti da classi borghesi, abbiamo abbracciato l'idea socialista per un alto ideale di civiltà e di redenzione insieme alle nostre plebi agricole”. Il territorio che conobbe da bambino aveva questi caratteri. “Due terzi della popolazione non mangiano che polenta.” - raccontava uno dei migliori medici della provincia di Rovigo al giornalista Adolfo Rossi nel 1983 - “Solo alla festa, e non sempre, si permettono il lusso di una fetta di lardo per companatico o di una minestra di riso cotto nell'acqua e condito con due gocce d'olio. Certe famiglie si sono ridotte a nutrirsi persino di cruschello!”- E ancora - “Con simile nutrimento gli organismi sono deboli, fiacchi, debilitati. (…) Il freddo e il fumo, perché generalmente non possono bruciare che frasche umide e foglie secche, le quali producono molto fumo, una fiammata e punto calore. Spesso, dopo aver visitato un malato, io devo uscire per poter scrivere la ricetta, tanto è scuro l'interno delle capanne. E il fetore? Le basti pensare che certe famiglie sono così povere che non hanno neppure i più intimi utensili. I bambini fanno tutto sui pavimenti, che, imbevendosi di ogni sudiciume diventano dei focolari d'infezione”. Queste sono le ragioni che portarono Giacomo Matteotti a fare una scelta, una scelta di classe sì: stare dalla parte dei più deboli e non dalla parte della sua classe. Lui non rinnegò mai le sue origini benestanti, però nei suoi scritti giovanili, alcuni dei quali ricorrono al 1904, appare forte l'influsso dell'ideologia evangelizzante di Prampolini e Badaloni, assertori di un'azione politica di massa, capace di suscitare il riscatto delle classi lavoratrici. Il riformismo di Matteotti era fortemente legato al filone tipicamente italiano del socialismo agrario, sviluppatosi nelle campagne della Valle Padana e per queste ragioni fu, come è stato ricordato, consigliere comunale in molti comuni, perché all'epoca la legge dava la possibilità di votare ed essere eletti a tutti i proprietari terrieri, e fu anche consigliere provinciale. Arrivò in Parlamento nel 1919, nel collegio con la più alta percentuale del Partito Socialista, il 73 per cento. Ma come arrivò in Parlamento?
Lo ricordò Oddino Morgari: “Passava ore e ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui attingeva dati che gli occorrevano per lottare, con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle cose. Credeva che il fare così fosse un debito di probità intellettuale verso se stesso, il nemico e anche verso le masse, le quali hanno diritto di pretendere che i loro condottieri non le illudano, ciò che è un modo di tradirle, anche se involontario”. E ancora Morgari ricordava Matteotti piuttosto esile, snello, slanciato, molto distinto, gli occhi grigi ben aperti, la fronte piccola ed energica, il volto giovane sempre rasato all'inglese, per lo più sorridente, a volte distratto, il passo svelto ed elastico che lo faceva superare al volo i corridoi e le scale, ma anche un padre premuroso che, finita la seduta parlamentare, correva a casa, impaziente di vedere i suoi tre bimbi, di voltarsi al suolo sul tappeto con essi per animarne i giochi.
È stato ricordato il discorso di Matteotti, l'ultimo discorso pronunciato, quello del 30 maggio 1924, anche se non fu l'ultima volta in cui lui pronunciò parole in quest'Aula, perché alcuni giorni dopo ebbe uno scontro dialettico molto duro proprio con Mussolini. Però, l'odio nei confronti di Matteotti arriva da molto più lontano. Matteotti lascia il Congresso di Livorno (15-21 gennaio 1921), un congresso importante e determinante, quello da cui nascerà poi il Partito Comunista d'Italia. Lo lascia perché deve correre a Ferrara ,a sostituire il segretario della camera del lavoro e il sindaco, che sono stati arrestati. Quando è lì - per capire l'odio - alcuni, seduti in uno dei caffè del centro, un gruppo di agrari, gridò pubblicamente ai fascisti: “Bisogna sopprimere” - cito virgolettato - “e a tutti i costi ammazzare l'onorevole Matteotti”. Siamo nel gennaio del 1921 e gli capitò anche a Castelguglielmo, nel marzo del 1921, di essere aggredito, portato sui camion e poi lasciato nelle campagne, macilento e con tutti i vestiti strappati. Perché c'era quest'odio? Altrimenti, non si capisce anche quello che avvenne dopo. Perché Matteotti in quest'Aula, non nel 1924, ma già nel 1921, in piena Italia liberale, denunciava quello che succedeva. Il 10 marzo del 1921 raccontava quello che succedeva nel suo Polesine e che spiega le ragioni per cui non c'è un fascismo buono, a cui ha fatto seguito un fascismo cattivo. “Nel cuore della notte, mentre i galantuomini sono nelle loro case a dormire” - diceva Matteotti - “arrivano i camions di fascisti nei paeselli, nelle campagne, nelle frazioni composte di poche centinaia di abitanti. Arrivano accompagnati naturalmente dai capi dell'agraria locale, sempre guidati da essi (…). Si presentano davanti a una casetta e si sente l'ordine: ‘Circondate la casa' Sono venti, sono cento persone, armate di fucili e rivoltelle. Si chiama il capolega” - capo della lega del miglioramento dei contadini - “e gli si intima di discendere. Se il capolega non discende gli si dice: ‘Se non scendi, ti bruciamo la casa, tua moglie e i tuoi figlioli'. Il capolega discende; se apre la porta, lo pigliano, lo legano, lo portano sul camion, gli fanno passare le torture più inenarrabili fingendo di ammazzarlo, di annegarlo, poi lo abbandonano in mezzo alla campagna, nudo, legato ad un albero! Se il capo lega è un uomo di fegato e non apre e adopera le armi per la sua difesa, allora è l'assassinio è immediato che si consuma nel cuore della notte, cento contro uno. Questo è il sistema nel Polesine”.
Questo era il fascismo agrario nel Polesine nel 1921. Nell'aprile del 1921, un ispettore di Polizia, inviato in Polesine, avrebbe confermato le denunce matteottiane: “I fascisti si sono dati alla caccia all'uomo e non v'ha giorno in cui non inseguano, affrontino, percuotano, maltrattino coloro che sanno di appartenere alle organizzazioni socialiste (…) E poi non cessano dall'invasione delle case, dalla distruzione di mobili, documenti, oggetti, dall'appiccare incendi, dallo sparare di notte nell'abitato, dal girare a gruppi armati; e questo allo scopo di tenere in continuo stato di intimidazione la gente, che in effetti in alcuni posti è così impressionata, impaurita, potrebbe dirsi terrorizzata, da disertare i pubblici ritrovi, da non uscire più di casa”.
Matteotti era odiato perché raccontava e metteva in evidenza proprio questo: che il fascismo non era stato semplicemente un po' di olio di ricino. Quindi, questa del centenario è l'occasione per provare a ragionare e a riflettere - a 100 anni di distanza, appunto - su cosa abbiano rappresentato il fascismo e l'antifascismo e come la violenza sia stata matrice del fascismo.
Come non ricordare un'altra figura e, concludo Presidente, perché è giusto farlo: oggi ricordiamo Giacomo Matteotti, ma non fu il primo deputato assassinato. Ben prima, nell'Italia liberale, il 26 settembre 1921, fascisti accerchiarono e spararono alla schiena Giuseppe Di Vagno, socialista, il nostro gigante buono, lo chiamava Turati.
Insomma, è un'occasione importante da non sprecare per ricordare un uomo straordinario, una figura moderna, popolare, dalla grande integrità, con principi e valori che valgono ancora oggi e un'idea del riformismo che metteva insieme fermezza dei principi, valori e pragmatismo.
Il gruppo del Partito Democratico convintamente voterà a favore. Lo ha fatto da questo banco: all'epoca - ancora 30 secondi - non c'era il posto assegnato, questo è vero, non c'erano i gruppi fino al 1920, ma abbiamo ritrovato una foto in cui Matteotti era in questa posizione ed è stato un onore, un privilegio poter svolgere il mio discorso da qui.