Data: 
Mercoledì, 4 Ottobre, 2023
Nome: 
Andrea Orlando

Signora Presidente, colleghi deputati, il Paese ha perduto una personalità politica di assoluta grandezza. Il gruppo del PD saluta un leader politico, un uomo delle istituzioni, e oggi, ancora una volta, vuole rinnovare il proprio cordoglio e la propria vicinanza alla famiglia e a tutti coloro che, in questi anni, hanno collaborato con il Presidente Napolitano. Se non apparisse segno di presunzione, vorrei dire che saluto un maestro. Dirò, più sobriamente, un riferimento essenziale, che mi ha fatto l'onore della sua considerazione. Proprio in quest'Aula ne sono state ricordate le doti, la capacità di leggere i processi storici sia nella dimensione interna sia in quella internazionale, lo stile, l'equilibrio, la sagacia e la sapienza politica, la cultura e l'amore per la cultura, la cultura del diritto, di cui sono stato diretto testimone.

 Ma credo che la semplice somma delle sue qualità non sia sufficiente a definirne la statura, perché esse sono state insieme la condizione e la conseguenza dell'esercizio costante, e talvolta improbo, che ha segnato quasi tutto il corso della sua vita: tenere insieme le idee e le domande profonde che la sua parte politica poneva con l'interesse generale. Proprio per questo Giorgio Napolitano è stato forse il dirigente che più di ogni altro si è battuto per la trasformazione della comunità politica alla quale apparteneva, il Partito Comunista Italiano.

E nell'agire per andare oltre le sicurezze dei vecchi confini si intravedono i tratti dell'uomo di Stato. Sa che solo una forza profondamente innervata nella democrazia liberale è in grado, sfuggendo così al rischio della marginalità e dell'esclusione, di far pesare adeguatamente i bisogni e le istanze delle classi subalterne, ed è consapevole che una democrazia che non sa coinvolgere appieno i settori popolari della società si fa fragile ed esposta ai rischi di involuzione. Questa analisi troverà una eloquente e drammatica conferma nella storia del nostro Paese, tanto nelle conquiste civili e sociali che a partire dagli anni Sessanta cambiarono il volto della nostra società, quanto nei tentativi di sovversione che colpirono la Repubblica sin dai suoi primi passi e che furono respinti proprio grazie all'unità del popolo italiano.

Il cambiamento, dunque, di una parte come condizione per il consolidamento democratico e il progresso sociale di tutto il Paese. Nella Napoli europea che si sente erede di Vico e Filangieri, forte delle ragioni di Croce, matura l'insofferenza per la dittatura fascista, ma questa consapevolezza si fa piena assieme ad un gruppo di giovani intellettuali ed artisti della sua generazione che avverte l'insostenibile ipoteca sul futuro rappresentata dalla dittatura e il gravame che essa ha imposto sul Mezzogiorno. Nella sua città, squassata dalla guerra e piegata dalla miseria, Napolitano comprende che le ambizioni riformatrici non possono affermarsi soltanto per la via del pensiero.

Senza il riscatto dei ceti popolari, senza la saldatura tra gli obiettivi di riforma e i bisogni delle classi subalterne, la critica dell'esistente resta un nobile, ma ininfluente esercizio. E così segue una via che era già stata tanti anni prima seguita dal suo maestro Giorgio Amendola. Cerca un confronto con le domande del popolo e lo trova nella forza che con più intransigenza ha saputo resistere e con più efficacia combattere il fascismo, e che, nell'Italia del primo dopoguerra, a partire dal Mezzogiorno, organizza molte delle forze intellettuali e sociali più vive: il Partito Comunista Italiano.

Una forza, ma anche una contraddizione. Vive nella democrazia italiana e ad essa dà forza, ma è sospinto dalla divisione del mondo in blocchi in un campo dove l'involuzione del socialismo ha prodotto regimi dispotici. Dal momento in cui quest'ultimo aspetto si fa evidente, il suo cruccio costante diventa il superamento di questa contraddizione, senza lacerare la sua comunità, ma senza mai rinunciare a un punto di vista. La ricerca di uno stretto rapporto con il socialismo italiano prima, con quello europeo poi e con le forze progressiste del mondo atlantico diventano un segno della sua attività.

L'impegno premiato da indubbio successo per inserire il PCI nel processo di costruzione europea, l'attenzione al movimento sindacale e a quella culla del riformismo che fu la CGIL di Luciano Lama, la lotta contro il settarismo, contro tutte le chiusure ideologiche e dogmatiche, il fastidio per ogni vuota demagogia: sono tutte declinazioni di questa lotta, che approda a un convincimento che lo guida nelle istituzioni. Quando esse si indeboliscono, quando non riescono più ad interpretare la società che cambia, quando, di conseguenza, si fa strada un pensiero antipolitico, sono i più deboli a pagare il prezzo più alto e i poteri di fatto a rafforzare la loro influenza.

Di qui il suo costante richiamo all'esigenza di rinnovare in modo condiviso le istituzioni della Repubblica, un richiamo che non dovremmo far cadere. La traiettoria politica di Napolitano però potrebbe essere anche narrata come la manifestazione per il fastidio per la sciatteria e per l'approssimazione nel discorso pubblico, e questo tratto fu spesso scambiato per pignoleria. In verità, era la naturale conseguenza di una profonda fiducia nel confronto, a partire da quello parlamentare. Il Parlamento che Napolitano ha auspicato fino all'ultimo è un luogo diverso da quello nel quale si fronteggiano in modo impermeabile gli slogan di maggioranza e opposizioni e ci si limita a misurare i rapporti di forza, e non è una questione di bon ton.

In Napolitano c'era la convinzione, che, peraltro, aveva come alto riferimento l'antefatto della Costituente, che le buone ragioni fossero in grado di modificare anche gli orientamenti degli avversari, se vi era la necessaria capacità persuasiva e la necessaria capacità di ascolto, e che anche i più profondi convincimenti non fossero incompatibili con la ricerca di ragionevoli punti di incontro nell'interesse generale. Sarebbe bello che sapessimo raccogliere questo lascito, sarebbe un degno tributo a un uomo che ha saputo incarnare in modo nobile e alto il primato della politica.