Grazie, Presidente. Ricorrono in questi giorni i 100 anni dalla nascita di don Lorenzo Milani, celebrati sabato a Barbiana. La cerimonia, alla presenza del Presidente della Repubblica, Mattarella, e del presidente della CEI, Zuppi, restituisce al Paese e a noi tutti la centralità della figura di don Milani.
Su don Lorenzo è stato detto molto, la sua figura ha scosso in profondità tante coscienze a partire dagli anni Sessanta, ha fatto discutere ed è stata osteggiata e strumentalizzata. Nato in una ricca famiglia fiorentina, è divenuto noto per il suo servizio di prete in due piccoli centri della Toscana, Calenzano e, ancor più, Barbiana, dove arrivò nel 1954.
Come ha detto sabato il Presidente Mattarella, don Milani è stato un maestro, un educatore, guida per i giovani che sono cresciuti con lui nella scuola popolare, testimone coerente e scomodo per la comunità civile e per quella religiosa del suo tempo. Molti in Italia sono cresciuti e hanno sviluppato la loro coscienza civile e politica, seguendo l'esempio di don Milani che, in quel piccolo borgo, ha vissuto, con tenacia, realizzando l'articolo 3 della Costituzione, non solo nella parte relativa all'uguaglianza, ma anche in quella che prevede di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
L'amore, la passione di don Milani per quei bambini e per i loro diritti negati - bambini destinati, come loro stessi hanno raccontato più volte, ad occuparsi delle pecore, dei maiali e delle galline o ad essere sfruttati senza diritti nelle fabbriche o nell'edilizia - hanno costituito esempio di riscatto per tanti periferici e dimenticati e l'opera comune, costituita da Lettera a una professoressa, ne è l'evidente testamento e testimonianza.
Oggi Barbiana è realtà della nostra storia, nonostante la sua piccolezza, ma è anche un simbolo, come ha scritto Andrea Riccardi, un simbolo su cui converrebbe interrogarsi di più, la dimostrazione di quanto, in condizioni impossibili, possono fare un uomo o una donna che amano e lavorano per gli altri. Torna alla mente quanto il priore scrisse alla madre: “La grandezza d'una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, ma da tutt'altre cose. E neanche le possibilità di fare del bene si misurano dal numero dei parrocchiani”, decisamente pochi in quel luogo sperduto.
In tanti abbiamo capito e ci siamo appassionati all'impegno per gli altri seguendo la semplice profondità della sua intuizione: non c'è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali tra disuguali. E il tema di come dare di più a chi ha di meno è una sfida ancora aperta. Al cuore dell'emancipazione pensata da don Milani c'era la scuola, perché, come lui stesso diceva: “È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli”.
Lo ha sottolineato anche Papa Francesco, quando, nel 2017, a 50 anni dalla morte di don Milani, si recò in visita alla tomba del priore. Disse: “Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c'è dignità e, quindi, neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani”. E nella sua scuola, a Barbiana, si dibatteva e ci si confrontava con tanti - giornalisti, imprenditori, sindacalisti -, con franchezza e libertà. La Chiesa dei suoi tempi non volle ricevere la sua eredità, che fu raccolta solo da chi ne restava colpito o affascinato. Ma lui volle essere un prete profondamente evangelico con il suo stile; parlava e obbediva e la visita del Papa ha risarcito definitivamente la sua figura; in quell'occasione disse: “La Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa”.
Don Milani non parlò alla società solo di scuola, ma di lavoro, di pace, di obiezione di coscienza e don Lorenzo non parla solo alla società del suo tempo: il suo messaggio è vivo e forte in ogni tempo e per noi oggi. Disse: «Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande I care. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa”, “mi sta a cuore”. È l'esatto contrario del motto fascista “Me ne frego”».
Il suo “mi importa” ci apre gli occhi sui tanti che, ancora oggi, non hanno la parola in Italia e nel mondo, schiacciati sotto ingiustizia ed ineguaglianza e ci chiamano ad agire perché come lui stesso ha detto: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l'avarizia”.
Grazie don Milani, sempre dalla parte degli ultimi, esempio di prete e cittadino italiano, perché ancora ci chiami a guardare in faccia le persone, a metterci nei loro panni e ci insegni a non darci pace, finché non siano strappate a un destino già segnato.