Data: 
Mercoledì, 22 Ottobre, 2014
Nome: 
Matteo Renzi

Presidente del Consiglio dei ministri. Signora Presidente, onorevoli deputate e onorevoli deputati, il Consiglio europeo del 23 e 24 ottobre segna l'ultimo Consiglio europeo presieduto da Herman Van Rompuy e l'ultimo Consiglio europeo con la Commissione guidata dal Presidente Barroso. Nel primo caso si tratta di terminare un percorso durato cinque anni, nel secondo caso si tratta di mettere la parola fine ad un'esperienza decennale. Dunque, si tratta dell'ultimo Consiglio europeo di una stagione ricca, impegnativa e difficile, che ha attraversato turbolenze e momenti di difficoltà ma che conclude un percorso. Oggi, questa mattina, il Parlamento europeo ha votato l'assenso, la fiducia alla nuova Commissione che quindi entrerà in carica a partire dal 1o novembre e questo comporta, nell'illustrazione degli argomenti e dei contenuti del Consiglio di domani e dopodomani, una difficoltà, nel senso che naturalmente e fisiologicamente i temi oggetto del dibattito sono molto rilevanti e importanti, dalla situazione economica alle questioni internazionali, pure toccate in modo non pieno come accaduto in passato, fino alla grande questione climatica ed energetica, ma lo faremo con soggetti che tra qualche settimana avranno visto terminato il proprio compito. Questo è l'elemento di difficoltà nel quale noi ci troviamo a operare. Faccio semplicemente un esempio, per essere meno astratto: è del tutto evidente che il lancio del tema dei 300 miliardi di euro di investimenti che per noi, per il Governo italiano, per la Presidenza italiana costituiscono un grande elemento di novità e di rilevante impegno da parte delle istituzioni europee, sta nel draft di conclusioni che noi abbiamo visto e che sarà approvato nel corso della giornata di venerdì, ma è del tutto evidente che la definizione e declinazione di questi 300 miliardi di investimenti sono al momento assenti dal dibattito fintanto che il Presidente della Commissione Juncker non avrà preso il proprio incarico a tempo pieno. Dunque, possiamo limitarci a inserire, come abbiamo fatto, l'espressione «addizionali» – si tratta di 300 miliardi di euro addizionali rispetto alle spese che già vengono fatte in investimenti da parte delle istituzioni europee – ma non siamo ancora nelle condizioni di poter declinare questi denari. Ecco l'elemento di difficoltà che abbiamo in questo Consiglio europeo. 
Se non fosse una citazione un po’ eccessiva, un Consiglio del già e non ancora, che avremo il dovere di affrontare dalla giornata di domani, partendo innanzitutto dalla questione del pacchetto clima-energia. Io non vi tedierò su questo, se non per punti molto sommari, avendo il Parlamento e in particolar modo le Commissioni già discusso di questo e avendo il Ministro Galletti più volte avuto occasione di confrontarsi e di confrontarsi con voi. 
Mi limito a questa sintesi: l'Italia domani porterà al Consiglio europeo, se avallata dal voto del Parlamento italiano, l'assoluta convinzione che, in tema di clima e di energia, il nostro compito è quello di avere l'ambizione più alta possibile. È difficile nel dibattito anche con gli altri Paesi. Non tutti sono di questo avviso: c’è una forte resistenza di quei Paesi che in particolar modo si affidano al carbone ad accettare un'ambizione così significativa e rilevate ma – ne sono convinto – non abbiamo alternative perché oggi la scommessa dell'Europa, anche nel mondo che cambia e nel mondo globalizzato, è quella di fare delle scelte di sostenibilità e ambientali un'occasione per creare posti di lavoro, per ridurre la dipendenza dalle fonti tradizionali e per – l'ha detto più volte il Ministro Galletti – creare un vero e proprio piano industriale dell'economia verde, i green jobs, a cui più volte si è fatto riferimento in varie sedi, anche quella suprema del Parlamento, e che io credo costituiscano per noi un punto di riferimento. 
La declinazione di questo impegno, che naturalmente non può negare la necessità di preservare la competitività del sistema industriale europeo rispetto ad una concorrenza internazionale che talvolta non pone particolare attenzione a questi temi, la declinazione concreta passa dalla ripartizione degli oneri di riduzione delle emissioni per alcuni settori, in particolar modo industria leggera, servizi ed agricoltura, che vedrà dal giorno dopo il Consiglio europeo un complicato negoziato tecnico, un complesso e complicato negoziato tecnico, in cui sicuramente faremo sentire la nostra voce, il tema del maggior costo imposto all'industria nazionale per l'aumento degli oneri energetici derivanti dalla riduzione delle emissioni e il grande tema dell'efficienza energetica. 
Noi abbiamo dato la disponibilità a considerare un obiettivo indicativo a livello comunitario del 30 per cento; il testo di conclusioni dovrebbe contenere un obiettivo non vincolante del 27, innalzabile dal 2020 al 30 per cento, ma sono ovviamente ancora in queste ore in corso le discussioni tra gli sherpa, incaricati di preparare il lavoro di domani e dopodomani e, in materia di rinnovabili, abbiamo espresso il nostro consenso perché si possa aumentare al 27 per cento la quota obbligatoria. Il negoziato è ancora in corso, è un negoziato complesso e mi limito a dire che su questi temi noi abbiamo una profonda convinzione che ciò che il mondo si aspetta dall'Europa è che l'Europa indichi non soltanto degli obiettivi vincolanti, ma anche che sia capace di tradurre in progetto industriale questa scommessa sulla sostenibilità. 
Naturalmente questo quadro non sarebbe credibile se non fosse accompagnato da ulteriori riflessioni che sommariamente accenno e che riguardano peraltro la scelta di politica energetica che il nostro Paese deve comunque fare. 
Indipendentemente infatti da valutazioni di natura geopolitica, o comunque legate alle tensioni internazionali che si sono verificate, io credo e questo Governo crede che sia nostra priorità quella di riuscire a instaurare, accanto all'asse est-ovest, che ha caratterizzato il tema dell'approvvigionamento delle risorse energetiche da sempre nella storia del nostro Paese, che si debba studiare e approfondire un diverso canale, un ulteriore canale di approvvigionamento che corre lungo la direttrice nord-sud, più che est-ovest. Sta in questo l'investimento che abbiamo fatto in questi primi mesi nel rapporto con alcuni Paesi africani, direi con molti Paesi africani, e vorrei dire che questo, dal Mozambico all'Angola e dall'Egitto al Congo, sta vedendo un protagonismo italiano, il quale deve però convintamente esprimersi anche nel dibattito che si annuncia teso domani tra alcuni Paesi partner e colleghi rispetto alla necessità che l'Unione europea si doti di infrastrutture anche al proprio interno tese a garantire l'interconnessione a fini energetici. Mi riferisco specificamente fuori di metafora, di giri di parole e di astrattezza al complicato equilibrio tra Francia e Spagna sulle pipeline e le interconnessioni tra questi due Paesi. 
È stato oggetto di polemiche nel corso degli ultimi mesi; è oggetto di discussione a livello tecnico, e anche, lasciatemelo dire, a livello politico. Domani noi andiamo con questo principio alla discussione: è inaccettabile continuare a fare riferimenti sull'energia e sul fabbisogno energetico del nostro Paese se non siamo nelle condizioni di intervenire innanzitutto a casa nostra, come europei, favorendo e agevolando le interconnessioni fra Francia e Spagna. La quantità di rigassificatori che la Spagna presenta è probabilmente in grado di porsi al servizio dell'intera Unione europea, se vengono agevolati i trasferimenti energetici a partire dall'Africa e soprattutto se poi viene agevolata l'interconnessione tra i singoli Paesi. Tutto questo per dire come il pacchetto clima-energia sia una grande questione, sia una questione importante, significativa e rilevante. Non vi tedio oltre sull'argomento, vi dico soltanto che l'Italia giocherà un ruolo di particolare rilievo in questo innalzamento delle ambizioni a cui ho fatto riferimento. 
È del tutto decisamente evidente, però, che, indipendentemente dal fatto che non sia iscritto all'ordine del giorno o che sia probabilmente non ampio lo spazio che questo tema avrà nelle conclusioni del documento finale, non possiamo esimerci da una riflessione su come anche questi temi – ma mi permetteranno i deputati e le deputate di dire: non solo questi temi – hanno con la grande questione dei rapporti internazionali e le tensioni che si sono registrate anche nel lasso di tempo, questi quattro mesi, che ci separano dall'ultimo vertice che si era svolto, nella prima parte, a Ypres – ricorderete, per ricordare il centenario della Grande Guerra –, e poi a Bruxelles, nel mese di giugno. Mi riferisco, cioè, ad un arco di tempo abbastanza limitato, ma che ha visto il dibattito politico-internazionale quasi in modo frenetico rincorrere priorità su grandi temi di politica internazionale che sono andati, in questi quattro mesi, dalle emergenze sanitarie, come quella di Ebola, su cui tornerò tra qualche istante, alle questioni di tensione geopolitica, fossero esse legate alla vicenda russo-ucraina, alla vicenda siriana e irachena, alla vicenda libica. Permettetemi dunque di spendere una parola su questo per sottolineare come il semestre di Presidenza italiana abbia tentato di muoversi essenzialmente in tre direzioni. 
La prima riguarda il rapporto tra Russia e Ucraina. Noi siamo tra quelli che contestano una lettura superficiale e banale per cui sarebbe nostro interesse intervenire sulla vicenda russa semplicemente per questioni di natura economica, come se la politica estera si limitasse al grado di export di un Paese. È un tema sicuramente rilevante, vorrei non giocare con le parole, ma trovo che, per chi crede che la politica sia una cosa seria – e sono certo che questo riguardi la totalità degli appartenenti a questa Camera, indipendentemente dal colore dell'appartenenza o dalle proprie idee sul punto –, sia evidente che non possa esistere un'Europa che costruisce la propria identità in contrapposizione al suo principale vicino. E contemporaneamente è evidente che non si possa consentire a nessuno, nemmeno alla Russia, di pensare di cambiare i confini di un Paese. È evidente, cioè, che il diritto all'integrità, alla stabilità e alla pace in Ucraina è per noi un punto di riferimento alto e nobile. Contestualmente pensiamo che risolvere il prima possibile la vicenda ucraina costituisca un passo in avanti sicuramente per il popolo ucraino, che andrà a elezioni nelle prossime ore e che vive una situazione di tensione economica molto significativa e di emergenza umanitaria, in alcune zone, di proporzioni davvero rilevanti. Ma è anche una decisa richiesta di tutti coloro i quali, di fronte alle difficoltà che stiamo vivendo, si pongono la questione di come la comunità internazionale possa rispondere ai problemi in modo non episodico. 
Detta in modo meno complicato: se in Ucraina si riesce finalmente ad arrivare a un cessate il fuoco stabile e duraturo, a un processo di pace che viene implementato giorno dopo giorno, a una definizione complicata ma fondamentale degli equilibri, è del tutto evidente che la comunità politica internazionale sarà ben lieta di recuperare il ruolo della Russia in una dimensione di collaborazione istituzionale internazionale, che io giudico fondamentale sia per la vicenda siriana, sia per la vicenda libica sia per l'emergenza sanitaria stessa. È un'operazione win-win quella di riuscire finalmente a risolvere la questione ucraina-russa, sicuramente per il popolo ucraino che ne ha necessità – e io aggiungo diritto –, ma anche per la comunità internazionale, che ha tutto da godere dal fatto che la Russia torni ad avere un ruolo di protagonismo all'interno dello scacchiere internazionale. 
Ecco perché il semestre di Presidenza italiana ha voluto cogliere l'occasione del vertice Asem per affermare la necessità di un rinnovato rapporto con i Paesi orientali; e questa sfida è una sfida che potrebbe portarci a lungo a discutere di quanto sia fondamentale l'investimento sul made in Italy in una cornice internazionale così interessante, in Paesi che crescono con percentuali, ancorché probabilmente un po’ meno elevate che nel passato, ma comunque di indubbia portata. Quanto sia interessante e significativo, cioè, immaginare quello che l'Italia può fare: è il grande piano del made in Italy che il Ministro Guidi e il Viceministro Calenda hanno portato più volte all'attenzione anche del Parlamento. E ricordo quanti accordi abbiamo realizzato in queste settimane, a partire dall'accordo con il Primo Ministro della Repubblica popolare cinese, con i Paesi che hanno partecipato al vertice di Milano. Ma il vertice di Milano è stato per noi un'occasione, il vertice Asem, anche per provare a riallacciare i rapporti tra la comunità politica internazionale e la Russia, nella dimensione del dialogo sull'Ucraina e non solo. 
Si colloca in quello che io definisco lo «spirito di Milano» il triplice appuntamento che si è tenuto nella giornata di venerdì 17 ottobre. La prima colazione al mattino, il breakfast, in prefettura, nel formato Paesi del G7, Paesi europei del G7, istituzioni europee, Russia, Ucraina. L'incontro delle 12 tra il cosiddetto «formato Normandia», vale a dire Francia e Germania, che avevano promosso quell'appuntamento a giugno, e Russia e Ucraina e, poi, il fondamentale incontro del pomeriggio, dove si è raggiunto un primo punto d'intesa direttamente tra Russia e Ucraina, disintermediato grazie alla sensibilità dimostrata dal Presidente Poroshenko e dal Presidente Putin. 
Noi pensiamo che questa sia la strada giusta, lo «spirito di Milano». Ho già avuto modo di ringraziare la città di Milano, i suoi amministratori, i suoi rappresentanti istituzionali, rappresentanti dello Stato, per la straordinaria qualità dell'accoglienza e per la capacità organizzativa dimostrata in un evento che, mi spiegano i tecnici, è il primo evento così rilevante negli ultimi venticinque anni. Oltre 50 Capi di Stato e di Governo che sono stati accolti non soltanto dalla ospitalità meneghina, ma anche da un'accoglienza che ha reso il nostro Paese orgoglioso della capacità e della qualità logistica, anche semplicemente logistica, oltre che politica. Ma quello che è interessante è che lo «spirito di Milano» è innanzitutto il tentativo di risolvere la questione russa-ucraina come presupposto per costituire e per costruire la pace in Europa, ma anche come occasione per affrontare emergenze che non erano così rilevanti o forse, più correttamente, non erano percepite così rilevanti in occasione dell'ultimo discorso fatto in preparazione a un Consiglio europeo. 
Nei giorni precedenti il Consiglio europeo di Ypres, Mosul era appena caduta nelle mani dell'ISIS, ma scarsa era ancora l'attenzione mediatica. Ancora non si era letto ciò che di drammatico si era verificato in quella zona. Forse vi erano i primi resoconti delle organizzazioni non governative, i primi articoli di giornalisti coraggiosi che si erano spinti fino nella terra dell'ISIS. 
Ma ancora non era stata assunta dalla comunità internazionale come priorità la questione non della lotta al terrorismo o all'estremismo, ma del tentativo di bloccare la costruzione di uno Stato islamico con le caratteristiche del califfato che – utilizzo le parole che ieri il principe regnante degli Emirati arabi uniti ha utilizzato con noi, nel corso di un incontro istituzionale che abbiamo avuto a Roma – è una formazione istituzionale che ha preso in ostaggio una religione. 
Queste le parole che Sheikh Mohammed ha detto ieri nel corso del nostro incontro. Significa che quella che è in corso in Siria e in Iraq non è una guerra di religione e lo dimostra il fatto che i primi interventi aerei, gli strikes, sono stati effettuati proprio dalle forze della religione insieme agli Stati Uniti, dai Paesi partner arabi. È molto peggio, è una guerra che nega il diritto alla vita, alla libertà, all'identità di giovani ragazze. 
Vedo che ci sono delle scolaresche, come è consuetudine alla Camera. Vorrei che ciascuno di noi provasse a immaginare che cosa possa significare per una ragazza di sedici, diciotto o vent'anni essere costretta a vivere quello che sta accadendo ancora oggi in aree come quelle oggi in mano all'ISIS. Vorrei che ciascuno di noi si sforzasse di pensare a cosa significa per un proprio figlio o per un proprio parente essere costretto a perdere la vita, nelle modalità che abbiamo tragicamente visto trasmesse con sapiente utilizzo delle tecniche di comunicazione, semplicemente per una propria appartenenza o per la propria fede o per una propria idea. E vorrei che ciascuno di noi sentisse forte l'esigenza di dire che, di fronte a questo la reazione della comunità internazionale deve essere calibrata e capace di creare le condizioni per il dopo, perché, terza e ultima fase internazionale che vorrei sommessamente citare, non dimentichiamo che la terza priorità non in ordine di importanza, ma semplicemente in ordine di narrazione, per come ve la propongo oggi, è la questione libica, dove si è intervenuti con la forza in passato, ma non si è costruito uno spazio di futuro dopo. E questo è un elemento drammatico; è questo un elemento di cui oggi stiamo scontando i risultati. Ecco che la comunità europea ha la necessità sicuramente di affrontare la preoccupazione per ciò che sta avvenendo nel nostro mare e mi pare di poter dire che la consapevolezza maturata rispetto alla necessità dell'operazione Tritone in sostituzione di Mare Nostrum, cioè finalmente la consapevolezza da parte dei Paesi partner europei che è arrivato il momento di dare una mano e che il Mediterraneo non è soltanto un problema dell'Italia, va salutata con attenzione e con soddisfazione, ma anche con la consapevolezza che non dobbiamo cedere di un millimetro rispetto alla preoccupazione della sottovalutazione che già c’è stata e che rischia di continuare ad esserci e che non si può risolvere in Libia semplicemente con una generica dichiarazione di impegni, ma deve vedere una presenza molto più forte della comunità internazionale, a sostegno del lavoro che Bernardino Leon, l'inviato speciale di Ban Ki-moon, sta svolgendo, ma anche nella convinta presenza della politica europea e italiana. 
Tutto questo, dunque, per dire che la Comunità europea (e dico Comunità europea non facendo riferimento ad un termine del passato, laddove si chiamava Comunità economica europea, ma a un termine del futuro), per me l'Europa o sarà comunità o non sarà, perché se l'Europa deve diventare soltanto una somma di burocrazie ne abbiamo a sufficienza a casa nostra di burocrazie per poter innamorarci di altri tipi di organizzazioni burocratiche o di approcci tecnocratici. Bene, la Comunità europea o afferma il bisogno, il diritto e il dovere di intervenire con una visione di insieme che non sia semplicemente una risposta spot a singoli problemi, ma una risposta di insieme che tenga unita la questione Russia-Ucraina, la questione siriana e irachena, la questione libica e più in generale la questione di che cosa significhi la politica estera oggi nel 2014, oppure avremo tutti noi perso l'occasione di dare valore, significato e profondità al pensiero politico europeo. 
È evidente che nel dibattito di domani non potrà non essere oggetto di attenzione anche la questione economica. Vi ho detto che l'Italia è molto soddisfatta del percorso che si è svolto sino ad oggi considerati i tempi tipici dell'Europa; pensiamo al passo in avanti fatto in questi quattro mesi, dove siamo passati dalla discussione sulle virgole di Ypres, se si poteva o no utilizzare la parola flessibilità e crescita, discussione semplicemente terminologica, perché ci siamo accapigliati, per così dire, a lungo, fino a notte inoltrata, su una singola espressione. Siamo oggi arrivati al punto che chi è appassionato di documenti europei – a costoro tutta la mia solidarietà – potrà verificare come si sia fatto un rilevante passo in avanti, che dovrà tuttavia concretizzarsi nelle scelte della Commissione Juncker, rispetto alle quali noi saremo inflessibili nel Parlamento europeo, come rappresentanza italiana, ma anche attenti e gelosi custodi del valore della scommessa di Juncker all'interno del Consiglio europeo. 
Bene, il passo in avanti è oggettivo ed indubitabile, tuttavia la situazione economica europea deve partire da un dato di fatto e cioè che, mentre il mondo rallenta ma continua a crescere, l'Eurozona e in particolar modo l'Italia ancora soffrono le conseguenze di una linea politica che in questi anni ha privilegiato il rigore e l'austerità rispetto alla crescita e all'occupazione. 
Il fatto che dal Fondo monetario internazionale – che proprio non si può definire un covo di pericolosi uomini di sinistra –, fino agli organizzatori australiani del G20, che quest'anno si terrà a Brisbane, questi e tanti altri stiano sottolineando l'importanza di unfocus specifico sulla crescita, perché è l'unico modo per uscire da questa fase di stagnazione, che in alcuni casi è recessione e purtroppo non soltanto in Italia – perché se fosse soltanto in Italia questo sarebbe difficile per noi, ma ancora comprensibile –, il fatto, quindi, che vi sia questa consapevolezza è un elemento di oggettiva novità. 
La fiducia nel futuro necessita di atti concreti d'investimento sulla crescita, sull'occupazione, sugli investimenti. Trovo interessante che si sia deciso nella mattinata di venerdì di allargare la discussione al presidente della Banca europea degli investimenti che deve, a mio giudizio, sicuramente continuare il lavoro positivo svolto, ma anche assumersi qualche responsabilità in più. È utile avere la tripla A se l'Europa cresce, per una banca che si chiama Banca europea degli investimenti. Ed è utile avere la tripla A – veniva ricordato questa mattina al Parlamento europeo – non soltanto nel settore finanziario, ma nel settore dell'investimento sul domani. Questa sensazione di difficoltà dell'Europa non è più il grido di dolore di un Paese in difficoltà o di più Paesi in difficoltà, perché – questo è un elemento di novità, che è stato positivamente giudicato anche durante il primo vertice di Milano, quello dell'8 ottobre dedicato all'occupazione giovanile – è evidente che il percorso di riforme, che l'Italia ha messo in campo, è un percorso oggettivamente innovativo. 
Io non entro qui nel merito. Ciascuno di voi ha opinioni diverse, ma nessuno può negare che quando si mette mano alla Carta costituzionale in rilevanti punti, a partire dall'organizzazione delle istituzioni, alla legge elettorale, al mercato del lavoro, al sistema della delega fiscale, alla giustizia civile, all'investimento – piaccia o non piaccia come viene fatto – sulla pubblica amministrazione e alla campagna di ascolto sulla scuola, preludio di una profonda novità del sistema educativo, può piacere o meno il merito della riforma, ma è oggettivo constatare come il percorso di riforme strutturali abbia smesso di essere un obiettivo e sia diventato un atto parlamentare, su cui il confronto è ampio. Ma è un atto parlamentare. 
Ecco che l'Italia si presenta a questo vertice avendo mantenuto l'impegno ad aprire alcuni cantieri di riforma credibile. Ma ha bisogno di uno scatto in più, che è quello della consapevolezza di ciò che noi siamo e di ciò che noi rappresentiamo. 
Mi permetterete di essere poco diplomatico quando dico che il dibattito politico in alcuni casi, più spesso mediatico, talvolta direi anche culturale, che il nostro Paese esprime a proposito dell'Europa sconta una sorta di pregiudizio che ci autoinfliggiamo. Basta che il vice addetto stampa del sostituto del Commissario da Bruxelles, in una sala stampa, rilasci una dichiarazione per dire che qualcosa va fatto meglio e il giorno dopo i titoli sui giornali, ma anche le dichiarazioni di noi addetti ai lavori della politica, gridano allo scandalo: l'Europa ci chiede, l'Europa ci impone, l'Europa vuole questo. 
Non è colpa dell'Europa, siamo noi che ci siamo ormai autocostretti a un pensiero per cui l'Europa è qualcosa di altro, di diverso: l'Europa non è quell'istituzione alla quale noi collaboriamo, che noi abbiamo a Roma fondato, alla quale noi diamo 20 miliardi di euro tutti gli anni, ricavandone non più di 10, talvolta anche per nostre responsabilità, talvolta per come sono le regole del gioco. Infatti, noi siamo un Paese che per definizione dà più di quello che prende. No, l'Europa non è più questo. L'Europa diventa, per nostra colpa e responsabilità, un luogo terzo, lontano, tendenzialmente austero e qualche volta persino troppo cattivo, che ci viene semplicemente a giudicare in un senso o nell'altro. 
Emblematico è il genere letterario della lettera, che anche in queste ore sta suscitando l'entusiasmo e la passione di una parte di noi e anche di una parte dei media. È naturale che per le nuove procedure, quando tu mandi la legge di stabilità, che il Parlamento inizia a discutere, che ancora non è all'esame neanche delle Commissioni, l'Europa – intesa come Commissione – verifichi i punti sui quali ritiene di dover individuare eventuali scostamenti o contraddizioni. Ed è naturale che questo accada con l'apertura di un percorso che poi prevede il passaggio all'interno della discussione della Commissione, che successivamente viene portato all'attenzione del Consiglio, che nel frattempo viene modificato all'interno del Parlamento e che, a distanza di mesi, può portare, nel caso di una presenza di scostamento significativo, all'apertura di una o più procedure. Questo è un percorso che vale per tutti, è un percorso che è naturale. È il percorso che viene immaginato dalle nuove regole europee. Eppure basta che si evochi questo per dire: «L'Europa boccia la manovra». 
Io non entro nel merito della singola manovra – avremo modo di parlarne ovviamente nel corso del dibattito parlamentare – né delle regole del gioco che l'Europa si dà e neanche del fatto che vi siano oggettivamente tanti punti di discussione rispetto a delle norme che questo Parlamento ha votato qualche anno fa, con una maggioranza molto ampia peraltro, e che sarebbe interessante oggi discutere. Ma non siamo chiamati a discutere le leggi che sono state fatte tre anni fa. Siamo chiamati ad applicarle e a cercare di dimostrare di poter fare il meglio che possiamo fare. 
E si può fare, se soltanto si esce dalla filosofia per la quale se l'Europa smette di essere quello che è sempre stata – cioè casa nostra – e diventa una matrigna cattiva, è del tutto evidente che noi saremo sempre condannati a vedere nell'Europa un potenziale rischio e pericolo, anziché un'occasione. Ecco qual è – e mi avvio rapidissimamente a chiudere – il punto centrale che deve caratterizzare la nuova Commissione, da un lato, e, più in generale, i rappresentanti italiani a tutti i livelli: rappresentanti parlamentari, rappresentati del Governo, la nuova Commissaria europea, tutte le realtà anche – lasciatemelo dire – dei funzionari che lavorano a Bruxelles, a Strasburgo, a Lussemburgo. 
Talvolta, in alcuni di essi si è fatto strada, nella mente, il pensiero che, parlando male dell'Italia, si poteva avere magari qualche facilitazione o qualche strada accelerata. 
È arrivato il momento di riaffermare l'orgoglio nazionale, non in una dimensione semplicemente patriottica, ma in una dimensione diversa: l'Europa ha bisogno dell'Italia. 
L'Europa ha bisogno di un'Italia che aiuti la discussione sui contenuti concreti e che, contemporaneamente, faccia sentire la propria voce, avendo la forza, il coraggio e – lasciatemelo dire – anche la dignità di essere il Paese che più di ogni altro sta compiendo delle riforme strutturali che sono oggettivamente riforme attese da anni e che finalmente sono all'attenzione del Parlamento. 
L'Europa ha bisogno di un'Italia che elabori la propria posizione politica e culturale, che quando si tratta di parlare di investimenti e di crescita faccia sentire il proprio giudizio e la propria voce. 
Se saremo in grado di far questo, allora noi potremo dare un contributo, come semestre, che sia un pochino più largo rispetto semplicemente alle questioni di documenti. 
Sì, possiamo dirci soddisfatti del fatto che finalmente si parla di investimenti, del fatto che ci sono i 300 miliardi di Juncker, del fatto che gli strumenti di finanza per la crescita che la Presidenza italiana ha posto all'attenzione oggi sono oggetto di discussione e stanno anche nel documento finale. Possiamo dirci soddisfatti del fatto che lo spirito di Milano uniformi e in qualche modo alimenti la discussione sull'Ucraina, che la questione del Mediterraneo smetta di essere una questione soltanto italiana. 
E possiamo essere soddisfatti anche del fatto che finalmente sia evidente, anche nel dibattito pubblico italiano, che rivendicare la politica estera non significa parlare di altro rispetto alle questioni economiche, ma significhi, al contrario, intervenire sulla vita quotidiana delle persone. 
Tuttavia, questo non basta. O noi riusciamo, durante il semestre di Presidenza italiana, ad affermare il messaggio che, avendo l'Europa bisogno dell'Italia, noi dobbiamo essere in condizioni di far sentire alta e forte la voce del nostro Paese, in una dimensione che sia una dimensione non angusta, ma di visione e di strategia per i prossimi anni, oppure il semestre sarà un semestre come gli altri. 
A mio giudizio, ci sono tutte le condizioni perché, una volta che, dalla settimana prossima, a Bruxelles, si saranno cambiate le poltrone, dal giorno dopo si possano cambiare anche le politiche, cercando di fare sempre di più un'Europa dei popoli e non un'Europa della tecnocrazia, un'Europa nella quale l'Italia rivendichi di stare a testa alta, perché – lasciatecelo dire – noi apparteniamo a storie diverse, a storie convinte che il sogno europeo non è semplicemente un rifugio dalla guerra e dalla difficoltà, ma è la grande tradizione, le grandi tradizioni diverse, che vedono nel valore della politica, capace di costruire un'unione più grande dei singoli Stati nazionali, e nell'affermazione di alcuni ideali sovranazionali e di dignità comune, una delle più belle chance e delle più belle caratteristiche del nostro DNA (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Scelta Civica per l'Italia, Nuovo Centrodestra, Per l'Italia e di deputati del gruppo Misto).