Grazie, Presidente. Onorevole sottosegretario, deputate e deputati, come ricordavano i colleghi prima e meglio di me siamo arrivati, dopo il passaggio di luglio al Senato, alla terza lettura del disegno di legge di delegazione europea 2018, legge che, com'è noto, recepisce nell'ordinamento italiano le direttive europee emanate nell'anno precedente. Nel caso della legge in discussione oggi si tratta del recepimento di ben 26 direttive e dell'adeguamento dell'ordinamento italiano al dettato - già efficace per i cittadini italiani ed è bene sottolinearlo - di dieci regolamenti e su materie cruciali che inciampano nella vita spiccia di tutti i cittadini, dalla giustizia ai mercati finanziari e dall'ambiente all'energia.
Non spetta a me ripercorrere i punti e i passaggi di questo provvedimento, frutto di un lavoro paziente fatto nei due rami del Parlamento. En passant sottolineo alla deputata Montaruli, per il suo tramite Presidente, che parlo dal tavolo del Comitato dei nove e dispiace, piuttosto, che lei sia stata lasciata sola fra i banchi di Fratelli d'Italia che, evidentemente, i fratelli, avevano altro da fare che ascoltare le sue argomentazioni e occuparsi qui della legge di delegazione europea.
Voglio, tuttavia, usare questo mio tempo per un sommesso richiamo all'importanza di questo processo legislativo, di questa pazienza che spesso sembra mal conciliarsi con i tempi istantanei delle nostre vite, della vita che scorre là fuori, con un tempo e con un ritmo che raramente appare sincronizzato e contemporaneo a quello di quest'Aula, del suo calendario e delle sue priorità; quasi confliggessero, in un gioco di specchi deformanti, tra popolo e Parlamento, del quale abbiamo quotidiana evidenza e di che riflettere; trarne conseguenze chissà, vaste programme.
La legge di delegazione, il più classico degli omnibus, come occasione insomma di un plaidoyer per la democrazia parlamentare, in tempi sfaccettati di piazze e reti e leader che sembrano mettere in fuorigioco le Camere, letteralmente spiazzarle, e di Aule che si prendono la loro temporanea rivincita su piazze e reti e leader, ripristinando il loro impossibile primato. Se ne dibatte molto in questi giorni; presto saremo chiamati a discuterne pure noi qui dentro, ed ognuno si prenderà la sua responsabilità: i cittadini giudicheranno di coerenza e competenza, di congruenza e connivenza, di chiacchiere e di comunicazione. Confesso un certo disagio, magari ve lo darò in faccia al primo: “ma tu cosa hai votato?”.
Eppure si diceva, un provvedimento come quello che stiamo dibattendo, per il solo fatto che lo stiamo dibattendo, ci richiama alla forza e ai limiti della democrazia parlamentare. Leggevo un articolo interessante di Francesco Cundari qualche giorno fa su Il Foglio; cito con il suo permesso, Presidente, sarò un po' lungo. “Il fatto è - cito - che, come ricordava Sabino Cassese, la democrazia si fonda sulla libertà di riunione e sulla libertà di associazione, in particolare per quell'aspetto decisivo che gli inglesi chiamano deliberative e noi mal traduciamo ‘deliberativo', mentre dovremmo chiamarlo ‘dibattimentale'. Perché appunto di questo si tratta: non della semplice deliberazione, ma di quel rapporto che richiede per sua natura un confronto faccia a faccia, un va e vieni continuo, un incontro e se necessario anche uno scontro tra persone che siano davvero nelle condizioni di discutere di tutto, non solo del merito ma anche dei limiti e delle regole della discussione stessa, e in tal modo di raggiungere dei compromessi frutto di una mediazione. Un processo di cui la scelta finale con un sì o un no rappresenta solo l'ultimo passaggio. Al contrario - proseguo la citazione - lo sviluppo dei social network, e ancora più degli strumenti della cosiddetta democrazia digitale, danno a tutti l'impressione di contare, di partecipare al dibattito e alle decisioni, di potere far sentire la propria voce, e magari anche cantarle chiare ai potenti, ai ricchi e ai famosi incrociati sul web, restandomene comodamente a casa; e così di fatto riunione ed associazione, fondamento della democrazia, scompaiono, e quindi si resta con l'impressione della democrazia, ma senza la democrazia” (chiudo la citazione).
L'impressione della democrazia, come fosse un'immagine sfocata, un negativo non sviluppato, un'impronta sulla battigia: un'espressione felice, quella di Cundari, quasi un vaticinio; contraddetta - punto interrogativo - in questi giorni dallo scatto di orgoglio del Parlamento britannico, di fronte al tentativo di scavalcarlo, messo in atto dal Primo ministro Boris Johnson (prima veniva evocata dal collega Colaninno la questione della Brexit); o dalla determinazione verso l'impeachment dei parlamentari democratici americani, a fronte delle rivelazioni sulle conversazioni ufficiali del Presidente Trump con il suo omologo ucraino. E magari anche da quanto successo qui da noi, dove qualcuno, segnatamente l'ex Vicepremier e Ministro dell'Interno, ha potuto credere di prendere di sorpresa la città che dormiva (in pieno agosto, tutti in vacanza, in altre faccende, eccetera), e invece si è ritrovato di nuovo spiazzato, senza più terra dove andare, stretto nell'angolo della propria sicumera, della sua ingordigia, con un Parlamento capace, con una certa creatività diciamo, di rimettersi in equilibrio, in asse, di reinventarsi, di riprogettarsi, nell'interesse superiore della nazione, si intende. I pieni poteri invocati si sono trasformati in una vertigine, in un vuoto di potere, presto colmato. Precipitevolissimevolmente.
Ha scritto sempre Sabino Cassese, su richiamato (cito): “Le democrazie godono di buona salute, nonostante i molti profeti di sventura che ne raccontano la fine; ma esse sono continuamente percorse dalla tensione fra concentrazione e diffusione del potere, hanno bisogno di ribilanciarsi periodicamente: le vittorie dei Parlamenti non sono mai definitive”. La rappresentanza dunque come ribilanciamento, come equilibrio tra spinte che si sono fatte insostenibili, impossibili, chissà, da tenere assieme, da comporre: il leaderismo, il populismo, la democrazia diretta, la piazza, quelle virtuose e coraggiose, da Hong Kong a Greta, e quella dei selfie in spiaggia, del lancio delle merendine, del rosario rivolto al cielo, Dio lo perdoni.
Dovremmo essere orgogliosi, dico orgogliosi, non alteri, sempre memori ogni istante del nostro ufficio, della responsabilità che ci è stata affidata dai cittadini, che a questo lavoro di ricomposizione, di riassetto, solve et coagula, siamo chiamati in quest'Aula e nel lavoro di Commissione; che in America ad esempio è diventato addirittura centrale mediaticamente, risorto dai social network grazie alle serrate audizioni delle deputate democratiche di prima nomina. Così come l'Aula: mi è già capitato di evocare lo stile di conduzione di John Bercow ai Commons, e di come la sua guida rauca e puntuale sia il contrappunto più convincente, nella patria dei checks and balances, alla pretesa assoluta, letteralmente “ab-soluta”, dei pieni poteri del leader.
E a chi mi venisse a dire che de te fabula narratur, sono pronto a dibattere ed argomentare, perché le storie no che non sono tutte uguali. Ci sono stato, questa la so.
Vede, Presidente, colleghi, quando si trovò a lasciare un leader che oggi purtroppo non gode del credito che meriterebbe (questa è la mia opinione), Tony Blair, disse in quell'Aula di Westminster che oggi si vorrebbe bypassare, come fosse un orpello o una perdita di tempo insopportabile, parole che dovremmo tenere a mente, ognuno di noi, oggi, qui, deliberando su direttive e regolamenti europei. Disse Blair in quell'occasione: “Non ho mai preteso di essere più grande dei deputati, ma posso offrire a quest'Aula il più grande dei complimenti nel dire che dal primo momento fino all'ultimo non ho mai cessato di temerla. E che è in quel timore che è custodito il rispetto” (Mi scuso per le citazioni, Presidente, non parlano per me, spero parlino di noi).
Tanti anni e tentativi, dunque, per rendere il Parlamento amichevole, friendly, e vicino ai cittadini e aperto e inclusivo; e poi qualcuno ci dice che il rispetto che si è guadagnato in questi anni volatili e veloci è invece proprio quello di non piegarsi al potere, di renderlo accountable, responsabile, in dovere di una risposta ai cittadini che siamo e che qui rappresentiamo. Di essere l'ultimo, non l'unico, diaframma tra potenti e potere, tra sovrano e sovranità, tra leader e leadership, tra capo e popolo. E questo facendo il nostro dovere, con tutte le approssimazioni del caso, con tutte le debolezze, gli errori, facendo i compiti, trasformando esigenze in proposte, denunce in leggi, interessi - sì, interessi - in contrappesi.
La prego, Presidente, di non considerare queste mie argomentazioni un fuor d'opera rispetto al merito del provvedimento in discussione, una divagazione, un sentiero interrotto. Perché, vede, della nostra democrazia, come dicevamo prima, non resti solo l'impressione, c'è bisogno di prendere consapevolezza della fatica quotidiana di questa ricomposizione, di quel lavoro di mediazione che rassomiglia un po' alla vita, di un dovere del compromesso che in tempi estremi, come quello che stiamo vivendo, suonerà come un'insopportabile stranezza, un contrattempo, e invece. Questo credo di aver imparato in questo anno e spicci. Che il rispetto per il Parlamento viene con il salutare timore per una democrazia fragile, eterna incompiuta, come l'Europa di cui trattiamo oggi. Che altro che il dibattito no: il dibattito sì. Perché dibattere - non fare chiacchiere - significa misurarsi, confrontarsi, in definitiva riconoscersi. Che la democrazia, quando rischia di perdersi appresso ai pifferai, trova in sé, in questo Parlamento, le insospettabili risorse per cambiare musica. Che come ricordava ancora Blair in quel suo mirabile intervento alla Camera, “c'è chi sminuisce la politica, ma noi sappiamo che è quel luogo in cui people stand tall, le persone stanno diritte” (chiudo la citazione). Mi auguro, Presidente, che giorno dopo giorno riusciremo a prenderne maggiore consapevolezza tutti quanti, primo fra tutti chi ha l'onore fugace, ma la duratura responsabilità di sedere su questi scranni.