Presidente, onorevole sottosegretaria, deputate e deputati, c'è una retorica perfino dell'antiretorica, entrambe da evitare, per carità, siamo tutti d'accordo. Eppure non si scappa: sia per un matrimonio, un funerale, un brindisi, un tweet, una promozione e un arrivederci, il nostro modo di ordinare quello che diciamo, ciò che intendiamo dire, non sfugge questo bivio, le sue insidie, il suo veleno che sia a mettere o a levare, a coprire o a denudare, stiamo lì, stiamo sempre lì. Figurati se poi ti trovi in Aula alla Camera, qui, e devi parlare di Antonio Megalizzi già, magari chiamandolo “Mega” come facevano gli amici, fingendo intimità e conoscenza, peggio millantandole. E giù di ottoni e fiati sulla generazione Erasmus, sui loro sorrisi e zainetti, sulle ragazze e sui ragazzi che fanno viva l'Europa che qualcuno, invece, vorrebbe spegnere, come se fosse poi davvero possibile mettere da una parte l'Europa e dall'altra i suoi nemici.
L'assassino di Antonio - è stato detto - era un suo coetaneo nato e cresciuto a Strasburgo, nella città dove chissà magari Megalizzi sognava di lavorare e di vivere più stabilmente e dove un suo coetaneo, appunto, nelle stesse ore in cui Antonio si preparava con appunti e schede ad andare in trasmissione sulla Brexit, pianificava un attentato di matrice jihadista, un attacco ai valori stessi di cui quella città dovrebbe essere simbolo, di unità nella diversità, di dialogo e di diritto, e nessuna retorica riuscirà a restituire la dolorosa profondità di questa frattura che spezza e divide nel cuore dell'Europa, nel cuore di questa generazione di speranze che neanche la morte ferma, di odi che neanche la speranza riesce a sconfiggere.
Chissà come avrebbe riso Antonio della retorica e dell'antiretorica di cui siamo chiamati a dare sfoggio, prova e mostra in quest'Aula. Me ne scuso postumo come tutti coloro che sono rimasti, che portano la croce di essere rimasti, come tutti coloro che avrebbero potuto e invece non hanno fatto, come tutti coloro che hanno sempre altro a cui pensare, e vi risparmio l'esibizione antiretorica. Retorica, dunque, dei sensi di colpa per l'omissione, la distrazione e per la nostra comoda finitezza e umanità.
Antonio no, invece. Aveva sempre fretta, ricorda chi lo conosceva, chi ha avuto questo privilegio. Dormiva pochissimo e continuava a studiare, a leggere e a scrivere. Diceva che solo così “si capisce e ci si innamora dell'idea di Europa”, come ricordava Giampaolo Visetti su la Repubblica. Pochi giorni prima di essere colpito per strada, nella sua rubrica settimanale per Europhonica, il progetto radiofonico europeo di cui Megalizzi era animatore e da poco caporedattore, Antonio si occupò di fake news, come ricordava prima di me il collega Toccafondi, di post-verità e di come distinguere la verità dei fatti dal suo doppio, dalla sua ombra. “State attenti - diceva con quella voce acuta e gentile; scaricate e ascoltate quel podcast, vi prego -, state attenti”. E non è un caso che la sua rubrica si chiamasse “Lo Spiegone”, perché comprendere e spiegare, studiando un po' il suo lavoro, mi sembra fossero i tempi e i modi del suo giornalismo, di come si disponeva nei confronti di una realtà, quella europea, anzi quella delle istituzioni europee, che sconta pressappochismo e falsi miti che attecchiscono fin troppo facili. Citava un po' social di non so quale esponente politico italiano - ci siamo capiti - ma per Antonio il punto non era quello, non era affatto quello di condannare o attaccare questo o quell'esponente politico, questa o quella forza parlamentare. No! Piuttosto intendeva comprendere e spiegare, fare attenzione, come fosse proprio questa pulizia, questo sforzo il modo più nitido per opporsi a quei falsi miti, alla pericolosa gramigna che avviluppa la casa europea e le regole del suo funzionamento, nascondendo ai nostri occhi spesso il suo ingresso, il suo sguardo. E nell'idea di Europa di Antonio Megalizzi c'è anche un'idea di giornalismo che riesce a individuare nel percorso difficile, accidentato e controvento di tanti ragazzi che fanno questo lavoro, anch'essi nativi europei, che parlano le lingue, che si svegliano presto la mattina, che provano ogni giorno a raccontare e a fare chiaro, a rischiarare l'oscurità dei fatti, dei processi e delle dinamiche. Lo fanno scrivendo sulle testate online o parlando alla radio, fotografando e filmando, studiando e smontando e rimontando le notizie come fossero un meccanismo delicato, un ritmo, un movimento preciso ed esatto.
Ho letto sul Corriere della Sera che Antonio faceva sentire agli amici un audio con la voce di un bambino che diceva: “A me piace fare le domande, chiedere cose”. La voce era la sua, di lui piccino. Una vocazione (occhio alla retorica): fare le domande e chiedere le cose, comprendere e spiegare. Ditemi se esiste una sintesi più efficace per dire il mestiere del giornalista, la famosa “passionaccia”, una passione che in Antonio si intrecciava, appunto, con quella per l'Europa, come se si tenessero insieme. Pochi giorni prima di quel maledetto 11 dicembre Megalizzi era a Trento, nella sua Trento a volantinare al gazebo di un'iniziativa intitolata “Per un'Italia più forte in un'Europa che cresce”, come a dire che la sua coscienza di cittadino, dunque di cittadino europeo, era l'altro polmone del suo sogno di fare le domande e chiedere le cose, di fare il giornalista e vivere di giornalismo e di Europa, di Europa e giornalismo, e che quella passione, queste passioni possono esprimersi in una maniera controllata, vigilata, attenta - “state attenti” -, accorta, gentile, senza cedere di un centimetro quanto a intensità e missione ma con mitezza, col sorriso, appunto, con pazienza e sprezzatura. Nella sua domanda di iscrizione alla laurea magistrale, parlando di Europhonica e del lavoro di questa rete universitaria di competenze e talenti, Megalizzi - ed è noto - sottolinea come - cito - “è stato in quel momento che mi sono innamorato dell'Europa unita”. Si può pensare a niente di così inattuale, in epoche di sovranismi e di egoismi, di nazionalismi e xenofobia, di innamorarsi non solo dell'Europa ma addirittura dell'Europa unita? Ci voleva tutto il coraggio di Antonio, tutta la sua dedizione, tutto il suo slancio per pensare all'Europa come l'oggetto di un desiderio, di una passione, di un amore addirittura, noi che siamo abituati a pensare all'Europa e a quella unita, in particolare, come alla sua caricatura, all'alone inverato della propaganda che la detesta, al concetto astratto e anonimo che misura cetrioli e conta zero virgola. Figurarsi, dunque, un innamoramento, un crash, un debole.
Ma all'amore per l'Europa unita, in quell'application universitaria Megalizzi aggiunse qualche altra parola che rende ancora più evidente quanto dicevo.
Scriveva Antonio, per convincere chi lo avrebbe dovuto valutare e giudicare: “Non mollerò mai. Posso promettervi attenzione, entusiasmo, impegno e dedizione”. Attenzione ancora una volta, quello “state attenti” con cui si congedò nella sua rubrica contro la strada abusata del luogo comune, peggio se incistato dai social network.
E poi entusiasmo, quello di un uomo appassionato che ogni giorno si svegliava presto per preparare per bene tutte le cose: la riunione, il lavoro redazionale, le scalette, le mail da mandare, l'impegno e la dedizione che non sono solo buona volontà ma esercizio quotidiano, fatica e pazienza, cura come per suonare uno strumento musicale, per farsi trovare pronti anche di fronte all'imprevedibile, all'assurdo e all'impossibile di un coetaneo che, come è avvenuto per Valeria Solesin, per Fabrizia Di Lorenzo, per Luca Russo e per tanti altri purtroppo - e lasciatemi ricordare con altrettanta commozione in quest'Aula una parlamentare inglese come Jo Cox - ardeva di odio e non di amore, di ideologia e non di dubbio.
Questo dubbio, questa curiosità, questo desiderio di porre domande per capire meglio sono alla radice della nostra idea di Europa e del modo di Antonio Megalizzi di intendere il proprio impegno europeo e giornalistico e della fondazione che a lui si richiama. Vorrei qui ringraziare di cuore il papà Domenico, la mamma Anna Maria, la sorella Federica, la sua compagna, Luana, e anche la Federazione nazionale della stampa per quanto hanno fatto e faranno perché continui a vivere il messaggio di solidarietà, di europeismo, di dignità e rispetto di Antonio.
Se oggi in Parlamento saremo capaci, unendo le forze tra partiti politici e gruppi parlamentari che spesso si guardano in cagnesco, di far sì che l'eredità generosa di Antonio possa trasformarsi una volta di più in un'opportunità perché altri giovani come lui possano crescere nell'idea di un giornalismo rispettoso dei fatti e degli altri, vigile sulle manipolazioni e le scorciatoie, consapevole della fatica del controllo, senza, tuttavia, perdere mai entusiasmo, passione e lena, penso che, retorica a parte e retorica dell'antiretorica a parte, avremo fatto non soltanto ciò che è possibile ma ciò che è giusto.