Discussione sulle linee generali
Data: 
Lunedì, 30 Luglio, 2018
Nome: 
Romina Mura

A.C. 924

Colleghe e colleghi, Governo, sembra un'epoca storica lontanissima quella in cui i colleghi parlamentari che oggi costituiscono la maggioranza di Governo urlavano per affermare la centralità del Parlamento ogni qual volta la decretazione d'urgenza sostituiva il normale e ordinario iter legislativo. Combattevano utilizzando tutte le prerogative parlamentari, e qualche volta anche qualcuna di più, contro quella che definivano la riduzione degli spazi di confronto e la delegittimazione della democrazia rappresentativa. E guarda un po', quando si dice ironia della sorte, qual è il primo atto legislativo del Governo gialloverde?

Un decreto-legge, di cui, manco a dirlo, non si ravvisano né la necessità, né l'urgenza, né l'intervento specifico né l'oggetto definito, così come richiede la nostra Costituzione, come bene vi ha segnalato, fra gli altri, anche il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi evidenziando diverse incongruenze del testo perché parlate di precarietà e delocalizzazioni ma la percezione, confermata dalle parole utilizzate dallo stesso Dipartimento e anche da quanto oggi ha detto il relatore Tripiedi, è che non abbiate chiari i numeri né dei lavoratori a tempo determinato né tanto meno della percentuale di questi rispetto al numero dei lavoratori a tempo indeterminato né ancora di quante imprese in Italia abbiamo ricevuto aiuti di Stato e siano quindi potenzialmente interessate dalle norme sulla delocalizzazione. Si tratta, quindi, di un decreto-legge adottato sulla base di criteri della necessità e dell'urgenza, salvo poi, come per le misure di decontribuzione, prorogare una misura dei Governi Renzi e Gentiloni, come anche qui ha ricordato con orgoglio l'onorevole Tripiedi, attraverso però un ulteriore rinvio a un decreto-legge dei Ministri del Lavoro e dell'Economia che verrà emanato entro 60 giorni dalla entrata in vigore del decreto in esame con coperture aleatorie oltreché irrisorie, ma su questo tornerò in seguito.

Vi confesso che se fossi stata al posto del Ministro Di Maio utilizzando le prerogative costituzionali relative alla decretazione d'urgenza, avrei adottato un altro intervento come primo atto del mio percorso ministeriale. Mi sarei soffermata sul miglioramento della sicurezza nei posti di lavoro considerato che dall'inizio del 2018 le cosiddette morti bianche sono state già seicentocinquanta e credo che proprio la sicurezza sui luoghi di lavoro sia la vera emergenza di questo momento storico. Poiché il Ministro aveva esordito con una informativa sulla sicurezza mi sarei aspettata una proposta di intervento sul testo unico della sicurezza datato 2008, sulla necessità di costruire con tutti gli attori in campo un piano di formazione e informazione, sull'opportunità di aumentare i controlli e quindi i mezzi e gli strumenti pubblici per farlo, sulla possibilità di rendere ancora più severe le sanzioni e premiare i comportamenti virtuosi. Sia chiaro che i temi affrontati sono importantissimi e proprio per questo non potevano e non dovevano stare dentro un decreto omnibus come questo che stiamo analizzando e durante la discussione in Commissione gli stessi sottosegretari più volte, rispetto alle nostre proposte e alle nostre sollecitazioni a migliorare il testo, a approfondirlo, a renderlo strutturale ci hanno detto: “Queste cose le faremo in altri provvedimenti organici sul tema”, a dimostrazione che tali questioni non dovevano essere contenute e non andavano affrontate nel decreto-legge. Ma allora dove sta il senso del decreto-legge? Stento a credere che i colleghi dalla maggioranza siano convinti che dentro il provvedimento siano contenute le risposte alle domande e alle aspettative legittime e condivisibili di maggiore qualità di lavoro e di maggiore sicurezza sociale. Io mi sono fatta un'altra idea. Credo che il nostro Ministro del Lavoro con questo atto, tutt'altro che inversione a U, abbia compiuto un sorpasso pericoloso in curva: un sorpasso pericoloso in curva per il Paese e per i lavoratori del Paese con l'intento di acciuffare e raggiungere il suo collega Vicepremier, il Ministro Salvini, vero dominus incontrastato del Governo. Capisco le umane preoccupazioni del Ministro o l'ansia da prestazione, la preoccupazione di essere eterno secondo. Capisco tutto ma prenda atto il Ministro e la sua maggioranza che il decreto-legge nella forma oltre che nella sostanza inaugura la stagione della disillusione, il primo tassello che porterà diversi pezzi della società italiana che hanno investito su di voi e sulla vostra narrazione di Paese ad aprire gli occhi e a riprendere il contatto con la realtà.

Altre due considerazioni generali che come l'utilizzo dell'urgenza come argomentazione per giustificare la scelta del decreto-legge dimostrano la caratterizzazione propagandistica dell'atto e la scarsa incidenza dello stesso sul raggiungimento degli obiettivi che pure sono buoni e condivisibili. Come i sindacati dei lavoratori e le associazioni datoriali hanno ribadito bene e chiaramente in audizione così come sui giornali, avete scritto il decreto senza alcun confronto con le parti sociali: grande errore, grande errore perché avreste potuto apprendere da quel confronto per esempio che la modalità migliore per riscrivere le causali era quella di mettere in gioco la contrattazione collettiva.

Infatti noi siamo riusciti in Commissione, come i colleghi hanno ricordato bene, a ottenere che il contratto di lavoro domestico non sia sottoposto al nuovo regime del contratto a tempo determinato: però ci sono anche altri tipi di contratto rispetto ai quali la contrattazione forse avrebbe evitato questo pasticcio. Penso ad esempio a quello dei ricercatori che sarebbe bene potessero lavorare per tutto il periodo di durata della ricerca; penso ancora ai collaboratori parlamentari, a quelli dei gruppi consiliari o agli staff dei sindaci che dovrebbero poter lavorare per l'intera durata del mandato.

Ma sulla dignità vorrei dire qualcosa: mi dispiace che non ci sia più il Ministro. Sulla parola “dignità”, sul concetto, il punto di vista che è stato abusato in questi giorni, senza la pretesa di dare lezioni a nessuno, vorrei riportare alla memoria alcune questioni che sono state affrontate nella scorsa legislatura e sono state citate anche dal collega De Luca e che sicuramente hanno segnato un avanzamento in termini di dignità dei lavoratori. È stata dignità liberare i lavoratori e soprattutto le lavoratrici dal terribile ricatto delle dimissioni in bianco e sarebbe bene andare a rivedere come votò il MoVimento 5 Stelle sul provvedimento perché è molto interessante ripercorre la storia al contrario. È stata dignità la scelta dello statuto del lavoro autonomo che ha esteso a 2 milioni di lavoratori invisibili i diritti essenziali come la maternità, la malattia, il giusto compenso e la disoccupazione. È stata dignità quando attraverso diversi interventi sulle leggi di bilancio della scorsa legislatura abbiamo salvaguardato migliaia di lavoratori che, a seguito della legge Fornero, erano rimasti fuori sia dal lavoro sia dal sistema pensionistico. È stata dignità quando per la prima volta nella storia abbiamo introdotto nel Paese una misura universale contro la povertà: il reddito di inclusione che probabilmente voi, con i soliti artifici dialettici che vi contraddistinguono, tra qualche mese ribattezzerete reddito di cittadinanza e attraverso il quale salverete la faccia rispetto a un impegno che ha portato tantissimi cittadini, soprattutto nel meridione, a investire su di voi. Ecco come si costruisce la dignità, come dovremmo continuare a costruire le condizioni affinché i lavoratori e le lavoratrici avvertano il lavoro come uno strumento di realizzazione perché il lavoro dà la dignità, la danno i diritti e gli interventi puntuali tesi ad ampliarli, come le ho appena ricordato. La dignità non è attribuita da un decreto, tantomeno questo di cui discutiamo. Attraverso la Presidente, pongo questa domanda al Ministro - avrei voluta porla in sua presenza ma, come abbiamo detto, è andato via - mi farebbe piacere capire se il Ministro ha avuto modo, negli intervalli di tempo tra l'occupazione di un posto di potere e l'altro, di leggere Deianira Ciampitti su la Repubblica di qualche giorno fa.  La ragazza, una trentunenne, dichiara: “Vorrei avere la dignità di un lavoro che perlomeno mi stimoli e mi rispecchi, un ambiente che mi faccia svegliare di buon umore e magari la possibilità di poter avere un giorno una famiglia a cui insegnare valori che partono anche dallo studio”. Conclude: “Non abbiamo bisogno di belle parole ma di concrete opportunità”. Per dirvi ancora una volta, dopo averlo fatto in Commissione la scorsa settimana, che con il decreto-legge in esame, oltre a non creare nuovi posti di lavoro - lo avete detto più volte - non garantirete nemmeno la tenuta di quelli attuali e anzi, per come avete riformulato i rapporti contrattuali, il rischio è una nuova stagione di disoccupazione e di picchi di lavoro nero. Infatti, signora Presidente, per suo tramite vorrei dire al Ministro Di Maio ancora una volta, che i posti di lavoro, la dignità e i diritti non sono come le fake news di cui siete campioni, quelle che basta lanciare sulla Rete, condividere e divulgare perché divengano vere, perché divengano realtà. I posti di lavoro, la dignità e i diritti sono il punto di arrivo di processi seri, di un'impostazione culturale, di discussione e confronto, tutte cose di cui - mi dispiace constatare e confermare in questi giorni - voi non siete capaci. Crede davvero che irrigidire i contratti a tempo determinato come proponete ridurrà la precarietà e indurrà le imprese a scegliere il tempo indeterminato? Non vi sorge il dubbio che, irrigidendo il contratto a tempo determinato che fra i contratti a termine è quello meno precario, si farà più concreto il rischio che prendano il sopravvento altre formule precarizzanti o addirittura riprenda a proliferare il lavoro nero?

Provo, al riguardo, a sviluppare una riflessione: credo che la precarietà - su questo Debora Serracchiani ha detto bene in avvio di questa seduta e lo condividiamo tutti - sia una condizione spiacevole e, allorquando si protrae, è tragica per la vita di un lavoratore e di una lavoratrice, ma, per affrontarla con razionalità e con l'ambizione di ottenere risultati efficaci, occorre costruire percorsi ottimali, ordinati e intelligenti.

Negli anni scorsi, nel misurarci con la complessa e delicata sfida della riforma del mercato del lavoro, resa necessaria dai grandi cambiamenti che hanno cambiato per sempre la relazione fra quelli che sono i fattori produttivi, penso all'innovazione tecnologica, alle dinamiche demografiche, alla globalizzazione che hanno modificato la stessa concezione del lavoro in termini di tempi e di prospettive, abbiamo avviato un percorso, ancora oggi in atto, intorno a una considerazione fondamentale: i diritti acquisiti nel secolo scorso non erano e non sono, da soli, più sufficienti a rappresentare le implicazioni e le aspettative attuali.

Un sistema di diritti costruito intorno al lavoratore maschio, che dal primo all'ultimo giorno del proprio percorso professionale sarebbe stato nella medesima azienda, non poteva essere più sufficiente a garantire tutte le opportunità in un mercato del lavoro in un mondo completamente cambiato e due erano le strade: o prendere atto delle logiche regolatrici del mercato o provare, come abbiamo fatto, a coniugare la flessibilità - che è caratteristica di questa epoca e che è altra cosa rispetto alla precarietà - con meccanismi di tutela e sicurezza nuovi.

Noi abbiamo scelto di misurarci con questa sfida in un momento di grande crisi economica, abbiamo fatto tutto? No. Abbiamo costruito un sistema perfetto? No. Abbiamo risolto tutti i problemi? No. Abbiamo, però, migliorato - questo mi sento di dirlo - in un contesto davvero difficile, una situazione preesistente molto più destrutturata e difficile da monitorare e correggere, avuto riguardo ai diritti e alle prerogative dei lavoratori.

Abbiamo costruito un percorso logico, il contratto a termine, di cui al decreto Poletti, un provvedimento di carattere congiunturale che intendeva promuovere l'occupazione in una fase di ciclo economico recessivo, una sorta di ponte verso le tutele crescenti introdotte poi con il Jobs Act, attraverso il quale - ricordiamolo, perché questo non lo diciamo mai - sono state superate quaranta tipologie di contratti atipici come i co.co.co. e gli altri simili.

Come abbiamo cercato di costruire il passaggio fra il contratto a termine e le tutele crescenti? Attraverso la decontribuzione, quella che voi oggi avete ripreso nel vostro decreto, anche se riducendola in termini di risorse. Di fatto abbiamo costruito un quadro logico, fatto di tappe successive, graduali, con un senso compiuto.

A noi pare che il decreto “Di Maio” ponga obiettivi condivisibili, ma individui per raggiungerli una strada sbagliata, confusa e pericolosa. I dati di Eurostat sulla diffusione dei contratti a tempo determinato nel nostro Paese parlano chiaro: in tutti i settori l'Italia presenta un numero di contratti a tempo determinato inferiori a quelli di tutti gli altri Paesi europei. Gli unici settori, guarda caso, in cui i contratti a tempo determinato sono aumentati in maniera notevole sono quelli dell'agricoltura e del turismo, guarda caso i settori in cui la maggioranza irrigidisce la normativa della contrattazione a termine e reintroduce i voucher, attraverso specifico emendamento presentato e approvato in Commissione; settori nei quali il rischio sarà che, appunto, irrigidendo le maglie della contrattazione a tempo determinato, quello più consono a rappresentare l'organizzazione stagionale di quelle tipologie di lavoro, il voucher potrebbe inserirsi e favorire proprio quegli abusi che voi dite di voler bloccare attraverso questo decreto.

Premesso che siamo tutti impegnati e ho appena ricordato cosa noi abbiamo fatto a riguardo per coniugare flessibilità e diritti in modo che il lavoratore sia tutelato, siamo sicuri che concentrarsi esclusivamente sulla rivisitazione della forma contrattuale a tempo determinato sia la ricetta per risolvere il problema della precarietà? La nostra risposta è “no”. La nostra proposta per promuovere lavoro stabile e quindi ridurre la precarietà rimane, anche sulla base di quanto abbiamo sperimentato, l'abbattimento del cuneo fiscale: un punto all'anno per un totale di 4 punti sui contratti a tempo indeterminato. Il lavoro stabile vale di più? Bene, allora deve costare meno, e questa è la sfida.

Sulle delocalizzazioni, molto velocemente: scoraggiare e disincentivare le delocalizzazioni in generale e quelle relative ai siti produttivi beneficiari di aiuti di Stato si può e si deve fare, consapevoli però che l'obbligo di restituzione dei fondi pubblici - è stato già detto dai colleghi che mi hanno preceduto - esiste già.

Non solo. Come spero ricorderete, prendendo spunto dalla vicenda Embraco, il Governo Gentiloni, con l'allora Ministro Calenda, destinarono 200 milioni al Fondo per il contrasto alle delocalizzazioni, come azione positiva di politica industriale per la protezione dei lavoratori e anche delle aziende che si confrontano con difficoltà con l'innovazione tecnologica e la globalizzazione. Credo che quel provvedimento delinei il percorso che dovremmo seguire, un percorso che non sarà facile rafforzare se non attraverso una battaglia in Europa, così come impostata da Calenda, sulla revisione delle regole degli aiuti di Stato, in particolare - aspetto che stiamo trascurando - rispetto alle delocalizzazioni interne al mercato dell'Unione europea.

Ecco, la nostra preoccupazione sulla normativa delle delocalizzazioni è che stia prevalendo una visione esclusivamente punitiva, che sembra caratterizzarla totalmente e che, secondo noi, rischia di non risolvere la questione che a tutti dovrebbe stare più a cuore, ossia la continuità produttiva e occupazionale di quel sito sul territorio nazionale. A questo proposito, in Commissione - e lo rifaremo in Aula - noi abbiamo presentato un emendamento per provare a cambiare l'impostazione di questa disposizione, stabilendo che le imprese beneficiarie di aiuti di Stato non possano delocalizzare la propria produzione dal sito incentivato presso altro Stato, anche appartenente all'Unione Europea, con conseguente riduzione o messa in mobilità del personale, prima di aver trovato un nuovo acquirente che garantisca la continuità aziendale e produttiva, nonché il mantenimento dei livelli occupativi e occupazionali dell'impresa stessa. Attenzione, stiamo proponendo di istituzionalizzare una prassi di soluzioni di crisi aziendali praticata più volte nella scorsa legislatura e che più volte ha dato buoni risultati.

Mi avvio alla conclusione. Signora Presidente, nel 2013 abbiamo ereditato un Paese nel pieno di una crisi economica devastante, abbiamo intrapreso, fra le altre, la strada della riforma del mercato del lavoro, ancora lunga e non terminata, e credo che oggi il Paese che vi abbiamo consegnato viva una situazione decisamente migliore.

Nessun tono trionfalistico nelle mie parole, perché spesso siamo stati accusati di utilizzare il tono trionfalistico nel citare i dati che denotavano il miglioramento economico del Paese. Però l'OCSE, che non è il PD, che non è il quartier generale del PD, parla chiaro e ci dà anche delle indicazioni, che secondo me dovremmo seguire, se veramente abbiamo a cuore, da un lato, il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e, dall'altro, la crescita economica del Paese. L'OCSE ci dice che in Italia abbiamo di nuovo raggiunto, a livello di occupazionale e di percentuali di occupati, i livelli pre-crisi e il tasso di disoccupazione - ci dice – è stabile.

Non basta, perché l'OCSE, come dire, fotografa sia le luci che le ombre della situazione del mercato italiano: lo sviluppo è positivo, dice l'OCSE, ma è fragile e c'è un rischio che riprenda a crescere la quota di disoccupati di lunga durata. Quindi, cosa dice l'OCSE, non Maurizio Martina o Matteo Renzi, ma l'OCSE? Ci dà delle indicazioni e dice: continuate sulla strada intrapresa con il Jobs Act, rafforzate le politiche attive e i meccanismi di protezione del mercato del lavoro. Non a caso, noi, nella fase emendativa in Commissione e che riproporremo anche qui in Aula, abbiamo proposto - e questo lo avete anche accettato - di adeguare l'offerta di conciliazione rispetto all'aumento dell'indennità di licenziamento; abbiamo proposto la buonuscita compensativa per i lavoratori che non vengono stabilizzati; abbiamo proposto la sperimentazione del salario minimo garantito, laddove non intervenga la contrattazione collettiva.

Ecco, credo, relatore Tripiedi, che la nostra sia stata a tutti gli effetti - e mi rivolgo a lui perché ha parlato di ostruzionismo - un'opposizione costruttiva e responsabile, sul merito. Mai abbiamo ceduto al rancore, eppure con voi non è neanche facile, visti tutti gli input che ci avete dato. Abbiamo solo una preoccupazione: la preoccupazione è che questa cultura del “no”, questa cultura della continua criminalizzazione di tutto quello che non vi piace, a lungo rischia di avere un costo in termini di credibilità e di fiducia.

E come ben sapete, come ben dovrebbero sapere ministri, sottosegretari e parlamentari, sia la credibilità che la fiducia sono due variabili che incidono pesantemente sulla domanda e sulle dinamiche economiche. Per cui, la nostra richiesta non è quella di, come dire, seguire il lavoro che abbiamo fatto noi, no, anche se poi il contratto a tutele crescenti è rimasto nella vostra legge, così come la decontribuzione l'avete ripresa; la nostra richiesta è di riflettere ancora su questo decreto, su questa impostazione legislativa, perché il rischio non è l'inversione a U di cui parlava il Ministro Di Maio, il rischio è che il Paese possa rifinire nel vicolo cieco in cui noi l'abbiamo preso nel 2013.