A.C. 1112
Grazie, Presidente. Onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, membri del Governo, ho pensato molto a cosa dire in questo piccolo spazio di tempo, intervenendo in sede di conversione in legge di un decreto di cui non condivido nulla: la ratio, le scelte strategiche, la lettura politica e storica che si dà al fenomeno che tratta. Anche io non voglio chiamarlo decreto Cutro, perché non lo trovo rispettoso rispetto a quel luogo e rispetto a quei morti. Forse potrei chiamarlo, per la continuità che esprime, decreto Sicurezza-ter. E sappiamo tutti, Presidente, che fine hanno fatto quei provvedimenti: demoliti alle fondamenta dalla Corte costituzionale. Io credo che andrà così anche stavolta, ma, nel frattempo, qualcuno avrà avuto modo di esibire i muscoli, forse avrà anche vinto qualche altra elezione, ostentando quell'intransigenza securitaria che, poi, però, alla prova dei fatti, non mette al sicuro nessuno, né chi in Italia ci vive già né chi in Italia ci arriverà.
Anche sul metodo, di nuovo, abbiamo perso un'occasione, credo: decretazione d'urgenza senza un'urgenza, stato di emergenza senza un'emergenza in risposta a un fenomeno globale e strutturale, nessun confronto con le opposizioni, sordità rispetto alle piazze, alle audizioni, agli amministratori e alle amministratrici, che, poi, ogni giorno, sono le persone che si trovano a gestire veramente i fenomeni.
Non sono ottime premesse, Presidente, eppure sono ancora convinta che, nonostante tutto, potremmo ancora, forse, dare un senso a questa discussione, se la maggioranza farà un passo indietro e sarà disposta a dialogare con tutte le forze politiche e anche e, soprattutto, con le parti sociali e con gli enti locali. Viviamo tempi di grande polarizzazione in politica oggi e ne siamo, in parte, responsabili tutti, ma spero che ci sia ancora spazio, in quest'Aula, per una dialettica costruttiva, per una ricerca di uno sguardo comune sui fenomeni in cui siamo immersi e per un confronto sulle soluzioni, a meno che queste soluzioni da qualcuno non vogliano proprio essere trovate, ma io oggi voglio credere che non sia così.
Sorrido leggendo questo passaggio che avevo scritto un po' amaramente. Presidente, quindi, mi rivolgo a lei affinché riporti il mio appello alle due persone della maggioranza presenti in Aula in questo momento. Guardiamoci in faccia, noi, in quest'Aula, ascoltiamoci, se ne abbiamo la forza e l'intelligenza: penso che quello di questo Governo sia un approccio sbagliato, perché si illude di poter fermare le migrazioni, magari scendendo a patti o sovvenzionando dittatori per limitare le partenze, ignorando il drammatico costo umano che questa cosa ha già ogni giorno, oppure perché si illude dell'efficacia della deterrenza della norma che emana, cosa che non è. Vede, Presidente, io credo sinceramente che questo decreto non impedirà a nessuno - come, forse, il titolo vorrebbe suggerire - di salire, una notte, su una barca fatiscente, con solo il mare di fronte e qualcosa da cui scappare alle spalle. Questo Parlamento, oggi, di fronte, ha l'immigrazione, una sfida che non è soltanto umanitaria - per me sarebbe sufficiente anche solo questo, in realtà -, ma è una sida che, potenzialmente, è anche culturale, economica, una sfida demografica. Vogliamo davvero, dunque, continuare a parlarne come di un problema, esclusivamente come di un problema?
L'abbiamo letto tutti il Documento di economia e finanza? A me sembrava chiaramente che dicesse che, per andare avanti in alcuni settori della nostra economia, abbiamo bisogno di immigrazione. Io non penso Presidente che, per colmare questa necessità, possiamo permetterci di promuovere un modello “mordi e fuggi”, per cui le persone arrivano, lavorano, ritornano, vengono rimpatriate, come se fossero dei pacchi postali e non penso neanche che possiamo raccontarci, d'altra parte, tra i tanti discorsi che si fanno spesso, che i migranti in Italia non ci vogliono restare, che, in realtà, vogliono andare tutti nel Nord Europa e che siamo solo un Paese di transito. No, io penso che dobbiamo essere più schietti e dirci la verità. E la verità è che noi abbiamo bisogno di un grande innesto di persone che vogliano restare, di nuove cittadine e nuovi cittadini, con diritti e doveri, con un lavoro stabile e delle responsabilità, con il diritto a ricevere un'istruzione adeguata, persone che potrebbero partecipare alla vita delle nostre comunità nel significato più alto e più bello che questa parola può avere. Che, finché sono su una barca, abbiamo noi il dovere di salvare loro - è il diritto del mare, ma anche la nostra coscienza a dircelo -, ma, nel momento in cui toccano il suolo italiano, forse, si deve spezzare la logica del bisognoso e del soccorritore, si deve entrare nella logica dell'opportunità e del bene comune. Possiamo salvarci a vicenda, noi e loro, dobbiamo metterci, però, nelle condizioni di farlo, in uno scambio di ricchezza che sia, innanzitutto, umano e culturale.
Chiamare questo processo, che è complesso, ma che è potenzialmente anche, secondo me, una sfida entusiasmante, di apertura di nuovi spazi di cittadinanza, chiamare tutto questo “sostituzione etnica”, come ha fatto qualcuno - e io, in realtà, non mi riferisco solo al Ministro Lollobrigida, ma ricordo dichiarazioni anche di Matteo Salvini o di Giorgia Meloni, che citavano esattamente questo tipo di teoria -, non è solo svilente, non è solo razzista, suprematista, complottista a tutti gli effetti, ma è anche, io credo, il più grande torto che possiamo fare a noi e al nostro futuro.
Dicevo, voglio usare questo spazio di confronto per raccontare anche una storia diversa, un esempio concreto, pragmatico, che io non penso che possa essere tacciato di ideologia, come ho sentito dire negli interventi precedenti. È una storia che viene dal mio territorio, che è il Veneto, e, in particolare, dalla mia città, Treviso, dall'esperienza straordinaria di una famiglia normale, la famiglia Calò, composta - lo dico subito - da due insegnanti e quattro figli, quindi non esattamente l'élite borghese e buonista che si racconta spesso. Questa famiglia, nel 2015, ha accolto sei ragazzi africani provenienti da sei Paesi diversi e li ha accompagnati tutti, con successo, all'autosufficienza economica e alla piena integrazione nel tessuto del territorio.
Il modello che nasce da questa storia parla, ovviamente, non solo di famiglie che accolgono, perché la famiglia, ce ne rendiamo conto, in questo caso, è l'eccezione, ma cerca soluzioni efficaci ed applicabili dagli enti locali. È un modello che si chiama “6 più 6 per 6” e porta con sé l'idea che si gestisca l'accoglienza in nuclei autonomi, tipo casa famiglia, di 6 persone ogni 5.000 abitanti - non sono tanti -, con un'équipe di 6 professionisti che segua gli accolti (e, quindi, da qua il “6 più 6” persone), e sono un'insegnante, un avvocato, un operatore culturale, un assistente sociale, uno psicologo e un medico. Questi 6 professionisti potrebbero seguire 6 nuclei (di qui il “per 6” del nome del modello), per un totale di 36 persone accolte. Provate a pensare, colleghi, a quante persone, a quanti giovani potrebbero voler lavorare con entusiasmo a un progetto del genere. Altro che “ci rubano il lavoro”! Il modello “6 più 6 per 6” - mi riservo anche volentieri di mostrarvene i bilanci, se ne avremo l'occasione -, al momento, sembra essere uno dei più economici e uno dei più trasparenti in campo. I ragazzi accolti in quell'esperienza - e ve lo riporto perché li ho conosciuti personalmente, ho avuto questa fortuna - oggi lavorano in Italia, hanno una loro casa, hanno delle relazioni sociali, amicali, pagano le tasse.
Questa storia si sta espandendo, non è rimasta isolata all'esperienza di un singolo illuminato. Nel 2020, ha ispirato il progetto “Embracing”, approvato dalla Commissione europea, che lo finanzia nel quadro del Fondo asilo, migrazione e integrazione ed è stata un'altra città del Veneto a cui sono molto legata, Padova, a coordinare la proposta progettuale europea e a replicarla sul territorio. Il bilancio finale di questa sperimentazione, che ha visto una forte collaborazione tra comune e cooperative, la creazione di un albo delle famiglie accoglienti, che ha superato in numero la necessità di persone da accogliere, e un progetto che prevedeva 6 mesi di accoglienza per 9 persone di nazionalità, storie ed età diverse in 9 nuclei familiari diversi e di diversa composizione, non solo ha funzionato, ma è costato meno del SAI.
Infatti, tutte le persone accolte, guarda un po', entro i 6 mesi previsti dal progetto, hanno provveduto a diventare autonome e si sono integrate nel territorio. Quindi non è un modello di larga scala, direte voi. Forse è vero, ma è un modello che funziona e che credo possa dirci molto sui ritardi, le insufficienze, le spese di modelli che partono da presupposti diversi. Sarebbe interessante, credo, ma anche conveniente, sviluppare in questo senso lo strumento del SAI, prediletto dai comuni, dove le persone già oggi vengono accolte con un patto: imparare la lingua, avviarsi al lavoro, cercare una propria abitazione.
Eppure oggi succede il contrario, succede qualcosa di diverso. Negli anni al SAI si sono affiancati i centri CAS, gestiti dalle prefetture e non dai comuni, e meno efficaci, oggettivamente, sul fronte dell'integrazione, e oggi in realtà stiamo disinvestendo su entrambi i circuiti di accoglienza. Purtroppo già accade, infatti, in ogni caso, che tante persone rimangano escluse dai percorsi di accoglienza SAI e dai CAS. Queste persone sono quelle a cui viene negata la protezione internazionale o a cui, per un motivo o per l'altro, e spesso, non nascondiamocelo, sono motivi orrendamente burocratici, è scaduto il permesso di soggiorno precedentemente concesso per motivi di lavoro, famiglia, studio.
Tutte queste persone, che diventano istantaneamente difficili da contattare e da individuare proprio perché non sono inserite in un percorso definito, sono esposte a un forte rischio. Proprio perché sono senza documenti, sono ricattabili da parte delle pseudo-aziende che fanno caporalato o dalla criminalità organizzata. E l'assenza di diritti, in questo caso la mancanza assoluta di uno statuto di cittadinanza, è il terreno perfetto per lo sfruttamento del lavoro senza alcun costo, che fa arricchire solo il caporale, o della miseria che semina insicurezza nelle nostre città. Tornare ai decreti Sicurezza, svuotando la protezione speciale, come ad esempio fa questo decreto, creerà solo nuove sacche di vulnerabilità e di invisibilità.
Quindi oggi, in quest'Aula, volevo chiedervi semplicemente perché preferire dei fantasmi che stazionano per strada, con il telefono in mano, senza nemmeno saper parlare l'italiano, in uno stato di povertà assoluta, a dei potenziali nuovi compagni di classe, a dei potenziali nuovi vicini di casa, a dei potenziali nuovi colleghi; perché rendere esclusivo il diritto all'accoglienza, legandolo per forza al passaggio per canali umanitari, che al momento sono del tutto insufficienti, mentre a decine di migliaia continuano a partire e muoiono nei lager o muoiono in mare, tentando.
Volevo fare notare a quest'Aula che, se questo decreto il giorno del naufragio a Steccato di Cutro fosse già stato in vigore, le persone morte in quel naufragio non solo sarebbero state irregolari sul suolo italiano, ma non avrebbero neanche avuto alcuna possibilità di accedere ai circuiti di accoglienza. Non chiamiamolo decreto Cutro, non travestiamo di giustizia qualcosa che crea miseria. Ancora, perché eliminare il divieto di respingimento per vincolo familiare, perché togliere, tra gli elementi garantiti, proprio l'assistenza psicologica e quella legale. L'assistenza psicologica!
Ma come, non avete letto anche voi delle condizioni di vita allucinanti nei CPR o nelle strutture di accoglienza, dell'abuso violento e disumanizzante che si fa di psicofarmaci in quei luoghi? Non avete ipotizzato anche voi, anche solo da distante, le conseguenze drammatiche che può avere a livello sociale lasciare per strada delle persone con un grande portato di trauma e nessuno strumento per affrontarlo e superarlo? Perché, infine, togliere strumenti di regolarizzazione, anziché aggiungerne? Che senso ha? Non me lo spiego. Voglio essere sincera con voi, ho paura di quello che accadrà nei prossimi mesi a causa delle vostre scelte, di questo approccio che è securitario, ma che non è sicuro, e della foga punitiva con cui questi decreti vengono fatti, emanati e convertiti in legge.
Colleghi, per favore, non lasciamo che sia la paura a muoverci. Usciamo dal circolo vizioso dell'emergenza immigrazione. Usciremo da questo circolo vizioso quando smetteremo di avere paura e cominceremo a ragionare in termini di opportunità e di bene comune. “Opportunità” è una parola che agli italiani e alle italiane, soprattutto ai giovani, farebbe piacere sentire un po' di più. Pensiamo a quello che ha fatto il nostro Paese dopo la seconda guerra mondiale, dopo la Liberazione, che qualche giorno fa abbiamo festeggiato. Opportunità potrebbe significare dire a tutti coloro che già sono in Italia e a coloro che ci arrivano che il nostro Paese può essere una terra in cui realizzare se stessi e i propri sogni, in cui costruire insieme la nostra comunità e in cui rendere vissuto reale la nostra Carta costituzionale.
Ma probabilmente la verità è che il Governo Meloni questa soluzione non la vuole trovare; la verità è che forse ci si accontenterà di continuare a fare propaganda sulla pelle di migliaia di esseri umani, raccontando che si stanno fermando le migrazioni, che si stanno disincentivando le partenze, che si sta tenendo la linea dura. E il problema inspiegabilmente continuerà a peggiorare, perché nessuno lascia casa a meno che la casa non sia alla bocca di uno squalo, e nessuno può far diventare casa un Paese che demolisce dall'interno il proprio sistema di accoglienza.
Se non è così, allora - e spero che mi contraddiciate - noi siamo disponibili a cercare insieme delle soluzioni condivise. Fermiamoci adesso e pensiamoci. Possiamo costruire insieme degli spazi di opportunità e non degli spazi di criminalità e miseria, ma non possiamo andare avanti così. Basta un po' di sincera, vera volontà politica.