A.C. 547-A
Grazie, Presidente. Governo, colleghi, onorevoli banchi, io non sarei sincero se dicessi di considerare questo decreto un atto fondamentale nel percorso avviato della nuova legislatura, nel senso che, dopo mesi di una campagna elettorale molto accesa, come è giusto che sia, che ha visto le forze della maggioranza annunciare un ventaglio di misure destinate a sanare ferite e ingiustizie sociali, economiche e culturali di un'Italia depredata dal centrosinistra, ecco dibattere attorno ad un decreto che ha come oggetto la diversa denominazione di alcuni Ministeri, sia detto con benevolenza, non suscita un particolare entusiasmo.
Immagino abbia ragione il collega Giachetti, che ora non è più presente, a ricordare che i decreti di questa natura sono nell'ordinaria amministrazione dell'avvio di tutte le legislature, nella logica di una ripartizione chiara delle deleghe e delle funzioni, ma è comunque vero che in questo caso il decreto agisce anche, e forse soprattutto, sul terreno della denominazione dei Ministeri citati. Ed è vero che le parole sono importanti, come importanti sono i nomi che si scelgono perché da lì derivano il senso e, in fondo, anche il valore che assegniamo alle cose e alle persone o anche, come in questo caso, il valore che assegniamo alle parole che denotano e definiscono le istituzioni.
Ora, nelle innovazioni che il Governo ha introdotto con questo decreto io penso - ho ascoltato con attenzione il passaggio centrale della collega Gardini pochi minuti fa - che debba trovare un posto di rilievo, per le sue implicazioni e le sue ricadute, la nuova qualifica del vecchio Ministero dell'istruzione, in anni più lontani “Ministero della Pubblica istruzione”, ribattezzato da voi, come è stato appena ricordato, “Ministero dell'Istruzione e del merito”.
Dunque, a proposito dell'importanza delle parole, l'innovazione in questo caso starebbe nel non recuperare il termine “pubblica” a vantaggio della voce “merito”. È una pura questione lessicale? No, noi pensiamo che non lo sia. Io direi che si tratta di una modifica concettuale e, se l'espressione non vi sembra eccessiva, anche valoriale, a conferma che la scelta dei nomi enuncia sempre un senso e un indirizzo e, nel caso della qualifica di un Ministero - l'ha appena ricordato un esponente della maggioranza rivendicando questa scelta - la visione che si coltiva della funzione di quel Ministero in relazione ai problemi e ai bisogni del Paese.
Però, colleghi, è appunto sulla visione che regge questa vostra novità che, da parte nostra, sorgono i dubbi e le contrarietà. Infatti, la radice di quel termine “merito” da sola potrebbe rubarci parecchio tempo, tante e tali sono state nel passato le voci, anche assai autorevoli, che con quel concetto si sono misurate. E naturalmente - lo dico alla collega Gardini - il punto non è rimuovere il principio in sé. Riconoscere i meriti e valorizzarli fa senza dubbio parte del buon funzionamento di una società. Penso che nessuno tra noi accetterebbe con serenità di farsi operare da un pessimo chirurgo, ma in quel caso è più logico parlare di competenza, di preparazione, di esperienza. Per definizione il merito è un'altra cosa perché riguarda l'intreccio tra sfere diverse della persona e, sul versante sociale, investe per prima la casualità - chiamatela pure “la sorte” - del dove si nasce, si cresce, si studia, ci si forma come donne e uomini adulti e come cittadini consapevoli. Ma è esattamente su questa distinzione che la scelta di quell'avvicendamento lessicale tra “pubblica”, definizione scomparsa non da oggi, e il “merito” non convince. E a non convincere, prima di tutto, è l'idea che traspare della scuola e della sua funzione. Io rubo la sintesi a Enrico Galiano, docente e scrittore, che dice: “La scuola (…) non è il posto dove si premiano i migliori: è quello dove si va a tirare fuori il meglio da ciascuno”; e aggiunge subito dopo: “Nella logica del premio e del castigo, della competizione, del vince chi se lo merita, lasciatevelo dire, viene fuori solo il peggio di loro”.
Io credo che sia veramente così, colleghe e colleghi: imparare è un diritto, non è un premio. Quanto al castigo, insomma, non incoraggia a pensare al meglio la sortita del Ministro Valditara quando, qualche giorno fa, ha associato alla giusta sanzione per un grave episodio di bullismo la necessità di una umiliazione dello studente che di quella violenza si era reso responsabile. Il Ministro con onestà intellettuale ha chiarito di essersi male espresso, d'avere usato un termine improprio, a conferma di quanto le parole portino addosso sempre il peso del loro significato. Gli è stato opportunamente risposto che i ragazzi non hanno bisogno di buone punizioni ma di buone relazioni. Che poi sarebbe la funzione basilare di una scuola pubblica intesa come primo e fondamentale luogo di socialità e di scoperta del legame che ci unisce agli altri, insegnanti, compagni, il mondo attorno.
Insomma, l'apprendimento non è una competizione, non è una gara dove conta chi arriva davanti. All'opposto, dovrebbe aiutare i singoli a scoprire le proprie capacità, i talenti dove si celino, le passioni destinate a riempire l'esperienza adulta. E sono tutte risorse da far germogliare fin dai primi anni di vita, quando le disuguaglianze nei punti di partenza non sono ancora consapevolezza nell'animo di chi le soffre, ma appaiono ben vive nelle scelte di chi avrebbe il dovere di contrastarle. E la politica ha esattamente questo compito. Però, proprio con una premessa simile la vostra decisione confligge in modo evidente e lo fa - lo ripeto - per la ragione di fondo che distingue la natura del merito dall'uguaglianza effettiva delle condizioni di partenza.
Il punto è che, se viene meno quell'aggancio, l'investimento sul merito non può che tradursi nel consolidarsi di differenze di mezzi, risorse, opportunità destinate a rendere incolmabili le distanze all'origine. Prendere atto di questa realtà non dovrebbe risultare difficile. Lo sapete benissimo: durante la pandemia, grazie alla passione e all'impegno di migliaia di docenti, l'insegnamento a distanza ha consentito a tantissimi bambini e ragazzi di tenere almeno un filo con la didattica attraverso lezioni seguite attraverso uno schermo, e però nel nostro Paese 470 mila bambini e ragazzi, dai 6 ai 18 anni, in casa non hanno un tablet, non hanno un computer, non hanno un iPhone, non hanno una rete Wi-Fi. Per loro, per questo mezzo milione di ragazzi italiani, la didattica a distanza somiglia alla vita su Marte: forse esiste, ma non l'hanno mai incontrata.
Allora, che definizione volete dare della parola e del concetto di merito? Dalla scelta di privilegiarlo nel titolo del Ministero della scuola pubblica si comprende - giustamente è stato rivendicato poco fa anche da voi - la gerarchia di valori che vi ispira. E diciamo “valori” con una punta di generosità perché ieri pomeriggio, quasi fuori tempo, la maggioranza ha presentato un paio di emendamenti per dirottare risorse verso gli uffici di diretta collaborazione con alcuni Ministri: uno di questi per la somma di quasi 500 mila euro, riguarda il Ministero dell'Istruzione e del merito. E si tratta di risorse sottratte all'attività che le scuole dovrebbero svolgere - la didattica e non solo - e appaltate ai futuri e meritevoli collaboratori del Ministro. Diciamo che il primo passo della nuova stagione, più che premiare il merito dei ragazzi, si è occupata di occuparsi dei meriti vostri.
Cosa dire? Semplicemente che noi non siamo d'accordo e pensiamo che, in questa vostra condotta, finiate, invece, onorevole Gardini, con il mancare di rispetto a quell'articolo della Costituzione, che lei ha citato, il 34, dove, con chiarezza - l'ha ricordato poco fa -, si dice che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi - ripeto: anche se privi di mezzi -, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. C'è un link, un aggancio profondamente voluto tra il concetto di merito e la mancanza di mezzi. I padri e le madri costituenti sono stati giganti, capaci di saldare in un disegno compiuto l'innovazione maggiore, presente in una Costituzione liberale del Novecento, ossia il secondo comma dell'articolo 3 - sul compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando, di fatto, la libertà e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana - con l'impegno a promuovere la capacità e il merito anche di chi di mezzi è privo. Perché, alla fine, il tema sta nel comprendere che il merito, senza parità di condizioni, mezzi e risorse e - se parliamo di istruzione - di libri, di laboratori, di borse di studio, di contesti di accoglienza e di inclusione, si riduce a quella misera cosa che è il privilegio (di nascita, di reddito o di potere).
Molti anni fa, nel 1951, Piero Calamandrei teneva un discorso all'università; parlava a giovani e giovanissimi nati e cresciuti sotto il fascismo. Alle spalle, quei ragazzi avevano la tragedia della guerra, incrociata quando la loro vita iniziava. La Costituzione era in vigore da soli tre anni e quei ragazzi la conoscevano poco e male e Calamandrei, giurista e costituente, nel rivolgersi a loro, cominciò proprio citando l'articolo 34, l'uguaglianza sostanziale nel campo dell'istruzione. Lo definì - parole sue - l'articolo più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l'avvenire davanti. Poco più oltre, nello stesso discorso, disse che, fino a che non ci sarà la possibilità per ogni uomo di lavorare, di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica. Ecco, Calamandrei aveva piuttosto chiara la nozione di merito, per come scolpita in quella Carta, che era e rimane - o dovrebbe rimanere - la Bibbia laica degli italiani. Da allora, sono trascorsi decenni, ma non sono passati a vuoto, perché, sull'eredità di quell'impianto e di quelle frasi, si sono formati movimenti di educatori e una pedagogia ricca di quell'umanità che ha fatto del diritto all'istruzione un diritto di civiltà, un traguardo di civiltà. Lo ha fatto senza mai scordarsi di quell'ammonimento ad unire merito e opportunità, come in quella sintesi di Don Milani: “Se il sapere è solo quello dei libri, chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti”, perché poi i libri contano, come conta poter viaggiare, studiare lontano da casa, anche in questo caso per chi può farlo. Un posto letto a Milano, la città delle sette università, può costare 600, 700, 800 euro al mese, a cui bisogna sommare la retta, i testi e i pasti. Ecco dove la vostra concezione del merito fa naufragio: nella rimozione della società, per come è, e della vita delle persone, per come non è e dovrebbe essere.
L'altro ieri, in una bellissima conversazione con Annalisa Cuzzocrea su La Stampa, Gustavo Zagrebelsky ha raccontato la sua esperienza di docente e, nel farlo, nell'iniziare quel dialogo, ha recuperato un passo, una frase dei Fratelli Karamazov, quando Grushenka invia il suo ultimo messaggio a Dmitrij, oramai condannato. Il messaggio è questo: un'ora sola, un'oretta d'amore, che la scuola ti ha dato e che tu hai ricevuto, può essere tenuto a mente e valere per tutta la vita che resta. Da lì, da quello spunto, un fine giurista descrive cosa separi la pura erudizione dalla cultura; da lì spiega perché la scuola non può mai divenire costrizione e sorveglianza e come lo studio, ad ogni livello, non debba alimentare competizione, ma collaborazione e socialità, insomma come sia decisivo distinguere sempre tra il merito e la meritocrazia.
Il merito, più che al potere, al kratos, dovrebbe essere collegato alla responsabilità. Il tuo merito - spiega Zagrebelsky - deriva da quel che la scuola ti ha offerto, che ora quindi devi restituire. Il punto, colleghi, è che può restituire solamente chi qualcosa ha ricevuto, non chi non ha avuto perché, in quel caso, si finisce col premiare l'ingiustizia e fare parti eguali tra disuguali. Ecco, più o meno, sono queste, secondo noi, le ragioni del vostro sbaglio. Avete scambiato l'articolo 34 della Costituzione repubblicana con un passaporto della scuola meritocratica e non aver tenuto a mente, oltre che la Bocconi e la Normale, anche la potenza del messaggio di quella casupola Barbiana nel cuore del Mugello è un ulteriore errore. Quanto a Dostoevskij, capisco non abbia una diretta attinenza col decreto che rinomina qualche Ministero, però lasciatemi credere che, se aveste potuto chiedergli un'opinione, quel genio della letteratura vi avrebbe rinviato non a giudizio, ma a settembre, fosse solo perché lui, quanto a umiliazione dei protagonisti delle sue pagine, avrebbe saputo impartirvi la più severa delle lezioni.
Comunque, immagino che approverete questo decreto - mi auguro senza stampelle da parte delle opposizioni - e immagino sappiate che lo farete col voto contrario del gruppo a cui appartengo. A quel punto, avrete cambiato il nome a qualche Ministero, ma - se i nomi definiscono l'oggetto e le intenzioni -, temiamo che sarà la premessa per un peggioramento delle cose e - il cielo non voglia - della vita di chi, non per sua colpa, si è ritrovato a partire dal fondo della fila. Peccato, perché potevate partire in un altro modo e magari vi avremmo criticato, ma sul merito; invece avete scelto di partire, adeguando i nomi un po' ai fatti vostri. Non vi stupirete se studenti, insegnanti e famiglie faticheranno a ringraziarvi. Noi ci limiteremo a bocciare il vostro decreto e lo faremo accendendo su quel tabellone dinanzi a me le luci rosse, rosse come il colore del semaforo quando ci si deve fermare. Se potete, pensateci, perché passare col rosso è sempre una grande fonte di guai.