Presidente, onorevoli colleghi, Ministra, le immagini raccolte dalle telecamere del carcere di Santa Maria Capua Vetere lasciano sgomenti. Le violenze e le umiliazioni rivelate smentiscono, in maniera drammatica, la ricostruzione che venne trasmessa al Ministero.
Non si trattò affatto di una doverosa azione di ripristino di legalità; si trattò, per riprendere le sue efficaci parole, Ministra Cartabia, di un'offesa e un oltraggio alla dignità delle persone e dei detenuti e a quella divisa che ogni uomo e ogni donna della Polizia penitenziaria deve portare con onore, per il difficile, fondamentale e delicato compito che è chiamato a svolgere. In quelle violenze, si è consumato un tradimento della Costituzione e dello Stato di diritto, e le omertà e i tentativi di depistaggio che successivamente parrebbero essere stati messi in atto rendono tali violenze ancora più gravi e inquietanti. Da quelle immagini e dalle violenze che esse descrivono, accanto alla necessità di fare, fino in fondo, chiarezza su chi le praticò, su chi le dispose e su chi le coprì, emerge l'urgenza di attuare e potenziare alcuni investimenti disposti nelle ultime leggi di bilancio. Penso, ad esempio, allo stanziamento di risorse per il cablaggio e la digitalizzazione degli istituti penitenziari, e, quindi, la predisposizione di un efficace e diffuso sistema di videosorveglianza. Penso agli stanziamenti per l'assunzione di personale amministrativo, di personale specificamente dedicato al trattamento e di personale degli uffici dell'esecuzione penale esterna, anche ampliando le piante organiche. E penso all'approvazione del piano quinquennale per le assunzioni di 1.935 unità di personale della Polizia penitenziaria, che si sommano a quelle previste nei precedenti piani di assunzioni straordinarie. Penso, inoltre, all'impegno, sul piano della formazione, per promuovere l'affermarsi, in tutti coloro che operano all'interno del carcere, di una specifica sensibilità e consapevolezza della particolare funzione a cui sono chiamati. Sia gli educatori sia il personale amministrativo sia la Polizia penitenziaria, infatti, devono acquisire, attraverso un'adeguata formazione, gli strumenti culturali e tecnico-operativi per cooperare tra loro e per assicurare ai detenuti non solo il pieno rispetto della dignità umana, ma l'opportunità di un trattamento capace di favorire il loro graduale reinserimento nel tessuto sociale.
Penso, altresì, all'attenzione che si è cercato di dedicare alle strutture materiali e all'architettura penitenziaria, anche attraverso la costituzione di un'apposita commissione che lei stessa ha prima ricordato, nella consapevolezza dell'importanza che hanno i luoghi e nella consapevolezza delle carenze che la gran parte degli edifici penitenziari presenta. Tutto ciò è importante e va concretizzato al più presto e ulteriormente rafforzato, così come alcune misure e progetti che sono stati sperimentati durante la pandemia per ridurre il sovraffollamento. Voglio, ad esempio, ricordare le misure volte a incrementare, da un lato, le licenze e i permessi straordinari per i detenuti in regime di semilibertà e per quelli ammessi al lavoro esterno e, dall'altro, l'esecuzione della pena detentiva fuori dal carcere, presso il domicilio per coloro che devono scontare una pena residua non superiore a 18 mesi, escludendo, ovviamente, i detenuti che sono stati condannati per i reati di maggiore gravità. E voglio ricordare i progetti predisposti dal Ministero e dalla Cassa delle ammende, per reperire, attraverso il coinvolgimento del Terzo settore, nuovi domicili ove rendere possibile l'esecuzione della pena fuori dal carcere anche a chi non dispone di un domicilio o di un domicilio idoneo.
Tutto ciò, come dicevo, è importante e va rafforzato, così come è importante fare chiarezza sulle dinamiche di ciascuna rivolta, sulle eventuali regie esterne e sulle morti che sono avvenute in diverse carceri, ma non è sufficiente. Le immagini raccolte dalle telecamere del carcere di Santa Maria Capua Vetere, insieme ai dati sul perdurante problema del sovraffollamento e sulla difficoltà di garantire un effettivo e diffuso accesso alle misure alternative, sollecitano una più generale e coraggiosa riflessione: insieme alla riforma del processo penale e dell'ordinamento giudiziario, è tempo di riaprire una riflessione politica e culturale sull'intero nostro sistema dell'esecuzione penale (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico) e, quindi, sull'organizzazione del Corpo della Polizia penitenziaria e dei diversi reparti speciali, sulle difficili condizioni di lavoro degli agenti, sulla loro formazione, sulle loro modalità operative, sul come prevenire ogni eventuale condotta illecita, anche rendendo facilmente accertabile l'identità di chi l'ha posta in essere, pur senza compromettere le esigenze di sicurezza.
Al riguardo, l'ipotesi dell'introduzione di un numero identificativo la cui corrispondenza al nome è conosciuta solo dai dirigenti della Polizia e tale nome può essere scoperto soltanto su richiesta motivata di un magistrato è, ad esempio, un'ipotesi di cui si discute da tempo e che merita di essere presa in considerazione e approfondita.
Al tempo stesso, occorre tornare a riflettere sul ruolo e sulla funzione dei direttori del personale amministrativo, sulle condizioni di tutti coloro che operano all'interno e all'esterno delle carceri per progettare e organizzare percorsi trattamentali. E, ovviamente, occorre riaprire una seria riflessione sulle condizioni e sui limiti della detenzione e sull'efficacia rieducativa delle attuali sanzioni, perché ne va della credibilità e dell'autorevolezza delle nostre istituzioni e perché dare piena ed effettiva attuazione alla finalità rieducativa della pena, come espressamente prescrive la Costituzione, si traduce in un beneficio non solo per il condannato ma per l'intera collettività.
Come dimostrano tutti gli studi condotti sul tema, i tassi di recidiva variano, e variano in maniera significativa a seconda che i condannati, per usare le parole del professor Glauco Giostra, abbiano subìto una pena ciecamente segregativa, orfana di ogni speranza o una pena, pur severa, ma non insensibile alla loro effettiva partecipazione a un progetto di riabilitazione che li abbia preparati a rientrare nella società civile, con l'intento e la capacità di viverci come avrebbero dovuto.
Quando lo Stato sa offrire una tale opportunità e il condannato sa meritarla la collettività ne trae, infatti, un beneficio molto significativo: da un lato, perché recupera energie sociali, tornano in libertà soggetti in grado di svolgere un positivo ruolo nella collettività e soprattutto nelle loro famiglie, quasi sempre condannate di riflesso a condurre un'esistenza di precarietà economica e stigmatizzazione sociale; dall'altro, perché modulando gradualmente la pena - ho terminato, Presidente - in impegnative misure da eseguire in comunità, la società sarà esposta a un minor numero di crimini, anche con positivi ritorni di carattere materiale.
È insomma il tempo di riprendere in mano quell'ambizioso progetto avviato durante la scorsa legislatura con l'istituzione degli Stati generali dell'esecuzione penale e di immettere nelle arterie normative, per usare ancora le parole di Giostra, la linfa di un'idea di esecuzione della pena in piena sintonia con quella prefigurata dalla nostra Costituzione (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).