Data: 
Venerdì, 16 Gennaio, 2015
Nome: 
Marietta Tidei

Signor Presidente, onorevoli colleghi, io credo che discutendo sul riconoscimento della Palestina in quanto Stato, oggi siamo chiamati a due atti dovuti, di fronte ai quali non è possibile tentennare: uno di fronte alla storia e uno di fronte alle nostre coscienze. La storia ci parla di un popolo, quello palestinese, scacciato dalle proprie terre, costretto all'interno di confini labili e variabili, che vive una condizione di marginalità giuridica, economica e sociale, perennemente esposto ad azioni militari. Per troppi anni in quella martoriata terra la pace è stata invocata ma la pace non può essere solo invocata, va costruita con azioni concrete, ripristinando soprattutto la legalità internazionale e il rispetto delle risoluzioni ONU, per troppo tempo disattese. Abbiamo oggi, in occasione di questa discussione, l'opportunità di riparare in piccolissima parte ai torti della storia, ma è necessario riportare quel doloroso conflitto al centro del dibattito internazionale e la comunità internazionale deve assumersi le proprie responsabilità molto di più rispetto a quanto abbia fatto fino ad oggi. Le nostre coscienze guardano un popolo costretto a vivere in condizioni estremamente precarie: parliamo di campi profughi nati per essere una situazione temporanea, in cui le generazioni si sono susseguite. Parliamo di situazioni in cui servizi essenziali come acqua, elettricità, assistenza sanitaria, sono un terno al lotto per molti. Parliamo di un altissimo tasso di disoccupazione e di un'alta percentuale di dispersione scolastica. Parliamo di una popolazione cui è impedito il diritto al movimento, i check point a volte possono rappresentare la differenza che passa tra la vita e la morte, quelle file interminabili di persone, vecchi, ammalati, donne incinte, che attendono di poter tornare a casa, recarsi al lavoro, all'ospedale. Parliamo di strade precluse al passaggio dei palestinesi; Jimmy Carter qualche anno fa percorrendo quelle strade non esitò a parlare di apartheid. Parliamo di persone povere, un tempo scacciate dalle loro case, costrette ad abbandonare i propri beni, private del loro diritto al ritorno – lo voglio dire – e mai indennizzate per le loro perdite. Parliamo di una nazione, quella palestinese, che vive in uno stato di precarietà e di necessità, che guarda ogni giorno il progresso economico di un popolo vicino, senza poter far nulla per il proprio sviluppo economico. Ci sono zone dei territori e di Gaza dove per motivi di sicurezza – è stati ribadito più volte in quest'Aula – non è possibile coltivare la terra, la pesca a Gaza è consentita solo fino a tre miglia dalla costa, per non parlare del blocco di Gaza e di che cosa è diventata Gaza dopo i bombardamenti dello scorso anno, dei 2.200 morti, in gran parte civili, delle case, delle scuole, degli ospedali distrutti dalle bombe. 
Abbiamo un debito con la storia e uno con la nostra coscienza, dicevo prima, ma abbiamo anche un dovere da compiere, nei confronti della pace e della stabilità del Medio Oriente. Uno Stato palestinese autonomo è il migliore antidoto contro l'integralismo. Quella palestinese è una società che, per quel che riguarda le proprie classi dirigenti, è estremamente laica ed in gran parte si è formata nelle università occidentali. La Palestina potrebbe essere, se noi la aiutiamo, se facciamo sì che le classi dirigenti diano a tutto il Paese un modello di sviluppo economico, sociale e culturale, un avamposto della laicità, dei diritti e delle libertà civili. Il nostro impegno, oltre che al riconoscimento dello Stato palestinese, deve tendere anche verso Israele, di cui va compresa l'ineludibile necessità di sicurezza, ma la storia ci insegna che la sicurezza non si consegue solo attraverso lo strumento militare.
Va profuso ogni sforzo per la riapertura dei negoziati e mi auguro che il nostro Governo, così come l'Unione europea, assuma un ruolo da protagonista in questo processo. Dobbiamo far comprendere a tutti che la Palestina in quanto Stato è un'opportunità di pace e di stabilità e che questa opportunità va sfruttata per tagliare fuori dalla scena politica quegli elementi radicali che sono i veri nemici di Israele e di tutto l'Occidente. 
La Palestina, senza una voce propria, è stata utilizzata come parola d'ordine e come simbolo di molte delle lotte antioccidentali dell'area. Quando una nazione non ha la possibilità di gridare con forza, autorevolezza ed autonomia la propria volontà di pace e di progresso, decine di protettori improvvisati si appropriano impunemente della sua bandiera. Lo fanno in maniera strumentale con l'unico fine di incitare all'odio. Io credo che questo vada evitato, ma l'unico modo di evitarlo è far si che la Palestina possa parlare, finalmente, con la propria voce. 
Solo un dialogo tra pari, garantito dall'ONU, e mi auguro anche dall'Europa, può mettere fine alla questione palestinese. Israele e Palestina devono risolvere, sedendo ad un tavolo paritario, le loro diatribe, a cominciare dai confini, passando per la cessazione degli insediamenti ebraici nei territori occupati ed il ritiro dei coloni dagli insediamenti già costruiti. Quelli di noi che hanno potuto visitare la Palestina si rendono conto da subito, percorrendo quelle strade e vedendo quegli insediamenti, qual è il senso di ingiustizia in cui sono costretti a vivere i palestinesi. 
Israele non deve vedere queste cose come una resa, perché io credo che la pace sia sempre un'opportunità. All'occupazione militare, allo Stato di polizia nei territori occupati, va sostituita una stagione di collaborazione economica: la Palestina può anche essere una terra di opportunità e potrebbe essere un'occasione di sviluppo per molti. Ma questo ha bisogno di una pace seria e strutturale, di regole certe che possono essere garantite, solo ed esclusivamente, da un partner credibile. Anche per questo c’è bisogno di uno Stato palestinese.
Il mio auspicio, Presidente, è che si possa giungere ad una mozione condivisa tra più forze politiche per dare ancora più forza all'atto di riconoscimento, e mi auguro, altresì, che si possa arrivare al voto in tempi rapidi, seguendo l'esempio di quanto già fatto da altri Stati europei e dal Parlamento europeo, e raccogliendo l'invito di quei tanti intellettuali israeliani, da Amos Oz a David Grossman, che hanno invitato gli Stati europei a riconoscere la Palestina. Io credo che lo dobbiamo ad un popolo che per troppi anni ha subito ingiustizie atroci e ha visto negati i propri diritti.