Data: 
Venerdì, 16 Gennaio, 2015
Nome: 
Vincenzo Amendola

Signor Presidente, care deputate e cari deputati, il dibattito che stiamo qui svolgendo è figlio di una riflessione, che in queste Aule – intese anche come Commissioni affari esteri con i Ministri competenti – da tempo ci ha visto uniti su un punto. Credo che i presentatori delle mozioni e quanti sono intervenuti anche in questo dibattito di oggi pongano al centro il bisogno di raggiungere un obiettivo comune: due popoli, due Stati, un accordo di pace che determini una condizione di stabilità e chiusura di un lungo conflitto, che dura da più di sessant'anni. 
Allora, io mi permetterò in premessa di fare un ragionamento con voi, di dialogare e di discutere, in vista anche del momento in cui il Parlamento presenterà risoluzioni, che io spero siano le più larghe e unitarie possibili, come anche è avvenuto al Parlamento europeo. Si deve anche riflettere con il Governo italiano e con la nuova commissaria per la politica estera Federica Mogherini, che ha iniziato proprio il suo incarico simbolicamente con una visita a Gerusalemme e a Ramallah. Si deve riflettere su come raggiungere l'obiettivo, su quali sono le condizioni di stallo per cui non si avvia un negoziato, su quali sono le condizioni nel contorno politico e tra i grandi attori che sono decisivi per raggiungere un negoziato che porti a una soluzione, quella dei due popoli e dei due Stati, e su qual è il ruolo che dobbiamo giocare, anche in virtù di un passato recente di questo conflitto che ha visto tanti errori. 
Io vorrei che su questo tema dicessimo parole di verità, non facendo una coltre di argomenti che ci sviano un po’ dalle difficoltà per raggiungere l'obiettivo, senza avere reticenze anche su alcuni legami e analisi fatte in quest'Aula sulla condizione attuale del mondo, del Medio Oriente e anche dell'eversione terroristica. Assolutamente nessuno di noi pensa che ci sia un'equazione rispetto al blocco, rispetto alla condizione di una mancanza di negoziato tra Israele e Palestina. Ma ciò costituisce un contorno, un elemento di contorno su cui dobbiamo riflettere. Sappiamo benissimo che lo stallo e la condizione del popolo palestinese tra Gaza e la Cisgiordania alimenta la rabbia, una rabbia tra il mondo arabo mussulmano per una condizione di ingiustizia, di mancanza di una prospettiva e di dignità. 
Come sappiamo benissimo che in questo contorno, nella storia anche odierna, senza fare equazioni, senza mettere sul piano della bilancia pesi differenti o pesi uguali, quello che sta avvenendo in questi giorni produce nella coscienza del popolo israeliano paure, timori rispetto a quello che si vede non solo in Medio Oriente, ma anche rispetto a quello che si è visto a Parigi. 
Io non lo dico per fare equazioni, ripeto, perché in questa fase della storia moderna le parole vanno pesate. Ma non comprendere che quello che stiamo vivendo, il grande passaggio nella storia del Medio Oriente ha influenze sugli umori di popoli che devono fare la pace potrebbe essere un grande rischio. Non è cautela. Io credo che questo Parlamento, nel votare le mozioni, ma soprattutto nel sostenere l'azione di Governo italiano ed europeo (Paolo Gentiloni e Federica Mogherini) debba comprendere le difficoltà prima di dare delle soluzioni. Tutti noi, ripeto, siamo uniti dall'idea di due popoli e due Stati. Il punto nel Medio Oriente di oggi, nella comunità internazionale di oggi è come arrivarci. Partiamo da dei presupposti storici. Noi veniamo tutti da una sconfitta, ossia che l'iconografia del 13 settembre 1993, con Yitzhak Rabin e Yasser Arafat che si stringevano la mano alla presenza di Bill Clinton, era un qualcosa che nel nostro portato ci dava un sollievo. Infatti, pensavamo che finalmente uno dei conflitti centrali anche nella definizione di una coesistenza pacifica al di fuori dei confini di Israele e Palestina aveva avuto una fine e che quella stretta di mano sancisse che la pace è sempre possibile, è sempre necessaria e si può raggiungere. Noi veniamo da quella storia, dal 1993, ma subito dopo abbiamo visto che nel corso degli anni il sollievo provocato da quella stretta di mano tra uomini che sceglievano la pace naufragò lentamente: il naufragio del negoziato tra Arafat e Barak nel luglio del 2000 e poi la ripresa della seconda intifada, quella tra il 2000 e il 2005, che ha visto morti, ha visto esplosioni, ha visto l'erigersi di un muro della divisione e ha visto distanziare la classe dirigente politica palestinese e israeliana, lontano dalle parole, invece, coraggiose che erano state pronunciate. E io dico di più, venendo agli anni nostri: questa distanza, questo solco che si è prodotto fino al Medio Oriente di oggi, nell'ultimo decennio, nel decennio delle guerre per esportare la democrazia, nel decennio dei quartetti, nel decennio di un'Europa spesso assente, ha fatto sì che anche il conflitto israelo-palestinese, con la sua rilevante interferenza sul blocco dei rapporti tra il mondo israeliano e arabo nel suo complesso, con la Lega Araba, uscisse dai radar, dall'agenda, venisse derubricato, quasi come fosse un conflitto inarrestabile, irrisolvibile, con altre priorità che si producevano, facendo perdere anche di peso un dibattito internazionale, perché fino ad allora la pace di Camp David era la volta per individuare i meccanismi di risoluzione dei conflitti nel mondo. E quella caduta di peso, quella caduta di quella forza fino al riemergere di uno scontro, ha prodotto che spesso la comunità internazionale ha messo da parte qualcosa che veniva considerato irrisolvibile. 
Noi lo sappiamo bene e penso che questo Parlamento lo sa, non solo nelle immagini della storia di questo conflitto. Una grande immagine è quella dell'8 giugno 2014, con Papa Bergoglio, insieme a Shimon Peres e Abu Mazen, che piantano qui a Roma, in un gesto simbolico, una pianta della pace. Ma sappiamo benissimo, proprio nel seguirsi dei fotogrammi, che pochi mesi dopo, nell'agosto del 2014, abbiamo avuto l'ennesima guerra di Gaza, una guerra simmetrica tra Israele e Hamas, che ha prodotto più di 2 mila morti e ha prodotto tuttora a Gaza, per chi è vittima di uno scontro in cui non è responsabile (i civili, gli ultimi, gli inermi, i bambini) una condizione drammatica in una delle aree del pianeta più povere e più isolate. E noi sappiamo bene che in questa fase anche i tentativi che si sono succeduti sono falliti, come il tentativo di John Kerry, dell'amministrazione americana, che in sei mesi voleva portare a una risoluzione chiudendo le parti in una stanza, quasi prendendo a sé il mandato della comunità internazionale dopo la caduta del quartetto, dopo la caduta di tavoli negoziali aperti. Abbiamo visto che anche quel tentativo, anzi ce l'hanno detto spesso i protagonisti, non ha portato a niente e soprattutto non ha riaperto un margine, una speranza e un muro. Ma io vorrei ancora insistere: il Medio Oriente di oggi non può non essere letto per comprendere come noi arriviamo all'obiettivo di due popoli e due Stati. Faccio alcuni esempi. È stato risolutivo, dopo la guerra di Gaza, il ruolo dell'Egitto per cercare, insieme alla comunità internazionale, a Paesi europei, di fermare Hamas, di arrivare a una tregua e di far sì che la comunità potesse, anche con la cooperazione internazionale, dare sollievo in quella terra martoriata. Ma sappiamo anche che dei ruoli di altri Paesi della regione, nel momento in cui gli Stati Uniti hanno costruito un nuovo posizionamento internazionale, spesso molto più lontano dalla tradizionale deterrenza nella risoluzione dei conflitti medio-orientali, spostando l'attenzione e non solo i militari verso altre zone del mondo, con un indebolimento dell'Europa negli ultimi quattro anni. Ciò ha fatto sì che anche altri attori regionali cambiassero prospettiva. È un elemento di analisi. Penso alla Turchia che storicamente era il grande alleato di Israele. Facevano esercitazioni militari comuni. Oggi forse è uno dei Paesi che usa, non solo una retorica, ma anche un'azione politica seriamente e duramente contraria a Israele. E sappiamo benissimo che nel Medio Oriente di oggi quelli che sono gli effetti di una guerra dentro l'Islam fanno sì che, non solo tra il mondo sunnita e il mondo sciita, ma all'interno del mondo sunnita, le priorità, l'agenda, le atrocità delle guerre per procura portano a qualcosa di altro. 
Ci faceva riflettere Domenico Quirico in Commissione esteri, dicendo, con un paradosso: «Il califfato non prevede né Israele, né Palestina, prevede una nuova mappa del Medio Oriente». 
Nel mondo sunnita, cioè, ci sono nuove e convulse vicende, che fanno sì che questo quadro, che ho provato a descrivere, renda l'azione diplomatica e politica dei Governi italiani ed europei molto più complessa anche rispetto al passato, non solo perché il tempo ed il suo scorrere, le difficoltà, le guerre ed i conflitti hanno creato solchi più grandi, ma perché il quadro degli interlocutori con cui noi dobbiamo spingere per arrivare ad un negoziato di pace, cambia. In alcuni aspetti anche migliora, perché l'iniziativa di pace araba, quella spinta dalla Lega Araba, spinta da Paesi come l'Egitto, facilitano il consenso a creare le condizioni perché si firmi un accordo, cosa che non avvenne, per esempio, quando ci furono i tentativi di Arafat, sia con Barack, all'epoca del Camp David 2, e facilita anche la condizione per Israele per arrivare ad un accordo che non solo pacifichi il rapporto con la Palestina, ma con il mondo attorno a sé. Mi riferisco per esempio alla Giordania, che in questo contesto è sospesa tra un conflitto nel mondo sunnita, come dicevo, con Daesh, e si trova anche a dover difendere i luoghi sacri, che sappiamo sono l'epicentro di un nuovo possibile scenario di conflitto. 
Allora, se questo è il contesto in cui noi ci muoviamo, con una positiva ripresa anche dovuta a degli shock e a delle tragedie dell'Unione europea, che riprende coscienza che attorno a sé, nel Mediterraneo, e quindi partendo dai conflitti non risolti, è necessario ricostruire un'azione diplomatica ed un'azione positiva, non solo per i soldi e le risorse che noi spendiamo per la cooperazione e gli aiuti, ma per la necessità di portare pace e stabilità in un contesto che apre a nuovi conflitti, e sappiamo anche che la collaborazione con altre potenze necessarie ed alleate dentro al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è necessaria, ebbene, se questo è il quadro, io credo che le risoluzioni ed il dibattito che facciamo oggi e che continueremo, siano centrali non solo per affermare principi, ma per individuare con il Governo italiano una strategia. Questo è l'augurio mio più grande. 
Io non scendo in polemiche, perché quando si parla di politica estera, a volte, tra i partiti si utilizzano argomenti che non c'entrano niente col merito delle questioni, ma credo che l'utilità di questa nostra spinta debba essere nel rafforzare l'azione del Governo italiano e dell'Unione europea congiuntamente verso una soluzione. 
Noi ci siamo interrogati e continuiamo ad interrogarci, come Partito Democratico. Non a caso abbiamo organizzato un viaggio, come delegazione, proprio in preparazione di questo dibattito, guidato dal nostro capogruppo Speranza e siamo andati lì ad interloquire con gli attori, nel mondo israeliano e nel mondo palestinese, su come riaprire una possibilità tra le classi dirigenti, una possibilità di un negoziato, di uno spiraglio. Infatti ci sono alcuni elementi, figli anche della terza guerra di Gaza, che in un contesto drammatico portano un'urgenza. Li avevamo analizzati anche in un viaggio della Commissione esteri presieduta da Cicchitto proprio a fine luglio, durante la guerra di Gaza. 
Sappiamo benissimo che la destra israeliana guidata da Netanyahu per la prima volta, con le redini del Governo ha portato a compimento uno dei più grandi elementi di divisione col mondo progressista israeliano. Yitzhak Rabin diceva sempre: «Bisogna fare la pace e combattere il terrorismo come se il terrorismo non esistesse e combattere il terrorismo come se la pace non esistesse». Era un elemento fondante della sua scelta, su cui lui ha pagato con la vita. La destra israeliana, invece, ha sempre pensato che la soluzione militare fosse l'ultima e la prima condizione per portare non solo sicurezza, che è sacrosanta per Israele, ma per portare ad una condizione di pacificazione. 
Noi sappiamo benissimo – e purtroppo con la tragedia di questa ennesima guerra lo abbiamo visto – che questa soluzione non va da nessuna parte e ci auguriamo che con le prossime elezioni in Israele, che sono convocate da qui a poche settimane, anche in Israele si apra un dibattito, si apra una discussione, si presentino varie opzioni per il rispetto e per l'affetto che abbiamo per quel Paese, ma soprattutto per far proseguire su un'idea, che io credo sia comune a tutti quanti noi, della soluzione pacifica ai negoziati ed ai conflitti.
E, allo stesso tempo, in questa delegazione abbiamo discusso con i nostri interlocutori palestinesi una strategia messa in campo dalla dirigenza di Al-Fatah per internazionalizzare gli elementi del conflitto. L'appello al tribunale penale internazionale, il tentativo con una risoluzione al Consiglio dell'ONU che, come sappiamo, nel periodo dicembre-inizio gennaio non ha portato a buon fine. 
Io vorrei fare una riflessione tra di noi perché sembra quasi che in Italia ci sia una certa timidezza a discutere. Lo dico con rispetto anche agli amici che ho sentito, ai colleghi che presenteranno risoluzioni: suggerirei un attimo di riflessione. L'Italia non è timida e suggerirei un attimo di riflessione anche su questa idea secondo la quale noi dovessimo quasi seguire un corso prestabilito. Già nel 29 novembre 2012 con il Governo Monti, che non era un Governo di centrosinistra, ma che aveva uno schieramento largo delle forze, ratificando la posizione italiana che portò allo status di osservatore dell'ONU per l'Autorità nazionale palestinese, facemmo un passo enorme verso la risoluzione e, potrei dire, anche nella spinta a una risoluzione, vale a dire che noi non partiamo da zero. Questo Parlamento nel 2012, con le forze che hanno votato nel consesso ONU, ha permesso questo nuovo status per l'Autorità palestinese e ha permesso anche di far sì che le azioni legali e internazionali di diritto legale che adesso Abu Mazen sta portando avanti avessero un effetto. Non lo dico per sminuire il tema del riconoscimento, anzi (e ci verrò da qui a poco) ma perché quel passaggio ha aperto già un canale nella costituzione di una risoluzione anche legale dello Stato. Non partiamo da zero in questo Parlamento e quella scelta del Governo Monti è una scelta che sostenemmo non soltanto come Partito Democratico allora, ma la sostenne anche Forza Italia, la sostennero altre forze politiche. 
Tornando al tema principale, quale direzione, quale azione e quale principio ? Io non sottovaluto la risoluzione del Parlamento europeo perché è stata una risoluzione approvata da tutte le forze politiche ma soprattutto non la sottovaluto perché è un'azione a sostegno di un nuovo operato della Commissione europea di cui noi dovremmo essere orgogliosi per il ruolo dileadership che incarna Federica Mogherini, ma per un nuovo ritrovato spirito di azione. Ritengo che quello che ci debba legare tutti non è la retorica di evocare l'Europa: è la presenza ritrovata dell'Unione europea. Quando siamo stati lì con la nostra delegazione, il rappresentante ci diceva che l'Europa contribuisce alla sussistenza dell'Autorità nazionale palestinese. Adesso inizia a fare politica e lì fare politica significa non avere un ruolo di ingerenza o di mediazione di principio ma di mediazione reale tra le classi dirigenti verso una soluzione, parlando con gli interlocutori e trovando dei campi negoziali che soddisfino le realtà. Questo significa venir meno ai principi del diritto internazionale della legalità ? No, perché il presupposto sia per l'Unione europea sia per il Governo italiano è che l'accordo negoziale debba prevedere anzitutto anche una fotografia dell'esistente. Dico, ad esempio – ed è chiaro e sarà parte della risoluzione – che per il diritto internazionale le colonie, i settlement in territorio di Cisgiordania sono illegali così come anche l'occupazione intesa come presenza militare in Cisgiordania, che limita i diritti e le possibilità del popolo palestinese di muoversi, è illegale. Questo sta scritto nelle risoluzioni dell'ONU ma deve vivere anche in un'azione politica perché deve portare ad un accordo negoziale che rispetti il principio e che trovi anche la possibilità delle parti di arrivare ad una propria soluzione. Guardate, cari colleghi, come voi, anche io ho letto sia la risoluzione inglese sia quella spagnola sia quella francese sia quella del Parlamento europeo. 
I testi sono importanti perché poi gli si dà un titolo generale: riconoscimento. Però i testi che sono stati votati – oserei dire nel caso inglese anche la consequenzialità tra il testo votato da Westminster e il voto espresso nel Consiglio di sicurezza, ma qui apriamo un altro dibattito – parlano tutti di un legame necessario tra accordo di pace e riconoscimento della Palestina. Noi in quel viaggio e nell'interlocuzione che abbiamo quotidianamente anche con gli amici dell'ambasciata israeliana e dell'ambasciata palestinese, che salutiamo, questo tema lo affrontiamo non solo in termini di principio, ma perché sappiamo bene che la spinta vera di tutte quelle mozioni e del dibattito che si è aperto è, innanzitutto, su quando aprire il tavolo negoziale per arrivare a due popoli, due Stati e a soluzioni sui maggiori capitoli del conflitto che possano portare pace e convivenza, soprattutto adesso che il quadro che descrivevo prima, sia del Medio Oriente, sia della comunità internazionale, fanno sì che i confini e le paure che noi abbiamo attorno a questo conflitto si allarghino e si approfondiscano. 
In tutte queste risoluzioni il tema di quando riconoscere lo Stato palestinese, se sia legato temporalmente, dopo l'accordo negoziale o prima, esiste. Io lo provo a spiegare e abbiamo provato, e tentiamo ogni giorno a spiegarlo in un dialogo fecondo con i nostri interlocutori; e mi colpì molto la frase del segretario generale dei laburisti israeliani, capo del gruppo per due popoli, due Stati alla Knesset, che mi disse: la mia speranza vera è che Israele riconosca per primo la Palestina, prima di tutti voi Stati europei o della comunità internazionale. Comunque, il tentativo di legare questi due punti con una scansione temporale, capisco che sia un assillo, ma se ci pensiamo bene, se non vengono coordinati, per arrivare alla stessa finalità, rischiano o di diventare una petizione di principio, e dalla petizione di principio magari abbiamo sollievo per la nostra battaglia, per il nostro valore e per la nostra concezione, ma di non essere efficaci per l'obiettivo che ci poniamo. 
Io, e credo tanti di noi del gruppo democratico, ma anche di questo Parlamento, non abbiamo nessuna preclusione, anzi, ne discuteremo nella risoluzione e lo valuteremo bene nella profondità delle parole, ma l'interrogativo non è se il riconoscimento precede o succede all'accordo negoziale, il tema è come ci arriviamo veloci all'accordo negoziale. In questo caso è bene utilizzare la spinta al riconoscimento dello Stato palestinese forti di un'esperienza che è quella del 2012, di quando dichiarammo la Palestina Stato osservatore a livello dell'ONU. 
Io vorrei che su questo non ci fosse un dibattito ideologico che a volte sembra assalirci nella comunicazione quotidiana, ma ci fosse una stretta unitaria del Parlamento attorno al Governo italiano nel sostegno all'azione dell'Unione europea ritrovata per arrivare definitivamente a un accordo negoziale, adesso che ci sarà un risultato elettorale in Israele, adesso che l'azione all'internazionalizzazione anche di Abu Mazen e di Al-Fatah segnano un chiaro discrimine e questo lo dico come lo dicemmo già nei giorni della guerra, con le aspirazioni, le parole d'ordine e anche le scelte dell'organizzazione che invece vive e blocca anche spesso il futuro di Gaza che è Hamas. Allora, per continuare a sostenere questo obiettivo della creazione, io suggerirei che il nostro operato, così come ne abbiamo discusso tante volte, sia finalizzato a promuovere il riconoscimento della Palestina quale stato democratico, secondo un'azione concordata su cui ognuno di noi – ho sentito il dibattito in quest'Aula – non ha assolutamente dubbi che sia la finalità. 
Ci si chiede di ragionare bene, noi lo facciamo, perché è evidente che un Governo e la sua maggioranza parlamentare devono assumere atteggiamenti e azioni concrete, ma se c’è consapevolezza della strategia e se questa strategia non è finalizzata solo a discutere tra di noi, ma a dare atti concreti e seguito concreto, io credo che la forza del nostro dibattito sia superiore. Perché, anche durante questo semestre, abbiamo dimostrato che la politica estera può rompere dei tabù burocratici. Prima dell'elezione di Federica Mogherini, il nostro Premier aveva già rotto dei tabù viaggiando a nome dell'Europa nei posti che più sono frutto e figli di guerra, come, ricordo, per esempio, il viaggio a Erbil, in Kurdistan e a Bagdad, durante l'agosto complicato dell'anno scorso con gli attacchi di Daesh sul fronte curdo e dentro l'Iraq. È possibile rompere dei tabù e non farci ricascare in una logica, che abbiamo visto prima, di blocchi, di quartetti che si riunivano o di tavoli che venivano convocati per soluzioni. La nostra amicizia con lo Stato di Israele e con l'Autorità nazionale palestinese non è solo un'amicizia di equidistanza ma di forza, per arrivare ad una risoluzione del conflitto, per arrivare subito alla ripresa di un accordo negoziale. E credo che i tempi e l'urgenza siano molto alti, per il quadro che abbiamo discusso e che abbiamo descritto e anche, se mi permettete, per un elemento che ha preoccupato tanti di noi in questo periodo. Si è detto e alcuni osservatori addirittura descrivono il rischio di una terza intifada che abbia caratteri più religiosi come l'attacco alla sinagoga. Gli scontri che avvengono quotidianamente tra Gerusalemme e la West Bank preoccupano per una caratterizzazione che sarebbe negativa, per le condizioni descritte prima, dando un carattere religioso a un conflitto, che è un conflitto tra popoli, tra destini, per una sola soluzione. 
Noi abbiamo terminato il viaggio simbolicamente, in una scuola alle porte di Gerusalemme, una delle quattro scuole che esistono in tutto Israele dove, dalle scuole elementari fino al liceo, vanno insieme gli arabi di Gerusalemme Est e i ragazzi ebrei di Gerusalemme. Studiano sia in ebraico sia in arabo; studiano la storia dei propri popoli, del destino della storia comune; discutono del futuro, litigano, crescono insieme. Andammo lì, grazie all'ambasciata, perché, poco tempo prima, dei fanatici religiosi avevano attaccato quella scuola con bombe incendiarie. Abbiamo vissuto in quella scuola un'esperienza di normalità, di possibilità. La pace non è una discussione solo tra chi può, tra chi si pone su atti negoziali, ma è una quotidianità che si può realizzare, anche nel concreto e soprattutto nel vissuto delle popolazioni che sono dentro questa storia. 
Per l'urgenza della storia moderna della comunità internazionale del Medio Oriente, per il portato storico e le sofferenze del passato, credo che questo Parlamento, con un'analisi di politica e di vocazione geopolitica del nostro Paese, facendo un dibattito approfondito, come ha chiesto la Commissione esteri, debba ritornare contemporaneamente, ma nello stesso quadro, su una mozione che spero unisca – e noi del Partito Democratico contribuiremo a questo – il tema degli accordi di pace al riconoscimento, come abbiamo già annunciato. Penso che sia un elemento che rafforzi questo Parlamento, la vocazione dell'Italia, ma soprattutto la nostra vocazione pacifica alla soluzione dei conflitti.