A.C. 1457
Grazie, Presidente. La legge che ha istituito il Giorno del Ricordo compie 20 anni: fu votata da quasi tutto il Parlamento, dopo che, a lungo, sulla pagina sanguinosa di quel confine era calato il silenzio. Quel mutismo accomunava il partito di Governo a Roma e l'opposizione comunista, che sulle vicende dell'Alto Adriatico non poteva dirsi spettatrice.
È stato scritto che l'Atlantico e il Pacifico sono i mari delle distanze, il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l'Adriatico è il mare dell'intimità. Ma ci si può odiare, nell'intimità? Purtroppo, sì, con una premessa: che non si comprendono le violenze del Novecento in quel triangolo dell'Europa, se ci si rinchiude in una storia nazionale, che sia quella italiana, slovena o croata. La realtà è che, a cavallo del confine orientale, prima, durante e dopo la guerra, si sono prodotti veri e propri fenomeni di sostituzione nazionale, il che non appaia una reductio, perché dietro la formula si sono consumati drammi familiari e collettivi, prodotti da ideologie e regimi diversi. Dapprima, il fascismo decise l'allontanamento di molte migliaia di cittadini sloveni e croati dalle regioni dove erano nati e vissuti, poi furono gli Accordi di Parigi, il 10 febbraio 1947, a indurre l'esodo dall'Istria di decine di migliaia di italiani, costretti a lasciare case e beni.
La verità è che nella lotta politica può sempre esserci spazio per i compromessi, in quella nazionale no. Il nazionalismo è il concime che dissemina odi e contese, destinati, prima o poi, a deflagrare, e così è avvenuto, colleghi, in una storia che va conosciuta, ma conosciuta tutta. Il 13 luglio 1920, le squadre fasciste incendiano l'Hotel Balkan, la sede di organizzazioni e istituzioni slave a Trieste: è l'avvio di una persecuzione. Gli sloveni si trovano catapultati nell'incubo, che si prolungherà per il quarto di secolo a seguire: 134 edifici incendiati, circoli di cultura, case del popolo, camere del lavoro. Nell'aprile 1927, il regime fascista impone la restituzione in forma italiana dei cognomi deformati in passato dalle autorità austriache. Diciamo che il tentativo di sradicare l'identità di un popolo avanzò lungo il doppio binario di un'assimilazione delle anime mai sconnessa da una violenza sui corpi. Il fascismo fu questo e taccia per sempre chi rivendica che fece anche cose buone. Tra le vittime di quella repressione, moltissimi cattolici, parroci, preti, vescovi e l'esplosione dell'antisemitismo in una città, Trieste, ricca di una comunità ebraica tra le più importanti. In quel contesto, un ordigno venne fatto esplodere il 10 febbraio 1930 presso Il Popolo di Trieste, Quotidiano Fascista della Venezia Giulia, uccidendo un redattore. Dopo un processo farsesco, seguivano quattro condanne a morte, uno dei quattro Ferdo Bidovec, era di madre italiana, come peraltro slovena era la madre di Guglielmo Oberdan, a conferma che, per i patrioti di frontiera, il sangue non conta un bel nulla. I quattro vennero fucilati il 6 settembre 1930 presso il poligono di Basovizza, lì il Presidente Mattarella e quello sloveno Borut Pahor si sono raccolti, mano nella mano, davanti alla lapide e lo hanno fatto subito dopo avere reso omaggio alla più nota Foiba di Basovizza. La Seconda guerra mondiale scompose una volta di più assetti, etnie e comunità. L'offensiva tedesca sulla Jugoslavia scattò il 6 aprile 1941, Mussolini vi si accodò, in una pagina tra le più cruente. Sul fronte opposto, i comunisti guidati da Tito animarono la Resistenza anti-tedesca. Tra il 1941 e 1943 le azioni italiane contro le formazioni partigiane non esitarono a reprimere quantità di civili: non furono danni collaterali, ma una strategia tesa a isolare qualunque focolaio di resistenza; internamenti di massa condussero a costruire campi in grado di concentrare migliaia di persone, come a Gonars, in Friuli o nell'isola di Arbe, in Dalmazia.
Sono solamente cenni, colleghi, ma servono a dar conto di un conflitto che sfocerà nella pagina ultima, quella che ci riconduce a questo giorno del ricordo. Dopo l'8 settembre, anche la Venezia Giulia conosce la sorte del resto del Paese: comandi militari e truppe allo sbando. La controrepressione non è meno violenta e spesso sfugge al controllo delle autorità partigiane, con atti di sadismo e violenza cieca. L'uccisione di Norma Cossetto, studentessa istriana, seviziata e infoibata nell'autunno del 1943, resta una delle pagine più atroci di quella stagione. Alla fine della guerra, in quel lembo del continente, tra infoibati e uccisi dai nazisti e fascisti, non c'era famiglia che non piangesse un lutto. Nella parte finale della guerra, il Governo di Salò non aveva più alcun potere su sindaci e prefetti e le violenze, una volta di più, furono terribili. Nell'aprile 1944 i tedeschi compiono una rappresaglia nel villaggio di Lippa, in provincia di Fiume: una colonna scortata da ufficiali italiani entra in paese e uccide chiunque incontri, per lo più sono donne, anziani e tre bambine che hanno meno di un anno, alla fine le vittime saranno 280. E dall'ottobre del 1943 all'aprile del 1945 opera a Trieste la Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio nazista nel nostro Paese, gestito, colleghi, da SS tedesche e austriache, che annovera specialisti del ramo, carnefici responsabili di buona parte della Shoah in Polonia, Kurt Franz, il sadico torturatore di Treblinka e Odilo Globočnik, a cui si ascrivono almeno un milione e mezzo di morti. Circa 700 ebrei triestini passeranno da quelle celle, se ne salveranno una ventina. Il 1° maggio 1945 i partigiani jugoslavi occupano Trieste. La tecnica che usano non è quella dei rastrellamenti di massa, ma gli arrestati sono comunque migliaia. Non servono accuse provate, basta un sospetto e l'esito è una sequenza di uccisioni, in molti casi senza alcuna imputazione, tanto meno colpa, il che spiega i motivi che condussero a morte, finendo infoibati, anche militanti della Resistenza triestina. L'esodo dall'Istria e dalla Dalmazia - ciò che il 10 febbraio ricordiamo ogni anno - è l'ultimo capitolo – l'ultimo - di questa storia tragica. L'esodo fu dramma vero, strappo e ferita non ricucibile.
Con gli anni, i passi nella direzione di una pacificazione si sono compiuti. Per il poco che vale, mi recai, da ragazzo, segretario dei Giovani comunisti italiani, a deporre un mazzo di fiori sulla Foiba di Basovizza: correva l'anno 1989. L'anno prima, per la prima volta, lo aveva fatto il collega Piero Fassino, che è seduto oggi alla mia sinistra. Più tardi, gesti molto più autorevoli sono seguiti: dalla visita, ricordata, di Sergio Mattarella e Borut Pahor, all'incontro del 2010, quando i Presidenti di Italia, Slovenia e Croazia resero omaggio al Narodni dom, l'ex Hotel Balkan e al Monumento all'esodo istriano-dalmata.
Ecco, colleghi, ciò che noi vogliamo rammentare in questa giornata è il bisogno di non cancellare il passato, tutto il passato, perché farlo equivale a gettare le basi che possa ripetersi. Ma non cancellare - già l'ho detto - equivale a conoscerlo e, soprattutto, a capirlo e a rispettarlo, colleghi, senza demoni in corpo, senza fantasmi a inseguire il presente, senza la paura di misurare la storia, i suoi torti e le sue ragioni.
Per chi come me, come Debora Serracchiani, o come altri in quest'Aula, è nato o vive lassu, tutto ciò non può limitarsi ad un augurio, tutto ciò è semplicemente un dovere dell'anima. E allora è bene alimentare tra i più giovani, con borse di studio e viaggi di istruzione, una conoscenza che possa farsi coscienza storica e maturazione civile. Su questa frontiera voi ci troverete sempre su questi banchi, consapevoli e disponibili, ma senza che alcuna parte pensi, dopo tanti decenni, di piegare la storia a proprio vantaggio, offrendo del racconto di quelle pagine alcuni capitoli solamente e sbianchettando tutto il resto perché, colleghi e colleghe, quello sì, sarebbe l'ultimo sfregio alle vittime di un odio coltivato nell'incoscienza di guasti profondi. Vedete, ci sono luoghi dove troppa storia ha avuto a disposizione troppa poca geografia e quel lembo dell'Europa è sicuramente uno di questi luoghi. Facciamo in modo che, almeno dentro quest'Aula solenne, tanta tragica storia possa dar vita ad una cultura della conoscenza, della consapevolezza, del rispetto, non per approdare ad una memoria condivisa, ma per non calpestare mai più le memorie di chi ha sofferto lutti, odi e tragedie. Ma “rispetto”, colleghi e colleghe, significa anche non stravolgere mai le posizioni degli altri. Ieri il Vicepresidente di questa Camera ha accusato il Partito Democratico, questi banchi e la mia persona di negazionismo sulle vittime delle foibe e sull'esodo di istriani e dalmati. Ha accusato me personalmente di volere - lo cito – “la surreale celebrazione di un dittatore sanguinario, artefice della pulizia etnica attuata senza pietà sul confine orientale”. Vedete - chiudo Presidente - il punto non è che in Commissione, come gli atti testimoniano, io e altri colleghi abbiamo espresso con chiarezza una posizione esattamente opposta - nessun negazionismo e nessuna rimozione da parte nostra di quelle pagine tragiche, di quei crimini scolpiti -, il punto è che il Presidente Rampelli non si fa scrupolo di vergare frasi violente quanto profondamente false. E siccome oramai anche i giurì d'onore sembrano rispondere per voi a una logica di possesso, a me non resta altro oggi che rivolgermi a quest'Aula con la modestia e l'onestà di una storia per dire che su questi banchi non siedono negazionisti di sorta, ma casomai qui siedono gli indegni eredi di quei veri patrioti che ottant'anni fa hanno riconsegnato l'Italia alla libertà e alla democrazia e hanno consentito, con il loro sacrificio di patrioti al Vicepresidente della Camera di offendere e calpestare la dignità di un membro di questa Assemblea. Io, onorevole, con questo spirito annuncio e comunico il nostro voto e lo faccio con l'amarezza verso chi adopera la falsificazione e l'insulto, forse rimpiangendo qualcun altro che, da quel banco laggiù, un giorno ebbe a dire di voler trasformare quest'Aula sorda e grigia in un bivacco per i suoi manipoli. Per questo e con questo spirito democratico, repubblicano e antifascista, voteremo questo provvedimento.