Data: 
Lunedì, 26 Maggio, 2014
Nome: 
Giorgio Zanin

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Signor Presidente, la mozione che presentiamo oggi come partito si colloca dentro un contesto temporale molto chiaro ed impegnativo. Expo 2015 ha il suo cuore nel titolo: «Nutrire il pianeta, energia per la vita». Dunque, sprecare cibo significa sostanzialmente sprecare energia vitale. Oltre agli obiettivi del millennio, l'orizzonte del pianeta e dell'aumento della popolazione, che la FAO ha recentemente descritto nella sua audizione in Commissione alla Camera in vista di Expo 2015, impone a tutti la capacità di scegliere le strade per assicurare agli essere umani del pianeta la migliore possibilità di sopravvivenza, il diritto ad una alimentazione sana ed adeguata per tutti, dettando un'agenda che non può che partire da un fortissimo: «Primo: non sprecare».
  A leggere i dati viene in mente quasi uno scricchiolio di una porta di un film dell'orrore, si immagina sempre il peggio. Infatti, mentre il numero di persone denutrite sulla terra sfiora il miliardo, la quantità di cibo sprecato ammonta a 222 milioni di tonnellate: sono numeri che fanno veramente una grande impressione e che sono una manifestazione della diseguaglianza evidente su cui cammina oggi l'economia del pianeta.
  Le ricadute di tale spreco hanno anche una incidenza sia sulla condizione climatica del pianeta, con la produzione di gas ad effetto serra per cui per ogni chilogrammo di cibo sprecato si può calcolare la produzione di ben 4,5 chilogrammi di CO2 equivalente, sia sulle risorse idriche e sulla biodiversità. Basti pensare che, per produrre il cibo sprecato, si impiegano più di 250 km cubi di acqua all'anno e 1,4 miliardi di ettari di terreno, con 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra. Cifre da capogiro che rendono evidente la necessità di lavorare da subito per abbattere quel 50 per cento di spreco che viene a maturare nelle fasi della produzione, raccolta e stoccaggio del cibo e che viene anche, per un 45-46 per cento, dalle fasi della lavorazione, della distribuzione, del consumo.
  Dunque, non c’è armonia, né tutela dei diritti in questa faccenda; è evidente perciò che lo spreco di cibo è una manifestazione della perversione del sistema di sviluppo centrato soltanto sul consumo massificato, quantitativo piuttosto che qualitativo: una perversione che riguarda le diverse fasi del ciclo dei prodotti agroalimentari, dalla produzione al consumo finale.
  Secondo lo studio della Commissione europea del 2011, la media pro capite di cibo sprecato raggiunge la cifra incredibile di 180 chilogrammi: ma si tratta della media europea – ricorderebbe Trilussa – che passa dai 579 olandesi ai 44 della Grecia, con l'Italia a quota 149 chili, signor Viceministro ! Valore decisamente superiore alla media mondiale, che viaggia tra i 95 e i 115 chili.
  Gli sprechi domestici giocano un ruolo decisivo, con una cifra intorno al 42 per cento del totale: sono dati che fanno riflettere, se si immagina che equivalgono al 25 per cento in peso della spesa alimentare delle famiglie, quasi 76 chilogrammi di spreco di cibo pro capite.
  Seguendo dunque la classifica dell'origine degli sprechi del cibo, le trasformazioni del cibo incidono per il 39 per cento, i servizi per la ristorazione arrivano a sprecare il 14 per cento e la distribuzione incide infine per 8 chilogrammi pro capite, la distribuzione stessa, essendo al centro del processo, è responsabile anche per le fasi a monte ed a valle della filiera.
  In Italia – è questo il dato che più ci interessa –, secondo alcune stime dell'Osservatorio sugli sprechi alimentari, nel 2011 lo spreco pare essere costato alle famiglie oltre 1.500 euro: sono cifre che francamente stento a misurare. Si tratta di circa 20 milioni di tonnellate di cibo, con un valore complessivo di oltre 9 miliardi di euro e un peso sul prodotto interno lordo che supera il mezzo punto percentuale.
  Non sono dunque numeri con i quali possiamo scherzare né fare le cose «per immagine»: si deve in qualche modo pensare che per ogni italiano c’è una disponibilità di calorie medie che supera di circa 1700 kcal il fabbisogno energetico. Un sovrappiù che quando non diventa spreco si traduce in sovralimentazione, con le note conseguenze sulla salute e dunque anche sulla spesa sanitaria. Dobbiamo pertanto chiederci quali siano le motivazioni di questo spreco, in modo da costruire una sorta di mappa con impegni puntuali volti a modificare questa situazione.
  Chiaramente, stabilire come mettere in efficienza la produzione è compito in primo luogo tecnico: gli scarti di produzione infatti possono senza dubbio essere diminuiti nell'interesse in primo luogo di chi lavora e produce. Più complicato è stabilire il da farsi con la distribuzione, che per sua natura dipende dall'approccio tra domanda e offerta, che inevitabilmente non coincidono.
  In questo senso, una strada da battere è quella dell'etichettatura, della quale peraltro si sta discutendo in sede europea. Consentire tempi di incrocio tra domanda e offerta più lunghi è certamente saggio, a patto che ciò non comprometta la qualità dei cibi. In realtà, per diminuire gli sprechi della distribuzione, il tema fondamentale è quello dei ritiri della produzione per assicurare la stabilità dei prezzi. Il prodotto ritirato infatti è soltanto in minima parte assicurato per la distribuzione alle fasce sociali deboli; dunque ciò deve indurre a riflettere anche sulla politica dei prezzi e sull'organizzazione effettiva su scala capillare della raccolta e dell'impiego del cibo in scadenza, così come finalmente realizzato anche in Italia, in primo luogo dalle organizzazioni di terzo settore. D'altronde, lo spreco nel 2009 di 263.645 tonnellate di prodotti alimentari, di cui il 40 per cento di ortofrutta per un valore di 900 milioni di euro, parla da sé !
  A livello industriale, lo spreco maggiore è quello della filiera lattiero-casearia e nella conservazione di frutti e ortaggi, il che pone necessariamente il tema del valore del mercato fondato sul prodotto locale come aiuto sostanziale a contenere le cifre dello spreco.
  Un lavoro di grande attenzione, invece, è possibile per migliorare la situazione relativa alla ristorazione collettiva, dove la grammatura delle porzioni (nei piatti avanza mediamente il 25 per cento del prodotto), la tipologia delle diete, la razionalizzazione dei comprensori del territorio del servizio e la cadenza dei menù possono certamente essere ottimizzati in vista di un pieno consumo dei prodotti. Da buone gare d'appalto dei servizi di ristorazione potrebbero derivare efficientamenti ottimali senza perdita di qualità. Ospedali, scuole ed enti pubblici in genere, dovrebbero essere perciò in prima linea in questa battaglia, ma anche la ristorazione aziendale può migliorare in questo senso, evitando nei bandi la garanzia di offerte di cibi a fine turno in quantità corrispondente a quella iniziale. I dirigenti possono decidere di fare diversamente e in questo senso a volte è anche una questione di stile: chi lo dice che consumare il pasto dopo gli impiegati sia un attestato di status, infatti ?
  Infine, c’è il tema dello spreco domestico: il frigorifero grande, la superficialità nel controllo delle etichette, gli acquisti fatti cedendo alla suggestione delle offerte, la dieta spesso non equilibrata, l'attitudine a mettere nel piatto più di quanto occorre e si mangia effettivamente e lo stile di vita fast, sono tutti elementi che parlano a favore di un intervento, in primo luogo rieducativa. Sottolineo rieducativi, perché senza mitizzazione del passato, nelle famiglie un tempo esistevano le Colonne d'Ercole antispreco in quel «non si butta via niente» di origine contadina.Sino a pochi decenni fa le abitudini domestiche si fondavano solo sulla cultura antispreco, quel che veniva lasciato a mezzogiorno tornava a tavola alla sera e ai bambini capricciosi non mancavano i richiami a quanti nel mondo, meno fortunati e più poveri, non avrebbero certo disdegnato il piatto per ragioni molto meno sottili di Mafalda.
  Ristrettezze e composizione delle famiglie certamente favorirono un approccio al cibo diverso; in questo senso anche la stagione della crisi ora può diventare un'opportunità per valutare e valorizzare meglio il cibo presente nelle dispense. In questo senso anche l'alleanza intergenerazionale può essere una risorsa per trasferire ai bambini, non solo a scuola, ma anche in famiglia, il valore del cibo come risorsa e influenzare dunque i futuri comportamenti, stimolando al riciclaggio del cibo a casa, ma anche – perché no ? – nella ristorazione collettiva. Magari mi permetto di suggerire alla Presidenza, anche nel sistema dei ristorazione presente alla Camera dei deputati, che non sarebbe male avere dei dati a disposizione con l'obiettivo di realizzare, ove già non fossero presenti, delle buone pratiche. Ovviamente, per conseguire i risultati a 360 gradi ha fatto molto bene il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ad avviare il piano nazionale di prevenzione e ad istituire il PINPAS, ma l'elemento di maggiore qualità in questo senso deriverebbe anche da un pieno coinvolgimento dei Ministeri delle politiche agricole e forestali e dell'istruzione, dell'università e della ricerca.
  In conclusione, la mozione presentata dal Partito Democratico indirizza e sostiene questo percorso, proponendo al Governo numerosi impegni rivolti a promuovere l'efficienza della filiera agroalimentare; a sostenere modelli dove contano sostenibilità, trasformazione, riutilizzo e distribuzione del cibo come aiuto alimentare; a stimolare gli appalti pubblici che tengono conto del valore del cibo; a promuovere accordi per migliorare il packaging delle etichettature; a realizzare campagne informative per la conservazione del cibo, che riducano lo spreco, e progetti educativi per diete equilibrate capaci di mantenere il legame tra agricoltura, alimentazione ambiente e salute; a sostenere la creazione delle reti che sostengano il sistema delle donazioni e dei ritiri del cibo e ad attivare il coordinamento nazionale tra soggetti che operano in questa direzione, con l'obiettivo di sostenere l'anno europeo della lotta allo spreco alimentare.
  Lo spreco di cibo è un sintomo, il sintomo di una società bulimica: cambiare verso significa per noi ingaggiare una lotta sistematica a questa malattia sociale. Siamo convinti di farlo spingendo le istituzioni e il Parlamento a giocarsi la partita in prima linea. Per questo sarà importante, e ancora più efficace, se riusciremo a giocarla insieme con la collaborazione di tutte le forze politiche.