Discussione sulle linee generali
Data: 
Lunedì, 20 Marzo, 2023
Nome: 
Roberto Morassut

Doc. XXII, n. 11-A

Grazie, Presidente. Nella XVII legislatura, per la prima volta, fu istituita – credo che, in quell'occasione, fosse monocamerale - una Commissione d'inchiesta sullo stato di degrado delle periferie italiane. Ne fui relatore.

Nella XVIII legislatura, essenzialmente per motivi politici, fu impossibile ricostituire questo organismo, che, invece, si è rivelato di grande utilità per il Parlamento, tanto è vero che la relazione fu poi approvata all'unanimità, solo con l'astensione di una forza politica. Quel lavoro, che è agli atti, è raccolto in una relazione corposa, che affronta una serie di aspetti a 360 gradi: aspetti di carattere istituzionale, come il tema della governance delle città e dell'efficacia della governance attuale delle città e delle metropoli rispetto all'efficacia delle azioni di risanamento e di tutela della cittadinanza nelle zone di periferia e nelle aree interne, che sono la prosecuzione della periferia urbana e l'incontro, molto sommariamente, con la dimensione provinciale; aspetti di carattere urbanistico - una parola che, purtroppo, non si usa più tanto nel nostro lessico, ma che è centrale; aspetti relativi alla sicurezza, al lavoro, alla legalità e altro ancora.

In quel documento, per certi aspetti ancora attuale, sono individuati su un piano generale, e poi, analiticamente, per ogni grande capoluogo, le ragioni delle condizioni di degrado - questa parola, probabilmente, è forse anche un po' abusata; viene utilizzata per descrivere, alla fine, anche situazioni generiche -, di sottodimensionamento del diritto di cittadinanza, diciamo così.

Un cittadino che nasce in periferia - mi lasci dire questo, Presidente - e che vive tutta la sua vita in una periferia metropolitana, alla fine, nel corso della sua vita, non raggiunge gli stessi diritti e le stesse opportunità di un cittadino che nasce in un'area pregiata di una città, anche se la Costituzione mette tutti sullo stesso piano. Un giovane di periferia deve fare molto di più, deve combattere molto di più per arrivare a determinare condizioni di vita per sé e per la sua futura famiglia almeno pari a quelle di chi nasce territorialmente in un posto più vantaggioso.

Quindi, parliamo di un'analisi generale, che dobbiamo fare, e di ragioni specifiche delle condizioni di arretratezza, di disgregazione sociale e culturale, ma anche di grandi opportunità, di grandi risorse economiche, produttive e sociali delle periferie urbane e metropolitane delle città italiane.

Quindi, vedere un po' il fenomeno con una doppia lente di ingrandimento. Va detto che, purtroppo, il lavoro e gli indirizzi contenuti in quel documento, che aveva una serie importante di allegati, alcuni dei quali, essendo una Commissione d'inchiesta, furono trasmessi alle procure per gli aspetti possibilmente di sviluppo giudiziario, e che fu il risultato di un grande lavoro di ricerca sul campo, condotto attraverso sopralluoghi diretti, interviste, audizioni, interlocuzioni con gli enti locali, con le prefetture, con le autorità di pubblica sicurezza, con le associazioni e con le reti civiche dei territori, e anche avvalendosi, ovviamente, di consulenze specializzate e anche di apporti di carattere accademico, non hanno visto gli esiti sostanziali nelle politiche concrete dei Governi, di tutti i colori politici, che si sono alternati dal 2018 ad oggi. Il 2018 è l'anno in cui la relazione fu consegnata al Parlamento e votata.

Questo è un punto di riflessione importante che voglio mettere in luce, e cioè che, in questi anni, la nostra evoluzione legislativa in materia di azione sulle politiche urbane si è dimostrata, alla fine, quasi sempre, insensibile alla lettura scientifica e diretta delle evoluzioni sul campo che le nostre città hanno subito in questi decisivi anni di trasformazione. Questo è un punto da affrontare.

La questione principale che, in questo lavoro, viene individuata come causa del ritardo, chiamiamolo così, dei problemi di molte periferie, ma il termine ha una sua obsolescenza, e vedremo perché, è quella che può essere definita e sistemata in un'espressione che è quella di una nuova questione urbana, perché due terzi dei cittadini italiani vivono in un quartiere di periferia o nelle cosiddette aree interne, cioè in quella dimensione territoriale che oggi, peraltro, trova difficoltà in una rappresentanza diretta, perché l'elezione diretta delle province è stata eliminata, quindi, c'è anche lì un problema di rappresentanza democratica, del quale tenere conto. Quindi, due terzi degli italiani vivono in situazioni di città difficili.

Il problema delle periferie coincide con quello delle città ed esprime una nuova questione urbana che è la sostanza del problema. Si tratta di andare al cuore delle ragioni dello sviluppo distorto di queste nostre città, che naturalmente non è soltanto un problema italiano. Teniamo conto che, in altri Paesi, dove le città hanno una dimensione di scala molto più alta della media delle città italiane – l'Italia ha, sostanzialmente, solo Roma, Milano e Napoli come città di scala superiore; esse arrivano ad oltre il milione di abitanti nell'area urbana del comune e anche nell'hinterland, mentre in Europa le grandi città sviluppano dimensioni molto più grandi - i problemi delle periferie, che, in quei casi, sono periferie industriali - in Italia molto meno, poiché si limitano soltanto ai grandi settori geografici del Nord -, sono molto più gravi e molto più complessi.

Comunque, vi è una specificità italiana. Si tratta di andare al cuore delle ragioni di questo sviluppo distorto. Intanto, occorre molto riflettere sul tema periferia. Il tema periferia fa pensare a qualche cosa che sta intorno e, poi, c'è un centro. Questa rappresentazione, per certi aspetti, può avere ancora una validità, ma sempre più relativa, sempre più limitata a cogliere la sostanza delle trasformazioni in atto. Non c'è più soltanto una centralità di qualità, non c'è più soltanto, mediamente, nelle città italiane, un centro di qualità e una periferia degradata o svantaggiata, c'è un processo di lacerazione. È in corso un processo, ormai da anni, di spappolamento, di lacerazione, di disgregazione dei tessuti urbani - prima del quale, naturalmente, ci sono disgregazioni di carattere sociale -, che lascia intravedere come una tela rotta, dove, in certe zone di centro, geograficamente collocate al centro, si sono aperti grandi problemi sociali, grandi problemi di recupero urbano, grandi problemi di degrado sociale, di disoccupazione, di lavoro, mentre, in certe zone di periferia, magari, ci sono isole, situazioni di sviluppo avanzato, situazioni di crescita, anche economica. Quindi dobbiamo immaginarci un'idea della questione urbana che vede non più prevalere la qualità al centro, che ancora regge come criterio, ma sempre molto di meno.

Questo è legato un po' al processo di questi anni e, cioè, alla caduta di consistenze e di condizioni di vita dei ceti medi urbani. Questa è la grande lettura chiave della storia delle nostre società di questi ultimi 10-15 anni, dal 2001 e, ancor più, dal 2008, che ha visto un crollo del pilastro fondamentale nelle nostre società, legate alla tenuta di un'area centrale, tutto sommato stabile, che ha reso stabile anche la democrazia, che ha reso stabile, anche se con margini e marginalità di arretratezza, la vita delle città. Questo sta venendo meno, è venuto in gran parte meno ed ha aperto dei grandi fossati, delle grandi forre anche dentro le città, che oggi noi leggiamo in fase di evoluzione, con grandi problemi. Abbiamo difficoltà ad esprimere politiche di risposta a questo elemento, mentre vediamo il panorama delle città cambiare di fronte ai nostri occhi.

Anche nel cuore delle città, dicevo, vi sono situazioni di arretramento delle condizioni di vita, di degrado del patrimonio edilizio, di scomposizione e degrado dello stesso spazio pubblico, legato ai servizi, alle scuole, al patrimonio verde, alla stessa dimensione dei grandi servizi generali - per esempio, pensiamo alla sanità -, nel centro e nel medio centro. Per essere definita tale, una città o una civitas, come esprime la sua traduzione in latino, ha bisogno di alcuni criteri fondamentali. Non si è città - cioè, non si è quel nucleo di aggregazione comune che è nato nei tempi più antichi e si è sviluppato in forme diverse, da ultimo nel Medioevo, con un processo millenario che ci ha portato fino all'epoca contemporanea - se non si hanno adeguati servizi di trasporto, cioè di collegamento tra le persone, che possono creare quel senso di comunità; se non ci sono reti sanitarie, che soccorrono la solitudine e i momenti di difficoltà del cittadino quando deve affrontare un problema sanitario, di cure; se non ci sono servizi scolastici e formativi adeguati e paritari per tutti; se non ci sono reti commerciali di piccolo, di medio e di grande calibro, che possono rispondere alle varie esigenze; se non c'è una dotazione di spazi pubblici, che consente una vita adeguata non solo nel chiuso di una casa, ma anche nel momento esterno e di scambio; se non c'è la possibilità di realizzare, nelle forme più compatibili con l'ambiente, un'edilizia abitativa anche per le fasce deboli.

Tali questioni, se le andiamo a vedere una per una, risentono oggi di grandi problemi e di grandi incertezze e anche i colossi costruiti nel corso di questi anni, i punti più saldi che vivono nelle città vedono oggi un lento logoramento. Tutto questo definisce il senso di una città.

Se si esclude Roma, in cui è ancora prevalente il criterio del tema centro-esterno - cioè, Roma è una città che ancora vede un centro forte, di altissima qualità, fortemente terziarizzato (forse anche troppo), dove si concentrano i servizi di trasporto, dove ci sono le università, ci sono gli ospedali, ci sono i grandi istituti culturali, dove c'è un pregio edilizio notevole e l'esterno, dove tutto questo si dirada, con fasce progressive, fino a saldarsi con la media cintura urbana -, per le altre città questo vale di meno.

Per esempio, prendiamo le città portuali, prendiamo Napoli, prendiamo Genova, prendiamo Bari: sono città nate intorno ai porti, dove il centro non è il dominus assoluto della qualità urbana, anzi, dove il centro, soprattutto a ridosso del porto, produce elementi di scarsa qualità, di crisi, di degrado sociale e, spesso, anche di illegalità. Questo non perché vi sia il porto, ma perché questa è una conseguenza, spesso, dell'impossibilità che queste città hanno avuto di operare un rinnovo urbano, che pure è stato tentato in molti casi, ma che non ha dato, nel tempo, i risultati che si speravano. Nel caso di Napoli, basta ricordare la straordinaria lettura che Matilde Serao dà del centro di Napoli già alla fine dell'Ottocento nel suo Il Ventre di Napoli, vagheggiando le possibilità di un'operazione di sventramento, di cambiamento del profilo di Napoli, della Napoli spagnolesca, che, poi, non si è mai realizzato nel tempo per le difficoltà e per la debolezza dello Stato italiano di entrare profondamente in queste politiche forti e strutturanti.

Le nostre città sono inserite in un cambiamento che ha due linee di movimento, e vado rapidamente a chiudere. Una è quella della tambureggiante globalizzazione degli ultimi anni, della velocità che ha assunto la nostra vita, dei cambiamenti fortissimi - l'immigrazione, il diradamento delle reti collettive, la gente sta più sola e, quindi, le grandi reti sociali, dai partiti ai sindacati, alle reti associative di quartiere si formano e si deformano continuamente, lasciando poca memoria -, dei problemi ambientali, perché l'ambiente è diventato meno ospitale, dei rischi idrici, che adesso sono così presenti. Spero che il Parlamento possa presto discutere questa benedetta mozione sulla siccità, perché noi ci troveremo di fronte ad un'estate drammatica, con il rischio di innalzamento dei prezzi dell'acqua, che pagheranno i più poveri, che porterà problemi negli ospedali e nelle scuole. Quindi, su questo, il Governo ha il dovere di entrare subito con delle proposte immediate e anche con soluzioni di medio periodo, che possano fare individuare le soluzioni più giuste per l'approvvigionamento idrico, che non può più avvenire con i metodi tradizionali, moltiplicando gli invasi, che si interrano. Ma di questo ne riparleremo.

Nelle città noi abbiamo una concentrazione, grazie alla globalizzazione, delle reti finanziarie e delle reti criminali, che sono forti ed articolate nel territorio, cioè hanno presa sul territorio, entrano nella carne delle persone e dei quartieri, mentre abbiamo un indebolimento delle reti democratiche, istituzionali, locali, che faticano a dare risposte. La difficoltà dell'articolazione del potere democratico sulla città - i comuni, le circoscrizioni, i municipi, le forme del decentramento, il rapporto tra i comuni e la regione -, la complessità delle risposte, la lungaggine delle risposte, mettono su un piano sbilanciato i poteri democratici e questi aggressivi poteri che si sono formati, che si sono strutturati a livello internazionale con la globalizzazione. Sono principalmente finanziari e criminali e questo colpisce principalmente la periferia, che è il ventre molle delle città.

Ma ci sono anche questioni antiche che non sono state risolte, che sono figlie del nostro sviluppo arretrato e di un capitalismo arretrato, di un Paese che è arrivato tardi all'unità e allo sviluppo capitalistico e che ha puntato - nel suo sviluppo, nell'accumulazione primaria dello sviluppo dell'industria e del capitale italiano - sullo sfruttamento non delle risorse del sottosuolo, di cui erano ricchi altri Paesi europei. Noi non avevamo materie prime; non le abbiamo mai avute. Semmai, abbiamo avuto sempre un grande capitale naturale, che è la nostra risorsa, la bellezza del nostro Paese, ma questo ci ha aiutato relativamente. Abbiamo sfruttato il suolo, ossia la terra. La terra è stata la materia prima per la crescita del nostro capitalismo, con settori di punta come quelli dell'edilizia a basso rendimento, a basso profitto, che sono propri dei Paesi più arretrati, sono quelli dove l'economia cresce perché non c'è altro da trasformare. Questo è stato un carattere abbastanza pesante della nostra storia; questo sviluppo arretrato ha quindi dato un ruolo enorme alla rendita, alla rendita urbana di attesa. Qual è uno dei problemi importanti, che spesso non si vede, non si racconta, non si vuole raccontare o che noi consideriamo ormai già superato, già alle nostre spalle, ma non è così? È il fatto che noi, nel Novecento, abbiamo disegnato le nostre città in un certo modo; le nostre città sono state disegnate con strumenti urbanistici ipertrofici, che immaginavano sviluppi di città enormi; Roma, negli anni Sessanta, ha avuto un Piano regolatore che si immaginava per una città di 5 milioni di abitanti; ma così è stato anche per Milano, così è stato per Napoli, così è stato per Torino, per le grandi città; vi era, cioè, l'idea che le città crescessero a dismisura, e questo non è avvenuto, ma ha prodotto, soprattutto nel Centro-Sud, strumenti urbanistici che hanno dato rendita, che hanno attribuito rendita di attesa e la rendita di attesa produce il pagamento di tasse e, quindi, un'enorme attesa di edificabilità, di trasformabilità delle aree, dei suoli che, pur non essendo trasformati, oggi hanno un valore commerciale, e di cui ci dobbiamo liberare, perché altrimenti noi non raggiungeremo mai la soluzione al problema del consumo di suolo entro il 2050.

Quindi, il problema centrale, quando parliamo di consumo di suolo, quando parliamo di riqualificazione della periferia, è quello di affrontare anche la questione di un giusto uso del suolo, cambiando una legge urbanistica che è in vigore dal 1942, una legge urbanistica che favorisce l'espansione della città nelle campagne, perché è stata concepita così: i comuni dovevano urbanizzare tutto il perimetro di quello che potremmo chiamare il loro quadro amministrativo. Oggi questo non si può fare più; dobbiamo definire i perimetri urbani, dobbiamo riqualificare quello che c'è. E, allora, per fare questo, però, serve una legge di principi nazionali. Attenzione, stiamo discutendo dell'autonomia differenziata; questa autonomia differenziata è un grande rischio, perché avrà, oltre a tutti gli altri problemi di cui stiamo discutendo tra maggioranza e opposizione, l'effetto di mettere su velocità diverse, con criteri diversi, con strumenti diversi il futuro del destino di varie aree geografiche del Paese in una posizione differente, ossia noi avremo un Mezzogiorno, che ha l'eredità del condono, l'eredità di questi strumenti urbanistici vecchi – più che quelli del Centro-Nord -, in una condizione di abbandono, perché non ci sarà un criterio di principi unitari nazionali che possa guidare le trasformazioni urbane, ovviamente in maniera concorrente con le regioni, secondo quanto stabilisce la Costituzione. Ci vogliono principi nazionali che tengano il Paese unito in uno sviluppo armonico, altrimenti noi avremo un Mezzogiorno che andrà per conto suo e un Nord che andrà verso una modernizzazione mal concepita, malintesa.

Ecco, questi sono i problemi fondamentali, perché quando si dice: mettere a terra i servizi, noi diciamo che nelle periferie servono i servizi, servono i servizi di prossimità, servono i servizi sanitari, servono le scuole, servono i giardini, serve il verde, serve farvi arrivare i mezzi pubblici; benissimo, ma stiamo parlando di opere pubbliche; non è che queste cose si fanno attraverso dei finanziamenti; o, meglio, si possono finanziare - lo vediamo con il PNRR, si possono mettere in campo tante risorse, tanti soldi -, ma poi il problema è mettere a terra, cioè c'è un problema di regolare i conti su un uso sociale giusto del suolo e l'uso sociale giusto e contenuto del suolo richiama in causa quella grande scienza che è l'urbanistica, che è stata in questi anni considerata superata, ossia una cosa che non serve più. Invece, serve tantissimo; serve perché, se vogliamo demolire e ricostruire, se vogliamo rendere le città più accoglienti, anche da un punto di vista funzionale, migliori per essere abitate, noi dobbiamo lavorare di incentivi, dobbiamo lavorare di sostegni pubblici; dobbiamo coprire cioè quel delta di costi che è maggiore tra un intervento espansivo di una città su un terreno libero, che costa X, e l'intervento su una città già costruita, che costa X più Y, perché va demolita, i materiali vanno conferiti, e poi va fatta sostituire con una nuova edilizia di qualità maggiore. Questo ci fa incontrare il grande tema di case green. Attenzione il tema di case green va visto bene; l'Europa, giustamente, dà questa indicazione, di andare verso il 2035 con un cambio generale del patrimonio immobiliare, in maniera che si abbattano le emissioni di CO2, tanto più che i nostri edifici sono fatti di cemento armato, pieno di amianto - perché il ferro nel cemento armato è amiantato - e abbiamo materiali che comportano una grandissima capacità emissiva di CO2, quindi lo dobbiamo fare questo lavoro; ma, attenzione a non trovarci di fronte alla terribile verità e contraddizione in cui chi ha un palazzo vincolato al centro storico è libero di non fare l'intervento, ha una grande ricchezza e neanche paga alla collettività il tributo di contribuire all'ambiente migliore, e chi ha, invece, una casa costruita e pagata con il mutuo, con grandi sacrifici, nella media o nell'estrema periferia, deve pagarsi l'intervento con le sue tasche. C'è un grande problema di tipo pubblico, di intervento, di sovvenzioni, di intervento anche a costo zero, anche a fondo perduto e di incentivi di giustizia sociale; e di altro tipo per chi può fare, invece, gli interventi anche attraverso il proprio protagonismo, attraverso la propria attività in forme di incentivazione fiscale; qui la proposta va tradotta bene ed è un compito di tutto il Parlamento, è un compito dell'Italia, altrimenti noi avremo una rivolta contro queste nuove possibilità, queste nuove opportunità.

Ecco, mi paiono questi i temi che una Commissione d'inchiesta deve affrontare, perché noi non possiamo avere più sicurezza sociale, non possiamo avere più controllo del territorio se non abbiamo servizi adeguati, se non abbiamo commissariati, se non abbiamo caserme dei Carabinieri, se non abbiamo scuole che funzionano, se non abbiamo la sanità di prossimità, non solo i grandi ospedali, ma anche le strutture di una sanità più contenuta, più vicina, di carattere più minuto, ma capace di incontrare anche la domanda di sanità e di salute che non comporta un ricovero; queste strutture debbono essere fatte, debbono essere realizzate e per farle ci vuole un demanio pubblico di aree; non è che si possono fare comprando le aree dai privati; bisogna costituire una libertà del pubblico che acquisisca quel demanio sufficiente per fare questi servizi, anche attraverso forme pubblico-private. Ma oggi la nostra legislazione, anche nelle regioni, è prevalentemente nuda di fronte a questa possibilità, tanto più e soprattutto nel Centro-Sud, dove le arretratezze sono maggiori. Da qui l'esigenza di criteri generali, di non farci vincere, nell'idea di autonomia differenziata, dall'idea che il Paese possa impazzire; che ognuno possa andare per proprio conto, pensando che poi ci sono compensazioni così teoriche; questo porta alla disgregazione dell'Italia, allo sfascio dell'Italia; e questa discussione la dovremo fare.

L'ultima questione che voglio sollevare, e concludo davvero, è che nel tema dell'autonomia differenziata noi abbiamo sempre messo avanti la questione della dimensione regionale dell'autonomia, ma l'Italia è un Paese di grande tradizione nella dimensione e nell'autonomia delle città. Noi siamo più il Paese delle 100 città che delle 20 regioni.

Quindi, in quella discussione si deve trovare il modo di affrontare anche la vetustà dell'ordinamento di governo delle città e delle grandi metropoli, che è fermo al 1990. Nel 1990, con la legge n. 142, si avvia un percorso, che doveva portare poi all'istituzione delle città metropolitane. Invece, non ci sono state le città metropolitane. Ci sono le province, che adesso non sono più eleggibili. Il quadro della democrazia e della rappresentanza nelle città e nelle province è drammatico e questo incide molto sulla disaffezione elettorale.

C'è, quindi, un problema a partire dalle grandi metropoli e dal rango regionale, a mio avviso, che almeno tre grandi città, Roma, Milano e Napoli, dovrebbero assumere per poter governare i processi che hanno nella loro carne con le necessaria forza e con la necessaria autorevolezza. Poi, occorre finalmente dare alle città, alle città metropolitane e ai comuni urbani, collegati con il loro hinterland, un nuovo assetto di poteri adeguati ad affrontare i grandi problemi, perché noi continuiamo con una forma di governo delle città e dei territori molto vecchia che ormai ha più di 40 anni e addirittura, per certi aspetti, risale all'ordinamento degli enti locali del 1915.

Quindi, ho concluso. Grandi temi economici, grandi temi sociali e, soprattutto, grandi temi istituzionali. Penso che debbano essere questi gli obiettivi, il profilo di obiettivi di un lavoro di una Commissione come questa. Poi mi auguro che questo lavoro, se sarà fatto, possa essere la base di un'azione esecutiva e operativa del Governo, cosa che, però, negli anni passati purtroppo non c'è stata.