A.C. 2682
Grazie, Presidente. Rappresentante del Governo, colleghi deputati, oggi discutiamo una legge che per sua natura e per sua storia dovrebbe essere una delle leve fondamentali per modernizzare l'economia italiana, per migliorare la qualità dei servizi, per difendere i consumatori, per dare più forza al nostro sistema produttivo. La legge annuale per la concorrenza non è un provvedimento qualsiasi. È prevista dall'articolo 47 della legge n. 99 del 2009, è richiesta dalla Commissione europea, è una milestone del Piano nazionale di ripresa e resilienza e dovrebbe essere ogni anno l'occasione per rimuovere ostacoli, aprire i mercati, ridurre rendite e aumentare i diritti.
Dovrebbe, ma ancora una volta non è così, da quando c'è questo Governo. Il testo che discutiamo oggi è, peraltro, Presidente, identico a quello approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso luglio. In Senato non si è potuto modificare: nessuna istruttoria, nessun voto sugli emendamenti e la posizione dell'ennesima fiducia, e anche qui, alla Camera, la maggioranza ha respinto ogni proposta migliorativa. Il risultato è una legge annuale sulla concorrenza che dovrebbe aprire i mercati, ma che, invece, arriva in Aula imbullonata, immodificabile.
È paradossale: una legge, nata per promuovere la concorrenza, è stata costruita in un percorso legislativo senza concorrenza, senza confronto, senza apertura. I nodi veri del Paese restano fuori da questo provvedimento. Chiunque osservi la struttura dell'economia italiana sa che le sfide principali sono tre: energia, digitale e telecomunicazioni, infrastrutture e mobilità. Ebbene, su questi tre ambiti la legge è praticamente muta, non per disattenzione, ma per una scelta politica precisa.
Il Governo, evidentemente, non vuole disturbare gli assetti esistenti, non vuole toccare le rendite, non vuole affrontare gli squilibri. Per quanto riguarda l'energia, il mercato continua ad essere troppo concentrato e i consumatori troppo esposti. I numeri dell'Autorità di settore, l'ARERA, sono inequivocabili: le prime tre società del mercato libero dell'elettricità detengono il 39,3 per cento delle vendite, le prime cinque superano il 51 per cento. La concorrenza, semplicemente, in questo ambito non funziona.
I consumatori lo vivono sulla loro pelle: difficoltà nel cambiare fornitore, offerte non trasparenti, bollette poco comprensibili. Sempre ARERA ci dice che, nel 2024, 34.564 utenti hanno attivato il servizio di conciliazione e sono stati riconosciuti 21 milioni di euro in compensazioni. È il segno di un mercato dove chi dovrebbe essere protetto spesso non lo è. Il contesto macroeconomico non aiuta. L'Istat registra un'inflazione attorno al 2 per cento, ma trainata, ancora una volta, da elettricità, gas, acqua e servizi regolati. La domanda allora è semplice: cosa fa il Governo?
Quali misure introduce per correggere le distorsioni? La risposta purtroppo è nulla: nessun rafforzamento dei poteri regolatori, nessun meccanismo di trasparenza obbligatoria, nessun intervento su un mercato troppo concentrato. Il messaggio è chiaro: il Governo accetta lo status quo. Il capitolo sui servizi pubblici locali, poi, è un altro esempio di una logica sbagliata: si scaricano nuovi adempimenti sui comuni, si introducono sanzioni, si irrigidiscono procedure e criteri, ma si ignora il vero tema, ossia come migliorare la qualità dei servizi.
La ricognizione obbligatoria, prevista dal decreto legislativo n. 201 del 2022, poteva essere l'occasione per rafforzare la programmazione locale, per aiutare i comuni a valutare meglio, per aumentare la trasparenza. Si è invece scelta una strada punitiva, senza rafforzare la capacità amministrativa, senza investire nell'assistenza tecnica, senza valorizzare il ruolo degli enti locali. Le nostre proposte emendative su indicatori di qualità, su maggiore trasparenza, su un monitoraggio più efficace, sulle valutazioni pluriennali delle perdite sono state tutte respinte, peraltro senza spiegazioni.
È difficile allora parlare di concorrenza quando si mette in difficoltà chi il servizio lo deve garantire ogni giorno, nei territori e tra mille problemi. Il comma, poi, Presidente, sulle colonnine di ricarica introduce un criterio potenzialmente utile: evitare che un operatore superi il 40 per cento delle infrastrutture installate in un comune. È un passo nella direzione giusta, ma non basta. Il problema italiano non è solo la concentrazione, è la disomogeneità territoriale, la mancanza di una mappatura nazionale, l'assenza di un sistema informativo unico, la difficoltà dei comuni nel programmare.
Anche qui, le nostre proposte per rafforzare il monitoraggio, per fornire strumenti ai comuni sono state respinte, eppure la transizione tecnologica e digitale, oltreché quella ecologica, passa da qui: una rete capillare, trasparente, competitiva. Oggi siamo ancora lontani da questi obiettivi. Il trasporto regionale è una delle vere frontiere della concorrenza, per anni l'Italia è rimasta in una zona grigia: affidamenti diretti lunghissimi, gare rinviate, qualità dei servizi insufficiente.
Il regolamento (CE) n. 1370/2007, dopo la riforma del 2016, impone procedure competitive, eppure molte regioni hanno affidamenti che scadranno non prima del 2032. Il Governo interviene? Introduce regole chiare? Promuove gare trasparenti e qualità dei servizi? No, si limita a introdurre obblighi istruttori, che già molti enti faticano a seguire, senza affrontare la sostanza. Poi, sul trasporto aereo, in particolare sulle rotte insulari, dove cittadini e imprese subiscono tariffe insostenibili, nessuna misura, nessun intervento sugli obblighi di servizio pubblico, nessuna tutela per mobilità e diritto alla continuità territoriale.
In questi anni stiamo assistendo a nuove forme di concentrazione economica nelle piattaforme digitali, nei dati, nei servizi cloud, nelle telecomunicazioni. Sono i mercati dove si definisce la competitività di un sistema Paese, eppure in questa legge annuale non c'è una sola norma sulla concorrenza digitale, sul pluralismo dei media, sulla trasparenza algoritmica, sui mercati delle telecomunicazioni. L'OCSE ci dice che l'Italia è scesa dal tredicesimo al diciassettesimo posto nel ranking sulla regolazione pro-concorrenziale.
Il Governo cosa fa? Si volta, ancora una volta, dall'altra parte. Questo non è un dettaglio, è una scelta politica, è la rinuncia a guardare il futuro. Il tema del trasferimento tecnologico è cruciale. L'Italia produce pochi brevetti, pochi spin-off, e investe ancora troppo poco nella ricerca applicata. Prendiamo anche qui i numeri: i primi cinque enti pubblici di ricerca italiani hanno prodotto, negli anni recenti, sei volte meno brevetti della sola Fraunhofer in Germania.
E allora ci aspettavamo un intervento strutturale. La riforma proposta contiene anche alcuni elementi interessanti: una governance più razionalizzata, un ruolo per la fondazione Tech e Biomedical, una procedura per selezionare progetti, ma manca la cosa fondamentale: una strategia industriale nazionale. Le risorse non aumentano, la visione non è definita, il raccordo con imprese, regioni, università resta troppo debole. Anche qui: un'occasione mancata.
La concorrenza non è un esercizio ideologico, è una politica pubblica che serve ad abbassare i prezzi, ad aumentare la qualità dei servizi, a proteggere i consumatori, a favorire l'innovazione, a sostenere la crescita. Ce lo dicono anche qui gli studi dell'OCSE, ce lo dice l'Autorità garante della concorrenza e del mercato italiana: le liberalizzazioni fatte in Italia hanno aumentato la produttività tra il 3 e l'8 per cento; il PIL sarebbe potuto crescere fino all'8 per cento in più grazie alle riforme strutturali del passato. Sono numeri enormi che spiegano bene perché le cosiddette lenzuolate allora di Bersani hanno cambiato questo Paese. Ecco perché questa legge delude: perché non guarda ai cittadini, non guarda alle imprese, non guarda all'innovazione, non guarda al futuro. Serviva altro, perché la concorrenza rende i mercati più accessibili, riduce le disuguaglianze, dà ai cittadini più diritti e più scelte.
Con i nostri emendamenti abbiamo espresso una visione diversa da quella che avete proposto, perché noi siamo convinti che la concorrenza sia una leva di sviluppo, perché favorisce l'innovazione, stimola nuovi investimenti, apre opportunità soprattutto ai giovani e alle imprese più dinamiche. Crediamo che la concorrenza sia una leva di modernizzazione perché un Paese fermo è un Paese che si impoverisce e l'Italia oggi ha bisogno di crescere, innovare, cambiare. Per tutte queste ragioni, il Partito Democratico esprime un giudizio nettamente negativo su questo provvedimento e continueremo fino all'ultimo a provare a cambiarlo, nel corso della discussione sugli emendamenti, perché questa non è la legge che l'Italia merita, non è la legge che le famiglie aspettano, non è la legge che le imprese chiedono, non è la legge che servirebbe per attuare il PNRR e per competere in Europa. Continueremo a proporre riforme vere, continueremo a difendere i consumatori, continueremo a batterci per mercati più aperti, più trasparenti e più giusti, perché la concorrenza non è un fastidio, è una responsabilità ed è uno strumento di crescita e di equità per l'Italia.