Discussione generale
Data: 
Martedì, 23 Luglio, 2024
Nome: 
Gian Antonio Girelli

A.C. 1975

Grazie Presidente. Stiamo esaminando un provvedimento dal titolo anche molto impegnativo - il decreto Liste di attesa - e la sensazione è che vi sia scarsa consapevolezza in chi l'ha prodotto riguardo a cosa significhi “liste di attesa” e l'impatto che hanno sui cittadini e sulle cittadine di questo Paese. Mi verrebbe da dire che ha a che fare con i 10 milioni di prestazioni sanitarie, che risultano inevase in lista di attesa, appunto, ma ancora di più - per limitarmi a pochi numeri - con i 4 milioni di persone che risultano rinunciare a cure sanitarie, per l'impossibilità di accedervi in tempi utili per affrontare lo stato di salute che devono sopportare e che non hanno le risorse per trovare l'alternativa alla lista d'attesa, ovvero rivolgersi a pagamento all'acquisto di una prestazione sanitaria. Tutto questo - guardate - sta avendo un impatto non di poco conto sullo stato di salute della cittadinanza, sulla disparità, quindi la mancanza di uguaglianza, nel poter avere la cura nel momento di bisogno. Se vogliamo introdurre anche una lettura un po' più cinica, anche su quanto ci vorrà in futuro per affrontare la cura di malattie degenerate, di patologie non intercettate alla loro origine, che comunque - almeno finché si vorrà avere un minimo di rispetto dell'articolo 32 della Costituzione - dovranno trovare risposte nel Servizio sanitario nazionale.

Parlare di liste di attesa implicava chiedersi il perché si è arrivati a questa situazione - che non è certo nata con il Governo Meloni, ma che con il Governo Meloni, a mio giudizio, ha un'ulteriore incapacità di lettura e di risposta -, che trova origini ben precise, che poi magari richiamerò. Riguarda una carenza di personale, che ormai appare in maniera evidente in ogni aspetto sanitario che andiamo ad affrontare in quest'Aula; riguarda uno scarso utilizzo ottimale del personale stesso: spesso e volentieri noi chiediamo a chi sa di sanità di occuparsi di burocrazia sanitaria invece che di cura della persona malata; riguarda la disorganizzazione generale che - guardate - non solo interessa i 21 sistemi territoriali presenti nel nostro Paese, che già di per sé sono una difficoltà non di poco conto, ma riguarda anche la scarsa qualità o addirittura la mancanza di comunicazione all'interno dei sistemi regionali.

Io sono lombardo ed è quasi cronaca giornaliera quella per cui i medici lamentano che il sistema informatico regionale è fuori controllo, non funziona, non riescono a immettere i dati, ma, soprattutto, non riescono ad acquisire i dati necessari per avere un giusto quadro della persona che hanno davanti e della quale dovrebbero occuparsi dal punto di vista sanitario, non solo nello specifico della patologia che ha denunciato, ma per un quadro più generale di prevenzione, di diagnostica, che dovrebbe essere l'elemento base di una sanità di qualità.

Tuttavia, il tema delle liste d'attesa ha a che fare anche con un rapporto pubblico-privato. Non dimentichiamo infatti che, è vero, attraverso il privato convenzionato, il ruolo che svolge non è di poco conto, però, andando ad analizzare i numeri, ci accorgiamo come questa attività sia molto orientata verso certi tipi di diagnostica, è molto distratta, lontana verso altri tipi di diagnostica che, stranamente, ha anche a che fare con il riconoscimento economico-finanziario della prestazione stessa. Ha molto a che fare anche con la presenza territoriale di questo privato accreditato, che ovviamente è molto più attento e molto più presente dove il numero dei cittadini e delle cittadine è di un certo tipo, quindi, c'è più mercato - mi si conceda la definizione -, è molto meno presente, se non totalmente assente, nelle aree interne, nelle zone montane, dove chiaramente la base delle possibili persone che hanno bisogno delle stesse prestazioni è minore.

Allora tutto questo come può essere affrontato per arrivare a dare una risposta alle liste d'attesa? Indubbiamente, con una con una riforma generale del Servizio sanitario e - mi permetto di sottolineare - continuiamo a chiamarlo “servizio”, non facciamo l'errore, anche lessicale, di chiamarlo “sistema”, perché il sistema è come organizzare il servizio; il servizio è qualcosa di più di un sistema, è un dovere dello Stato previsto in Costituzione, previsto da leggi nazionali di riferimento, che dicono che le persone, che hanno un bisogno sanitario, devono trovare una risposta.

Ecco che affrontare una riorganizzazione del Servizio significa dare una lettura anche molto attenta del contesto in cui bisogna intervenire, contesto molto diverso rispetto anche a un recente passato. Il COVID, anche da questo punto di vista, ci obbliga ad avere occhiali nuovi nel fare una valutazione della situazione che deve tener conto di una società che cambia per età media (il tema dell'invecchiamento, che oggi, non è ancora stato affrontato, è chiaramente una delle questioni che sempre di più caratterizzerà, con le implicazioni anche sanitarie, il nostro il nostro futuro), di una società sempre multietnica, sempre più ricca e varia, che implica anche ricadute di lettura dei bisogni sanitari per evidenti ragioni anche di genetica e di luoghi di provenienza. Inoltre, ha a che fare con la necessità di affrontare una volta per tutte, per esempio, la medicina di genere. Noi abbiamo una mentalità molto improntata a una sanità che parla al maschile e ci dimentichiamo che la maggioranza della popolazione di questo Paese è rappresentata da donne che hanno anche patologie molto specifiche; recentemente, ho avuto modo, con alcuni colleghi anche qui presenti, di analizzare il tema dell'emicrania, che - ahimè - è una caratteristica che colpisce soprattutto le donne. Ecco, la sanità ha bisogno di svilupparsi e di parlare sempre di più al femminile, non dimentichiamolo. Potremmo andare avanti, in questa lettura, e parlare di malattie rare, di necessità di investire fortissimamente in prevenzione, parlare di diagnostica, che deve intercettare l'origine dei primi sintomi, le malattie stesse. Parliamo di conoscenza ed elaborazione dei dati sanitari che dovrebbero anche portarci a sviluppare la cosiddetta medicina di iniziativa, che individua platee di persone che possono essere soggette a determinate patologie e, quindi, vengono maggiormente monitorate, controllate e verificate con un'adeguata opera di screening. Come dicevo, potremmo fare un elenco davvero lungo per dire cosa servirebbe, per poi arrivare all'abbattimento delle liste d'attesa.

Tuttavia, non voglio nemmeno dimenticare un altro aspetto - è già stato oggetto di una qualche riflessione anche in quest'Aula - che riguarda la cosiddetta medicina difensiva che porta, da un lato, ad un eccesso di richiesta di prestazione, quindi, anche l'adeguatezza, a volte, di alcuni approfondimenti diagnostici e, dall'altro lato, invece, anche lo “scarica barile” sulla specializzazione estrema rispetto a una medicina generale che, invece, a volte, dovrebbe sapere dare risposte diverse. Ciò è dovuto anche allo stato in cui abbiamo lasciato il personale sanitario con una indeterminatezza normativa, legislativa, dove molto spesso, anzi, il numero delle cause intentate ogni anno è lì a dimostrarci cosa significhi per loro.

Sullo sfondo di tutto quello che possiamo dire, in realtà, ciò di cui dobbiamo avere piena consapevolezza è la necessità che, se vogliamo cercare di dare una risposta a questo tipo di domanda, dobbiamo maturare la consapevolezza di immettere più risorse nel Servizio sanitario nazionale. Quando dico più risorse, intendo dire più risorse reali, che non siano qualche cifra, anche importante, in più rispetto al passato - nella storia sempre è stato messo qualcosa in più dal punto di vista del valore assoluto -, ma che ha a che fare con l'inflazione, ha a che fare con la necessità di affrontare campi diversi, approfondire attività diverse, fare di più, in poche parole. Da questo punto di vista, il tanto citato e anche molto contestato rapporto di investimenti in sanità, il PIL, non è banale: è la cifra, l'indicatore, è riconosciuto internazionalmente, che possiamo anche ulteriormente rafforzare con quanto investiamo per persone nel nostro Paese in sanità. Ecco, tutto ciò in questo decreto c'è?

Io mi sento di dire, con grande sincerità, no. Abbiamo a che fare con un decreto - non me ne voglia la collega che prima è intervenuta - che qualche dubbio sulla tempistica lo lascia, perché non dimentichiamo in che momento è stato presentato, in che momento è stato pubblicizzato, anche molto, salvo poi attraversare un percorso al Senato non così tranquillo, ma che si limita a dare una lettura anche molto superficiale, di titolo, al tema delle liste d'attesa (poi elencherò brevissimamente alcuni nodi, a mio parere, di particolare criticità), che non può, per sua natura, per come è concepito, per la limitatezza d'azione, affrontare i nodi di cui parlavo prima e, quindi, dare una risposta al titolo altisonante: le liste d'attesa.

Sullo sfondo, ancora una volta vorrei sottolineare lo scarso ruolo che viene consegnato alle Aule parlamentari. Tutti abbiamo visto il dibattito in Senato, dove francamente l'attenzione alle proposte emendative anche delle opposizioni, del Partito Democratico - per quanto mi riguarda, sono quelle che più ho approfondito, ovviamente - non hanno trovato alcuna capacità di ascolto e di accoglienza. Ora, è arrivato qua alla Camera, questa volta senza fiducia, perché stranamente non abbiamo questa imposizione, ma abbiamo quella formula del monocameralismo alternato che ormai caratterizza questa legislatura, laddove un qualsiasi provvedimento viene analizzato nella prima Camera e nella seconda, con buona pace di tutti - mi vien da dire delle minoranze, ma anche degli esponenti di maggioranza -, deve proseguire senza alcun cambiamento, per non andare in rilettura alla Camera precedente.

La caratteristica principale, al di là del tentativo di una lettura un po' diversa, è che, con questo decreto, non si affronta la questione economico-finanziaria. Ancora una volta, con un meccanismo comunicativo delle tre carte - non mi viene un'altra espressione più elegante -, si cerca di dire che ci sono più risorse, quando, in realtà, girano le stesse risorse, spostate di qua e di là, senza un intervento strutturale necessario, di cui parlavo prima.

Tuttavia, la cosa che vorrei sottolineare ancora di più è che si introduce il messaggio di voler controllare da parte dello Stato l'attività delle regioni nella loro capacità di dare risposte ai bisogni dei cittadini rispetto al tema delle liste d'attesa. Ciò lo si fa, ovviamente, introducendo un nuovo organismo. Voglio ricordare che, partendo da Agenas, ci sono già enti deputati a fare quel tipo di lavoro. Soprattutto si rischia di fare uno scaricabarile di fronte a una disfunzione patita da tutti i cittadini, sia pure in forme diverse e in maniera pesante, in ogni territorio del nostro Paese.

Poi, si dice alle regioni che - senza aggiungere risorse e senza qualcosa di davvero importante per poterle aiutare ad affrontare il problema -, molto semplicemente, saranno controllate e indicate come responsabili di quanto sta avvenendo. Ma forse qualche responsabilità c'è. Forse qualche mancanza di capacità di un maggior coordinamento nazionale anche in positivo rispetto a questo tema sicuramente c'è. Forse, mi verrebbe da dire, sarebbe da ricordare la bocciatura, dalle forze politiche che ora sono in maggioranza in quest'Aula, di un tentativo di riforma del nostro Stato che diceva parole anche piuttosto chiare e che dava indicazioni anche piuttosto precise rispetto alle responsabilità regionali e all'intervento sostitutivo dello Stato rispetto a queste inadempienze e magari ci dovreste spiegare, perché furono prese determinate posizioni riguardo a quel provvedimento e a quel referendum.

Andando ancora avanti, vorrei anche ricordare che si richiama, per esempio, la necessità di avere questa piattaforma nazionale di riferimento per poter agevolare anche la prenotazione delle visite e, quindi, intervenendo anche sotto questo profilo. Però, vorrei richiamare anche ciò che è stato detto prima, cioè cominciamo a far funzionare i sistemi regionali nella loro assoluta inadeguatezza anche in regioni come la Lombardia. Mi viene da pensare - e faccio un riferimento nuovamente territoriale - alle difficoltà degli ultimi 10 anni anche solo ad avere agende uniche di prenotazione, laddove il privato si è sempre ben guardato dall'entrare in questa agenda unica, si è sempre riservato aree molto particolari, nicchie di risposta, ma non vado a ripetere quanto già detto precedentemente.

Poi, sull'idea di aumentare le giornate di possibile attività diagnostica, vorrei ricordare che il tema del personale c'è e rimane. Infatti, non è che risolviamo il problema aumentando i giorni in cui le persone lavorano se, però, mancano le persone che possono lavorare. Certo, possiamo intervenire, come dicevo precedentemente, mettendo nella condizione di fare solo sanità a chi sa di sanità, magari prevedendo figure amministrative in campo sanitario, specializzandole nello specifico, facendo da supporto e liberando del tempo, da questo punto di vista. Possiamo intervenire nel rapporto che riguarda l'attività intramoenia ed extramoenia, possiamo fare tutto quello che vogliamo, però sinceramente faccio molta fatica a pensare che, con le forze attualmente a disposizione, possiamo affrontare il tema dicendo di aumentare i giorni in cui facciamo le visite. A tal proposito, mi sembra che le organizzazioni rappresentative del personale abbiano detto cose anche molto importanti e precise sull'inapplicabilità, appunto, di questo tipo di attività.

Vorrei sottolineare anche due altri aspetti che sono emersi nella Conferenza Stato-regioni. Non è stato un caso la presa di posizione non dura, ma durissima, delle regioni verso, in particolare, la prima stesura del decreto stesso. L'abbiamo letto tutti e abbiamo visto tutti quello che è avvenuto nei tempi in cui si è dovuto affrontare il tema in Senato, che è dovuto andare in standby in attesa di risolvere questo tipo di tensione.

Dunque, mi verrebbe da dire soprattutto ai colleghi della Lega che dovrebbero magari anche spiegare come sta assieme il messaggio, che poche settimane fa è uscito da quest'Aula - anzi poco fa, la settimana scorsa rispetto all'autonomia differenziata -, con quanto scritto in questo decreto, perché sono due cose che francamente vanno in direzioni anche molto diverse.

Andiamo d'accordo, cerchiamo di capire e ci troverete perfettamente d'accordo nella necessità di un maggior ruolo dello Stato riguardo a questo tema e con un ruolo organizzativo consegnato alle regioni per letture dei contesti territoriali diversi da realtà a realtà, però quello che non è possibile è promuovere un provvedimento che viene presentato come una riforma epocale, come un cambio di passo e come qualcosa che davvero darà risposta alle aspettative e anche alle aspirazioni di decenni e decenni di una forza politica con un provvedimento, il primo subito dopo l'autonomia differenziata, che dice l'esatto opposto.

Sempre per fare un breve elenco e anche per richiamare un po' ciascuno di noi a una qualche responsabilità, non posso non ricordare il tema dell'emendamento Borghi che ha caratterizzato questo decreto. L'emendamento del senatore Borghi voleva togliere l'obbligo vaccinale nell'infanzia e io credo che tutto il mondo scientifico e tutto il mondo della sanità nazionale, europeo e internazionale, l'abbia bollato per quello che è - verrebbe da citare Calderoli, ma non lo faccio -, ma è stato cassato semplicemente, perché non relativo al provvedimento stesso, senza che si sia levata da parte del Governo e della maggioranza una voce chiara che diceva al senatore Borghi che non si mette in discussione il valore e la scelta della scienza riguardo a certe partite. Infatti, strizzare l'occhio ai no-vax in questo Paese e mettere in discussione, attraverso anche questo meccanismo, quasi la validità del tema della vaccinazione con la ricaduta sugli screening e con tutto quello che gli sta attorno, significa non solo andare in direzione opposta rispetto all'abbattimento delle liste d'attese, ma significa andare a sabotare il Servizio sanitario stesso e distruggere quel livello, comunque, di qualità di salute della popolazione che si è conquistato grazie ai vaccini, perché malattie come la poliomielite non sono scomparse perché è avvenuto il miracolo di Lourdes, ma perché è stata fatta una scelta ben precisa dettata dalla scienza riguardo alla vaccinazione. Non si possono accettare strizzate d'occhio e ambiguità rispetto a temi di questo genere.

Quello che dispiace è che la possibilità che, come opposizioni, in particolare, come Partito Democratico, avevamo posto a quest'Aula con la proposta di legge Schlein sia stata mandata su un binario morto attraverso meccanismi d'Aula che sono e rappresentano sempre un po' una mortificazione del nostro ruolo, invece di essere presa come la vera occasione per aprire un dibattito fra tutti noi per cercare di dare risposte a quella domanda. Lo dico con sincerità e non con un'allusione: voglio credere al Sottosegretario Gemmato, attraverso di lei, Presidente, nel momento in cui dice che l'obiettivo è garantire il servizio a tutti i cittadini in un principio universalistico. Si tratta di avere il momento e l'occasione di poter entrare nel merito davvero e passare dalla fatica del confronto della politica a dire come riusciamo a farlo.

Allora, la proposta di legge Schlein era l'occasione vera, come anche il tentativo con gli emendamenti che sono stati presentati dal nostro gruppo al Senato. L'abbiamo fatto in Commissione e faremo quel che si potrà fare nel prosieguo di questo dibattito verso questo obiettivo, cominciando dalla provocazione dello stanziamento di spesa e del raggiungimento del 7,5 del rapporto col PIL, che è un atto di fiducia, un investimento e significa dire al Ministro Schillaci che noi vogliamo fare di tutto per dargli più soldi per fare quello che deve fare con i suoi Sottosegretari e con il suo Ministero.

Abbiamo voluto dire come i fondi non banali che sono stati messi a disposizione anche in sanità con il PNRR, se non sono accompagnati da investimenti strutturali, rischiano di essere banalizzati e di diventare persino inefficaci.

Abbiamo detto che investire in tecnologia e in digitalizzazione significa crederci davvero, investendo in formazione, investendo soprattutto per portare queste tecnologie al servizio non solo dei grandi ospedali, per aumentare la loro qualità ed efficienza, che è una cosa importante, ma, soprattutto, dei territori marginali, dove l'idea di territorio - altra sfida che ormai è nel lessico di tutti - non può essere concepita solo con il creare qua e là delle nuove strutture murarie, a cui i cittadini possano andare a rivolgersi, sperando di trovare all'interno anche il personale sanitario, ma significa sviluppare un principio di prossimità, laddove, specie nelle aree interne, specie nelle zone montane, la persona spesso anziana, in uno stato di salute precaria e anche senza una rete sociale di aiuto veramente forte, visto lo spopolamento e quant'altro, ma credo che non ci sia bisogno di dettagliare molto, trovi attraverso questi strumenti un momento di vicinanza; laddove l'infermiere, con un medico che si trova a valle, nella casa di comunità, nell'ospedale di comunità, riesca a leggere dei dati che gli vengono mandati attraverso questo meccanismo.

Perché, quando si parla di territorio, quando si parla di investimenti in tecnologia, molte volte penso che si guardi sempre alle sale operatorie o ai grandi presìdi ospedalieri, e ci si dimentichi che l'importante, invece, è tradurli anche in qualcosa di molto concreto e palpabile, che vada, soprattutto, vicino ai bisogni dei territori più deboli, più marginali, e delle persone che li vivono. Sempre per andare avanti in questo breve elenco delle necessità, con la proposta di legge si voleva affrontare in maniera anche molto convinta il tema della salute come estensione del concetto di sanità, dove parlare di salute non significa solo parlare di malattia, ma significa parlare di tutto quel contesto che evita o ritarda il più possibile la malattia e che ha a che fare con l'ambiente, la salubrità dei luoghi in cui si vive, con la sicurezza dei luoghi in cui si lavora, con una pressante educazione agli stili di vita, che riguardi l'alimentazione, ma non solo, che accompagni il cittadino e la cittadina dal momento in cui nasce fino alla fine della sua esperienza di vita.

È un qualcosa, chiaramente, che implica la capacità di relazione con il Terzo settore, con gli enti locali, con tutte le altre realtà che concorrono alla costruzione di un progetto di salute, ed è un qualcosa di diverso dal mettere qualche risorsa, che, tra l'altro, spostiamo da altri campi, rispetto a dei titoli e degli spot che purtroppo caratterizzano questo modo di governare. Però mi sento anche di dare un'altra risposta al mantra che sempre accompagna questa discussione: ma cosa c'entriamo noi, ma governavate voi, ma abbiamo trovato una situazione che è quella che è.

Ebbene, vorrei dire che il tetto di spesa - vorrei ricordarlo - è stato fatto da un Governo in cui c'eravate tutti, tutti; la Premier mi sembra che fosse Ministro della Gioventù in quei Governi. Quindi, le responsabilità, se ci sono, sono di tutti, e vorrei anche ricordare che, se andiamo a fare una lettura temporale degli ultimi anni, ci sono forze politiche, che siedono in maggioranza, che hanno governato molto di più del Partito Democratico.

Partito Democratico che è stato chiamato, in stato emergenziale, in Governi emergenziali, non certo perché lo ha voluto, ma per un senso di responsabilità del contesto che ci vedeva in una particolare difficoltà. Perciò, se vogliamo fare una lettura di responsabilità, da questo punto di vista, evitiamo di dire cose inesatte, perché l'origine ha una data ben precisa, dettata anche da una contingenza economico-finanziaria ben precisa, vista l'incapacità di quei Governi di reggere minimamente nel contesto europeo internazionale con un minimo di credibilità.

Quindi, lasciamola da parte questa cosa, che davvero rischia di essere anche un po' una narrazione che stanca. Guardiamo, invece, un po' avanti, alziamo lo sguardo e affrontiamo le sfide che abbiamo di fronte. Ritroviamo quello spirito, e ringrazio tramite lei, Presidente, la collega Zanella per aver ricordato una grandissima donna, come Tina Anselmi, che caratterizzò quella stagione. Perché la capacità di Anselmi fu quella di fare sintesi riguardo a un dibattito che nel corso degli anni si era sviluppato nel nostro Paese e che aveva dovuto affrontare il tema delle lobby delle mutue, che aveva dovuto scardinare una mentalità, anche di carità, nel modo di concepire l'attività sanitaria, il bisogno verso le persone che, poverine, sono malate e che, se sono povere, sono ancora più poverine e hanno bisogno di un intervento caritatevole.

E lo fece con un lavoro anche molto certosino di ascolto, di confronto, di costruzione dal basso, nel tessuto della società italiana, per far crescere la consapevolezza del dovere di dare attuazione e risposta a quanto previsto nell'articolo 32 della nostra Costituzione. Ed è, appunto, con questo spirito che noi dovremmo saperci confrontare, non avere timore di entrare nel merito, spacchettare proprio nel minimo dettaglio tutto il settore della sanità e trovare, soprattutto, quello spirito di fedeltà alla Costituzione che, ai tempi d'oggi, credo che ci ponga di fronte a un obbligo. Vorrei chiudere citando un illustre esponente che frequentò queste Aule ed ebbe responsabilità di Governo e politiche non da poco, e che viene dalla mia stessa terra, Mino Martinazzoli.

Ricordava che siamo in un tempo in cui si ha l'impressione di avere dei mezzi sempre più importanti, quasi infiniti, abbiamo quasi l'impressione di essere padroni della vita, ma siamo anche in un tempo in cui rischiamo di perdere di vista il fine di tutto questo. Non perdiamolo di vista, è la persona, la centralità della persona, la risposta ai suoi bisogni, partendo anche da quelli sanitari.