Discussione generale
Data: 
Lunedì, 26 Giugno, 2023
Nome: 
Gianni Cuperlo

A.C. 1238

Grazie, Presidente. Su questo decreto noi abbiamo espresso un giudizio severo, negativo, e che, ancora oggi, altri colleghi del mio gruppo, pochi minuti fa, hanno motivato con argomenti assai solidi e persino dettagliati. D'altra parte noi siamo l'opposizione e quindi si potrebbe pensare che stiamo svolgendo semplicemente il nostro compito.

Però, nel caso di questo decreto, c'è qualcosa che va oltre la divisione dei ruoli all'interno di quest'Aula. Nel caso nostro, è l'intreccio tra una valutazione di merito sulle misure che voi avanzate e il giudizio che noi ci permettiamo di esprimere sulla cultura che ispira quelle misure, se volete, è stato già detto, a partire dal calendario, dal titolo - i nomi sono importanti - e dalla data che voi avete scelto. Decreto Lavoro: lo avete battezzato così e lo avete varato in quel giorno altamente simbolico, che il collega Aiello ha appena ricordato nel suo intervento, ossia il 1° maggio. Il 1° maggio è la festa dei lavoratori, venne istituita più di 130 anni fa - 1889, a memoria - ed è un giorno che, nella storia, ha visto l'umanità degli operai, dell'impiego salariato, e poi, in anni più prossimi a noi, della precarietà, di pensionati maltrattati, giovani e donne, rivendicare il riconoscimento di un valore primario, che era quello della loro dignità. Insomma, per voi l'occasione era abbastanza imperdibile, io questo lo capisco. La stessa mattina che vedeva le piazze di tutto il Paese riempirsi e sfilare a fianco ai sindacati, nella richiesta di tutele e garanzie per chi non ne possiede, il Governo si riuniva e licenziava un decreto che quelle piazze avrebbe dovuto tacitare, mostrando il volto più concreto del nuovo potere nei confronti degli ultimi, dei penultimi e dei terzultimi della fila. Questo almeno doveva essere il racconto pensato per convincere milioni di italiani che la musica finalmente era cambiata, che era finito il tempo di un'assistenza costosa per migliaia di sfaccendati, abbandonati sul divano, e che si tornava al primato dell'impegno, della fatica, del merito.

E con lo stesso spirito, del resto, per tutta l'ultima campagna elettorale voi avevate promesso solennemente di esibire lo scalpo del reddito di cittadinanza. E alla fine, vede, Sottosegretario Durigon, un po' come in quei B-movie ambientati nel vecchio West - quelli meno epici, però, e più pistoleri -, alla fine lo scalpo lo avete esibito, con il risultato di togliere l'unico sostegno universalistico ad una serie di categorie, che, a vostro avviso, a vostra discrezione, non lo meritano, lasciandolo come un gesto di carità a quanti non potevate negarlo, donne e uomini ultrasessantenni, con un minore o un disabile a carico. E questo nonostante i dati ufficiali dell'ANPAL dicano che solo il 3 per cento dei percettori di quel sostegno sarebbe realmente occupabile. Però, questo è il primo segnale di quella coerenza - dal punto di vista vostro, ovviamente - tra il merito che avete scelto e la cultura che lo legittima. Voi sopprimete la misura universalistica che per tanti è stata una condizione di sopravvivenza, prevista, lo sapete benissimo, in tutta Europa e introdotta qui da noi con un grave ritardo, da principio col nostro reddito di inclusione e poi con quel reddito di cittadinanza, divenuto ai vostri occhi una specie di drappo rosso piovuto nell'arena. Con questa vostra norma, il 50 per cento delle persone che quel reddito hanno sinora percepito, lo perderà. Ma non vi siete almeno chiesti, in un sussulto di compassione, che cosa sarebbe accaduto materialmente in quelle case, in quelle famiglie? Lasciate stare noi, che siamo l'opposizione e facciamo un altro mestiere, ma ascoltate la Caritas, che, nelle audizioni al Senato, vi ha spiegato perché l'occupabilità di una persona non dipende solamente dall'età, ma vi incidono molti altri elementi - lo ha ricordato benissimo la collega Cecilia Guerra questo pomeriggio -, ossia la sua formazione e il contesto sociale dove nasce, dove cresce e dove vive. Basterebbe questo a rendere insopportabile l'abuso di potere che vi spinge a precipitare nell'angoscia centinaia di migliaia di famiglie, messe nella condizione di non quadrare più, non le vacanze al mare tra qualche settimana, che non faranno, ma l'affitto di casa, con le bollette o con il carrello della spesa da riempire il sabato pomeriggio.

Oltre a questo, però, quello che vi distingue, forse inconsapevolmente - è una mia curiosità, ma ne dubito -, è la vostra concezione della povertà, nel senso che quella metafora, effettivamente sgraziata, del divano, del rubare i soldi allo Stato, invece che impegnarsi a cercare un lavoro, rivela, fino in fondo - anche questo è stato accennato -, una concezione della povertà come colpa da espiare e non come ingiustizia da combattere. E non vi siete accontentati neppure di questo: avete voluto introdurre un'aggravante. Ve lo ricordate che, durante l'ultima sessione di bilancio, avete impedito l'adozione di un semplice aggettivo? Si dice che, nella lingua italiana, gran bella lingua, gli aggettivi abbiano per lo più una funzione descrittiva, ma non sempre è così: nel caso specifico, l'aggettivo era “congrua” e si riferiva al fatto che l'offerta di un impiego a un percettore del reddito di cittadinanza dovesse risultare compatibile con le sue condizioni di vita in termini di retribuzione, di ruolo e di luogo dell'impiego che gli veniva proposto. Insomma, per capirci, se l'offerta del lavoro contempla un reddito di 900 o 1.000 euro mensili, ma prevede il trasferimento a decine di chilometri di distanza dalla casa di residenza, è evidente che quell'offerta non è congrua e rischia solamente di peggiorare l'esistenza di quella famiglia.

Vi rubo un secondo sul tema, perché credo sia importante rispetto alle ragioni della nostra opposizione a questo provvedimento: l'idea che la povertà si debba considerare una colpa - questo desidero che lo sappiate, ma immagino che lo sappiate già - non è un vostro copyright, cioè non è una vostra esclusiva. Quell'impianto ha una tradizione molto consolidata nel pensiero più conservatore e più reazionario. Esiste una legge inglese di moltissimi anni fa, più o meno di un secolo e mezzo fa (mi pare si chiamasse New poor law) che prevedeva che qualunque persona, senza un'occupazione o un tetto sulla testa, fosse obbligata ad accettare un impiego a qualsivoglia condizione con qualsiasi salario, anche il più infimo, nello sfruttamento del suo corpo e delle sue braccia e, se si rifiutava, la pena era il ricovero coatto all'ospizio dei poveri. Ebbene, di quell'antica legge, anche volendolo, non trovate traccia nei documenti dei partiti di maggioranza o di opposizione di quel Paese, però - sempre volendolo e con il minimo sforzo - potete trovarla descritta nelle prime pagine di Oliver Twist, di Charles Dickens, del 1837. Come vedete, nulla di nuovo sotto il sole, salvo che pensavamo - e anche un po' speravamo – che, in un Paese quale il nostro, i riferimenti al valore e alla dignità del lavoro potessero trovare uno sviluppo diverso, una diversa evoluzione, fosse solo per quella dose di empatia e di vicinanza umana che dovrebbe spingere le classi dirigenti, le élite al potere, a coltivare una tensione e una cura costanti verso quelle che, tempo addietro, sono state battezzate come vite di scarto. Ma voi avevate bisogno di risorse, come tutti i Governi, del resto; la differenza, però, la fanno le scelte che ogni singolo Governo compie su dove andare a cercare quelle risorse. Avete presente il richiamo al fatto che non vi sarebbe più alcuna distinzione tra destra e sinistra e che, a contare, sarebbe solamente la concretezza delle soluzioni? Allora, per un istante, prendiamo per buono questo riflesso, anche se personalmente lo considero abbastanza assurdo; per un istante, ragioniamo sulle soluzioni. Un Governo può scegliere di andare a cercare le risorse, che servono a fare del bene agli ultimi e ai penultimi, recuperando una quota dei 100 e passa miliardi di evasione fiscale di questo Paese. In fondo, cosa ci sarebbe di male? Chi evade il fisco entra di diritto nello schema descritto dal professor Cipolla nel suo teorema sulle regole della stupidità umana. Secondo la teoria, nel quadrante dell'egoismo, si colloca chi, compiendo un atto dannoso per la comunità, sceglie di favorire unicamente se stesso. Allo stesso modo, sempre in quel teorema, il quadrante della massima virtù coincide, all'opposto, con l'intelligenza di compiere azioni che beneficiano chi le fa e, contestualmente, tutti gli altri. Pagare le tasse rientra a pieno titolo nel quadrante della virtù; vuol dire garantire a me stesso che, in caso di bisogno, sarò assistito da un ospedale pubblico con professionalità, ammesso che non costringiate altre migliaia di medici e infermieri a fuggire per i tagli insostenibili del settore, mentre non pagare le tasse equivale a un danno della comunità e, dunque, a un danno delle Stato e di chi lo gestisce - oggi voi - che si trova a disporre di risorse inferiori a quelle che sarebbero necessarie.

Come sapete, il quadrante del teorema dove è più sgradevole ritrovarsi è quello che contempla la scelta di agire in danno di se stessi e, allo stesso tempo, procurando danno agli altri. Secondo il teorema del professor Cipolla, in quel caso, si entra nel contesto più delicato, quello della stupidità umana.

Senza voler esprimere giudizi, tanto meno offensivi, essendo voi la maggioranza che oggi guida il Paese - e quindi il Governo -, chiedo proprio a voi, in base a questa logica, di giudicare dove andrebbe collocata l'affermazione secondo cui pagare le tasse corrisponderebbe a un pizzo dello Stato. Dunque, avevate bisogno di risorse e non avete deciso di andarle a prendere nel mare profondo dell'evasione. No. Le avete prese dalla misura del reddito di cittadinanza, per poter dire, in quella giornata del 1° maggio, che avreste tagliato il famoso cuneo fiscale, salvo il dettaglio che non l'avete fatto in forma strutturale, cioè in modo permanente, ma vi siete limitati a prevederlo ad una scadenza discretamente ravvicinata, più o meno alla fine di quest'anno. Che poi - siamo in tempo di esami di maturità - è come dire a un ragazzo appena diplomato con ottimi voti che finalmente avrà il motorino agognato e, quando glielo si consegna, corredato di libretto, chiavi in mano e assicurazione, appena sale in sella, gli si comunica che il mezzo è a scadenza, come lo yogurt. Sarà felice il ragazzo? Questo lo lasciamo valutare a voi.

Abbiamo avanzato proposte ed emendamenti, sia al Senato sia qui, per rendere strutturale quel taglio, ma, nonostante avessimo indicato anche le coperture necessarie, non avete ritenuto di ascoltare una sola volta la voce dell'opposizione.

Vi abbiamo anche chiesto, nel contesto di questo confronto, di cambiare rotta sul salario minimo, altra misura prevista ovunque (salvo che qui e in una manciata di Paesi, peraltro, non tra i migliori), ma anche su questo la saracinesca è rimasta abbassata, perché, per la vostra visione del Paese, la competitività delle imprese non passa da un incremento della produttività, da investimenti su ricerca e sviluppo e da un'innovazione della qualità del lavoro e dei prodotti. La vostra strada è sempre la stessa, quella che ha spinto al declino tanti nostri comparti produttivi: una compressione dei salari, già colpiti dall'inflazione - quella sì, la tassa più ingiusta - e tutto questo in un Paese dove un terzo dei dipendenti privati non raggiunge i 12.000 euro di salario annuale, dove la disoccupazione tra i giovani sfiora un quarto del totale, dove il 12 per cento dei lavoratori vive in condizioni di povertà e 3.000.000 risultano essere totalmente irregolari.

Ecco perché servirebbe investire nella lotta alla precarietà. Per il contrasto a ingiustizie insopportabili e per costruire e favorire la competitività della nostra economia basterebbero tre mosse simultanee (rubo questa sintesi all'ex Ministro Fabrizio Barca): un'efficacia erga omnes dei contratti firmati dalle organizzazioni sindacali e datoriali rappresentative; una soglia minima legale per il salario di ogni lavoratrice e lavoratore; il rafforzamento e l'unificazione delle capacità ispettive. Ma è esattamente l'opposto di quello che fate voi.

Allora, anche nel caso del salario minimo, più delle parole, a contare sono le storie, le vite: oggi, nella sola logistica, migliaia di lavoratori, inquadrati formalmente come addetti alla vigilanza, sono pagati 5,37 euro l'ora, per un totale di 173 ore mensili, con una retribuzione netta di 650 euro; significa rimanere molto al di sotto della soglia di povertà. Parliamo di retribuzioni non indicizzate all'inflazione, che, negli ultimi due anni, si è mangiata quasi il 15 per cento del potere d'acquisto di queste fasce di occupati. In questi segmenti, anche i sindacati faticano a entrare, mentre molti di questi lavoratori sono inquadrati come autonomi, anziché come dipendenti. Parliamo di una giungla di contratti e retribuzioni, dove sarebbe giusto intervenire con una legge sulle rappresentanze, in modo da disboscare la selva di accordi fittizi o pirata, e dove, soprattutto, un salario minimo - insisto -, applicato in gran parte dei Paesi OCSE, farebbe emergere dal sottosuolo la dignità di donne e uomini, spesso giovani e con bassa qualifica, che non meritano il destino al quale la politica, in questi anni, li ha relegati.

Come vedete, colleghe e colleghi, sul merito delle misure che intendete approvare, le nostre obiezioni hanno provato a correggere un provvedimento scritto male e pensato anche peggio.

Per molti versi, è anche un provvedimento offensivo verso qualche milione di lavoratori e di disoccupati, che non avrebbero voluto ricevere da voi né benevolenza né carità ma solamente certezza del diritto, in un Paese che troppo spesso questa certezza calpesta. Il dramma dei salari bloccati da 30 anni, contratti scaduti e non rinnovati per milioni di lavoratrici e lavoratori sono tutti elementi che condannano o rischiano di condannare all'irrilevanza quel capolavoro di significato e linguaggio scolpito all'articolo 36 della nostra Costituzione, quello dove si parla del diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato e, comunque, tale da garantire alla persona e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Ma quelli erano dei geni. Libera e dignitosa, appunto, perché, poi, libertà e dignità sono sempre stati capisaldi di una concezione matura del lavoro e del valore che aveva e che dovrebbe tornare ad avere nella vita delle persone.

Lo sa perché, lo sapete perché, Sottosegretario Durigon, in apertura dei vecchi copioni teatrali di commedie o tragedie passate alla storia che ancora sia presentano sui palcoscenici di mezzo mondo, i personaggi dell'opera vengono descritti con il nome, il cognome e il grado di parentela e quasi sempre a fianco c'è il mestiere, la professione che esercitano? Accade e accadeva, perché indicare quella qualifica, la professione, era una primissima nota della regia, era il modo di dettagliare la natura e l'identità del personaggio, persino la sua psicologia, nella consapevolezza che un ciabattino non osservasse il mondo con gli stessi occhi di un aristocratico. Ma è tutta la nostra cultura, la letteratura intrisa di questo significato del lavoro, del valore del lavoro. Sottosegretario, quando Pinocchio viene turlupinato dal Gatto e la Volpe, che lo convincono a sotterrare gli zecchini nel Campo dei miracoli, l'argomento che i lestofanti utilizzano è che, la mattina dopo, lui, Pinocchio, avrebbe trovato appesi all'albero tanti zecchini d'oro - testuale nella lingua di Collodi - quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno. Non è una formula buttata lì, tanto per dire: Collodi voleva esprimere il contrasto tra le arricchimento facile paventato dai due imbroglioni - potremmo paragonarlo alla speculazione finanziaria - e la fatica del lavoro, della cura della terra, affinché produca dei semi il frutto. Il grano è la sorgente del cibo - il cibo -, che, poi, è la prima fonte della dignità.

Capite perché, prendendovela con quelli che con il reddito di cittadinanza sono sopravvissuti, reintroducendo i voucher, alimentando ancora di più il lavoro precario, sventolando il taglio del cuneo, al caldo dell'estate, ignorando cosa sarà dell'inverno, voi pensate di guadagnare qualche consenso? Ma nemmeno su questo io mi cullerei in grandi certezze. Io so, invece, che è mancato l'appuntamento più prezioso, che è quello con la storia migliore di questo Paese, con un'etica del lavoro che in tanti abbiamo conosciuto da ragazzi dentro le nostre famiglie, per la testimonianza di genitori, nonni, parenti magari lontani e che alcuni tra noi hanno conosciuto dentro circoli e sezioni dei partiti dove abbiamo militato, militiamo, e dove poteva accadere che l'operaio discutesse da pari a pari con il primario o il preside della facoltà, perché accomunati dall'idea che il lavoro di ciascuno fosse sempre meritevole della massima considerazione e dignità.

Noi siamo all'opposizione, noi facciamo l'opposizione, anche se proviamo a ragionare in quest'Aula per migliorare i provvedimenti che trovano sempre un muro da parte vostra. Che dirvi? Che continueremo a farlo, ma per la semplice ragione che crediamo sia giusto per la principale forza della sinistra farsi carico di quante e quanti qui dentro non ci sono e non hanno voce. Presidente, colleghe e colleghi, dare voce a chi non ne ha e rivendica i suoi diritti lo si può fare in modi diversi: la sola cosa che, di fatto, è impedita è farlo mancando a loro, alle donne e agli uomini che lavorano o che il lavoro lo cercano, il rispetto di se stessi. Questo non sempre la politica lo ha compreso. Invece - ho accennato al teatro e con il teatro chiudo -, dopo la tragedia della guerra, lo compresero benissimo Paolo Grassi e Giorgio Strehler e il Piccolo Teatro di Milano che, grazie al comune e a un sindaco illuminato, nella sala storica di via Rovello, avevano fondato il primo teatro stabile dell'Italia liberata e repubblicana. E sapete che cosa fecero? Decisero, Sottosegretario Durigon, che il lunedì, come oggi, ogni lunedì, alle 19,30, ci fosse una replica straordinaria dello spettacolo in cartellone. Poteva essere Goldoni, Shakespeare, Molière o Čechov: quella replica era dedicata agli operai, alle lavoratrici e ai lavoratori che finivano il turno alle 18,30. La maggior parte di quelli non abitava a Milano, nelle case del centro, venivano da Sesto San Giovanni, da altri comuni della provincia. Allora che cosa si inventarono quei due? Due cose si inventarono: che, assieme al biglietto della replica, consegnavano a tutti un sacchetto con dentro un panino e una bibita e che, alla fine dello spettacolo, in assenza di mezzi pubblici, fuori dal teatro avrebbero trovato degli autobus per riportare a casa quegli spettatori nuovi, i più preziosi, che, la mattina dopo, avevano da stare in fabbrica o in ufficio. Vedete cosa vuol dire pensare al lavoro come al complemento di una vita piena, vissuta nel calore della dignità e della cultura? Tutto qui. Ma sapete quale è la realtà, la più sincera per noi, la più triste per voi? Che sul divano non ci sono i fannulloni, sul divano ci siete voi. Anche per questo, per non lasciarvi troppo comodi dove state, voteremo contro al vostro decreto.