Discussione generale
Data: 
Lunedì, 5 Agosto, 2024
Nome: 
Rachele Scarpa

A.C. 2002

Grazie, Presidente. Se c'è una cosa che spero di aver imparato in questi due anni da parlamentare è che quando si mette piede nelle carceri serve fare uno sforzo maggiore rispetto al resto delle nostre attività. Una ginnastica che è alla base del nostro lavoro politico; un esercizio di opposizione a quello che forse è uno spontaneo moto di evitamento; un esercizio, quindi, di vicinanza, di empatia, di comprensione, di interessamento morale a quello che succede all'interno delle carceri e a tutti gli aspetti della vita ristretta. Un esercizio necessario che costa uno sforzo doppio rispetto a tante altre questioni di cui ci occupiamo. È uno sforzo che deve nascere per forza, dunque, dalla consapevolezza che il carcere, per ciò che è e per come è strutturato, insieme alla segregazione della delinquenza, tende a mettere automaticamente in atto meccanismi di rimozione: rimozione dell'interesse; rimozione della coscienza; rimozione, appunto, dell'empatia, della capacità di immedesimarsi nella persona che si ha di fronte.

Eppure, dovremmo essere soprattutto noi che siamo istituzione a saperlo: la prigione non è un limbo fuori dalla società; non è un'isola che si può semplicemente fingere che non esista e dimenticare; è parte integrante di ciò che siamo come società e come Paese ed è nell'esercizio della privazione della libertà dei condannati che si esercita la massima responsabilità delle istituzioni.

Ciò che ci sforziamo di vedere e che vogliamo cambiare fuori dal carcere dovremmo, dunque, ugualmente sforzarci di vederlo e di volerlo cambiare all'interno. Non è indulgenza - io credo - non è buonismo, non è eccesso di generosità; è rappresentazione dello Stato, è cultura democratica, è linea di confine tra lo Stato di diritto e qualcos'altro.

Ma da questo spunto di approccio alla questione e alla discussione, io il mio esercizio ho provato a farlo su un tema che mi sta molto a cuore, che è quello della salute mentale. Una questione che, fuori dal carcere, ha subito dei processi, prima di stigma, poi di dimenticanza e, in generale, di complessiva svalutazione

Un tema sul quale, anche solo per trascinare il Paese alla soglia della consapevolezza, sono serviti lo schiaffo della pandemia, le manifestazioni e le grida di aiuto di intere generazioni e anche i gesti estremi di alcuni giovani. E la consapevolezza è rimasta ancora troppo poca su questo tema. C'è, ovviamente, a voce e c'è sui programmi di tutte le forze politiche, a prescindere dal colore, ma è ancora troppo poca per capire, ad esempio, che sulle cause profonde di alcuni problemi bisogna investire ad ampio raggio sulle cause sociali ed ambientali dei disagi relativi alla salute mentale e, soprattutto, in ottica preventiva oppure contro lo sfaldamento del Servizio sanitario nazionale, delle reti dei servizi sociali.

Tanta, insomma, è la strada da fare per quanto riguarda la salute mentale fuori dal carcere. Poi, si arriva in carcere e tutti i passi di trasversalità e anche di incontro che si possono trovare su questo tema al di fuori semplicemente non esistono più; anzi, si va in retromarcia, si rinnega e si cancella tutto ciò su cui si è arrivati a concordare; addirittura, forse, ci si sputa sopra.

In carcere, la salute mentale conta così poco che il suicidio di 62 persone, dall'inizio del 2024, passa quasi come un dato normalizzato. L'ho sentito anche nella discussione di oggi: ci si è soffermati, forse, un po' poco su quanto sia problematico questo dato che viene così naturalizzato e quasi considerato connaturato alla natura della detenzione stessa.

Sono danni collaterali, sono vite perdute ma, del resto, erano vite già perdute prima di entrare in carcere perché, evidentemente, erano vite ai margini ed evidentemente, forse, di finire così se l'erano meritato. Sono vite a cui lo Stato rinuncia in partenza, già nel momento in cui fanno ingresso nelle strutture penitenziarie. Sulla salute mentale delle persone private della libertà personale si permette una noncuranza e una rassegnazione che mai ci si permetterebbe con nessun'altra categoria sociale, come se la condanna alla reclusione rappresentasse, di per sé, un necessario annullamento della dignità del diritto alla salute mentale e, quindi, della dignità della persona. Persino la morte, dunque, improvvisamente diventa accettabile dietro le sbarre.

È proprio il contrario di quanto dice l'articolo 27 della Costituzione, per cui le pene dovrebbero consistere in trattamenti non contrari al senso di umanità, dovrebbero tendere alla rieducazione e per cui non è ammessa la pena di morte, ma questa cosa non sembra scuotere veramente gli animi, almeno finché il Presidente della Repubblica non fa un richiamo e il problema diventa così grosso e così pesante che, dopo due anni di Governo, almeno un decreto, forse, è il caso di farlo.

La rassegnazione e la noncuranza di questo Governo e di questa maggioranza rispetto al tema della salute mentale in carcere io la riscontro sia in che cosa non fa questo decreto, sia in che cosa fanno, parallelamente, gli altri provvedimenti che vanno inevitabilmente ad incidere sulla questione. Quello che non fa questo decreto, a mio parere, innanzitutto è prendere atto del forte legame di causalità tra suicidi, atti di autolesionismo, tentati suicidi e le condizioni materiali di vita all'interno del carcere. Abbiamo ascoltato diverse dichiarazioni di eminenti esponenti della maggioranza che lasciavano intendere un ridimensionamento della gravità della questione e del legame che, secondo me, invece, esiste.

La popolazione detenuta è aumentata, negli ultimi due anni, del 10 per cento; in un carcere su 4 il tasso di sovraffollamento è di oltre il 150 per cento; in una ventina di istituti in Italia si va dal 170 al 225 per cento di tasso di sovraffollamento. Quindi è qui, nelle temperature estreme, nella privazione completa degli spazi personali e degli spazi sociali e, quindi, anche di tutti i progetti che in quegli spazi dovrebbero essere portati avanti, nell'insufficienza numerica del personale - non solo quello penitenziario, ma anche quello psicologico e degli assistenti sociali -, nella solitudine e nelle condizioni igieniche rese insopportabili dal sovraffollamento che il carcere finisce per produrre, o quantomeno, slatentizzare la malattia mentale. Diventa collettore, diventa amplificatore, diventa produttore di forme più o meno gravi di disagio psichico.

Ciò che questo decreto non fa, dunque - ed è stato ampiamente analizzato - è aggredire la natura patogena della detenzione nel nostro Paese. Questo decreto non lo cita neanche il tema del sovraffollamento, ma propone la costruzione nel lungo termine, in 2 o 3 anni, di nuove strutture per nuovi posti, propone un commissario straordinario con poca capacità di spesa e, probabilmente, molta poca capacità di incisione, e inoltre si fantastica di mandare i detenuti a scontare la loro pena nel Paese d'origine, come se i rimpatri avessero funzionato fino adesso, come se fosse un sistema che siete stati in grado di dimostrare che funziona nella realtà, come se non fosse, comunque, veramente cinico come approccio alla questione.

Poi ci sono le proposte delle opposizioni che sono state tutte inevitabilmente e inesorabilmente bocciate, non che ci si aspettasse diversamente, se non per il fatto che questo è un tema che, appunto, veramente ci dovrebbe coinvolgere e responsabilizzare tutti e, quindi, sul quale, forse, valeva anche la pena aprirsi un po' di più, oltre l'ideologia, oltre l'esigenza di affermare la propria visione.

Tutti gli emendamenti delle opposizioni sono stati bocciati, quindi avete detto “no” alle pene alternative, alle misure extra carcerarie di detenzione, “no” a più risorse, perché anche qui apprezzo che vengano citati dati, ma non vengono citati in relazione alla proporzione del fenomeno; non vengono citati rispetto alla quantità dei detenuti e rispetto soprattutto alla capacità di spesa della giustizia in Italia, che è di 11 miliardi e su cui qualche milione forse incide un po' poco. Quindi, “no” a più risorse per il lavoro, per la formazione e per la socializzazione, “no” a più risorse per figure multidisciplinari come gli psicologi e i mediatori culturali, “no” alla liberazione anticipata, “no” a un vero piano di assunzioni, perché 1.000 unità - diciamocelo - sono un po' una presa in giro, e di formazione della Polizia penitenziaria, “no” a più telefonate e videochiamate con i familiari, perché anche qui passare da 4 chiamate al mese a 6 chiamate al mese non è il massimo che si poteva fare e si sarebbe potuto fare un po' di più, “no” all'affettività e alla sessualità all'interno delle carceri, “no” alle misure che riguardano più ore di apertura delle celle e videosorveglianza. Insomma, avete rinunciato deliberatamente a cambiare l'ambiente che in modo conclamato in questo momento genera malattia mentale e la risputa all'interno della società, inasprita, sola, abbandonata e spesso anche arrabbiata, e di questo, purtroppo, sembra evidente che nessuno si prenderà la responsabilità politica e morale.

Tutte queste rinunce venivano fatte mentre, non più di una settimana fa, alla Camera si faceva la forzatura rilevante di passare tutta la notte in Commissione per approvare in fretta e furia più emendamenti possibili per provare a chiudere - non so neanche con quale calcolo e stima dei tempi o di tattica parlamentare - il DDL Sicurezza che, un nuovo reato dopo l'altro, moltiplicherà le presenze in carcere e sottrarrà anche ogni tipo di garanzia democratica alle persone detenute.

Un'altra cosa che non fa, poi, questo decreto Carceri, oltre a non occuparsi della natura patogena del carcere, è farsi carico di chi alla fine seriamente subisce questo sistema. Prendiamo atto di un problema, ad esempio. Il principale strumento di governo della salute mentale in carcere in questo momento è il ricorso massiccio agli psicofarmaci, utilizzati con finalità non solo terapeutiche e sanitarie ma anche di sedazione collettiva e pacificazione delle sezioni.

Riprendiamo, dunque, l'esercizio iniziale. In nessun altro luogo varrebbe la raccomandazione di considerare l'intervento psichiatrico come la principale parte dell'azione più vasta di tutela della salute mentale. In carcere, invece, questo approccio è l'unico che rimane, l'unico che viene realmente praticato in modo sistemico, solo che con risorse a disposizione sempre più scarse e sempre più inadeguate. Quindi, nella rinuncia completa a misure alternative, a percorsi territoriali di reinserimento e di cura, si ritorna, alla fine e inesorabili, alla fantasia della detenzione manicomiale.

Ciò che non è esplicitato nel DL Carceri, perché non lo è (comunque il DL Carceri non affronta particolarmente bene il problema delle REMS e non prevede miglioramenti o investimenti su questo fronte), lo esplicita con molta chiarezza qualche esponente della maggioranza. Mi riferisco, in particolare, a una proposta di legge che è arrivata in Senato, quella del senatore Zaffini, sottoscritta da numerosi colleghi di Fratelli d'Italia, che, partendo da un forte accento sul concetto di pericolosità di chi ha un disturbo mentale, sdogana per legge misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali con modalità che evocano, senza nominarlo, il regolamento manicomiale del 1909, invece di valorizzare o di estendere le pratiche e i servizi che operano da tempo senza il ricorso alla contenzione.

Similmente al DL Carceri, dunque, che pensa di aggiungere posti in carcere senza cambiare il modo in cui il carcere funziona, la proposta di Zaffini prevede un aumento dei posti letto nei servizi di diagnosi e cura ma non risorse per i centri di salute mentale sul territorio, non un aumento di personale. L'approccio, insomma, rimane sempre quello: ospedalizzare e segregare, separare i pazienti dalle famiglie e dalle società piuttosto che curarli nel loro contesto. Si tornano a evocare le misure di sicurezza speciali, coinvolgendo il Ministero della Giustizia. Si insiste sulla pericolosità sociale delle persone con disturbi mentali quando sono linee guida che sono state sconfessate dalle Nazioni Unite stesse.

E, ancora, all'articolo 2, si propongono screening sugli adolescenti e sugli infanti per provare a rilevare problemi psichici fin dall'inizio, ma, allo stesso tempo, non si mette in campo niente sulla presa in carico. Nel frattempo, le neuropsichiatrie infantili sono state smantellate, sono in profonda crisi, le famiglie chiedono aiuto, disperate, e si scontrano con il vuoto pneumatico dei servizi sul territorio.

Sembra che si sia rinunciato in partenza a portare a termine l'applicazione della legge n. 180 che mise fine all'orrore dei manicomi, ma che andrebbe potenziata ancora molto, probabilmente, in termini di ampliamento dei servizi territoriali, di vera e propria applicazione di quello che Basaglia aveva pensato.; allo stesso modo con cui questo decreto rinuncia all'obiettivo rieducativo della detenzione e alla risoluzione del problema del sovraffollamento.

Dietro a questi approcci, che forse sono utili alla propaganda, ma che sono dannosi della sostanza, si nasconde, purtroppo, tanta insicurezza, si gettano i semi di un grande pericolo sociale per il futuro. Quindi, l'invito è di fare un esercizio di interessamento morale, se non per le persone detenute, che sono invisibili e marginalizzate, almeno su di noi, sulle nostre strade, sui nostri servizi sociosanitari, sull'immagine che desidereremmo vedere di noi, che siamo lo Stato, nel momento in cui ci guardiamo allo specchio. Colpisce veramente il cinismo con cui la maggioranza sceglie di affrontare questa questione, anche solo in discussione generale, con un'impronta puramente rivendicativa del “stiamo già facendo il massimo, meglio di così non può andare”. Ma quest'anno abbiamo già 62 suicidi riusciti, perché poi non si contano i tentativi, non si contano gli atti di autolesionismo.

La situazione nelle carceri parla da sola e sembra che chi è al Governo non sia capace, in nessuna occasione, di praticare quell'esercizio di immedesimazione che, forse, proprio per questa situazione, è il più opportuno. Ma, se ci fossi io, con altre sei persone, in una stanza pensata per tre, su letti a castello impilati l'uno sull'altro, a fare la coda per fare la doccia nella stessa turca in cui faccio i bisogni, con 45, 46, 47 gradi d'estate e con un gran freddo d'inverno; se ci fossi io, con l'incertezza del dopo, con la paura dello stigma del dopo e con la prospettiva di non avere nient'altro per cui vivere, perché, all'interno del carcere, non mi viene data; o se ci fosse mio figlio, insieme a me, dietro quelle sbarre seduto a giocare, con nulla, probabilmente, su un pavimento di cemento, senza aver mai corso in un parco, senza aver mai conosciuto il cielo e mi guardasse negli occhi e mi dicesse solo “apri e chiudi”, sarei contenta io di quello che sto facendo? Evidentemente, per alcuni colleghi di maggioranza la risposta è: sì, avanti così.

E, allora, speriamo che abbiate ragione, perché il problema è troppo grave per continuare a sperare che vada avanti così. Noi non saremmo soddisfatti del fallimento e dell'inefficacia di queste misure e continueremo a sollecitarvi con quelle che crediamo essere state proposte valide.

Se continuerete a scegliere la propaganda rispetto a un atteggiamento banalmente democratico, di ascolto e di confronto su questioni così gravi, ne prenderemo atto. Ma spero che sappiate che lo state facendo sulle spalle di decine di migliaia di persone detenute che, in questo momento, non stanno scontando la pena per cui sono state condannate, stanno scontando qualcosa di ben peggiore.