Dichiarazione di voto
Data: 
Martedì, 4 Aprile, 2023
Nome: 
Mauro Berruto

A.C. 715​ e abbinate

Grazie, Presidente. Signor Ministro, onorevoli colleghe e onorevoli colleghi, sono tante le definizioni che potremmo utilizzare per definire cosa sia lo sport; nessuna sarebbe esaustiva, perché lo sport ha troppo a che fare con ciascuno di noi ed è giusto trovare, dunque, la propria collocazione nella grande costellazione dello sport. Se volessimo semplificare una materia così complessa, potremmo dire che lo sport fa due grandi cose: da un lato, lo sport praticato, agito, indipendentemente dal talento, dal livello, genera benessere, salute e contribuisce a definire il sé e la relazione con gli altri, compagni di squadra o avversari che siano; chi è stato, anche solo una volta, in uno spogliatoio lo sa bene; dall'altro lato, lo sport - e non solo quello di vertice - produce uno spettacolo e, di conseguenza, ispirazione. Lo sport ricerca la paura, per dominarla, la fatica, per trionfare su di essa, la difficoltà, per vincerla, diceva Pierre de Coubertin; eccola, allora, una buona definizione di sport, potrebbe essere questa: l'arte del mettersi alla prova, non perché sia facile, non perché sia comodo; anzi, la difesa del valore della fatica come vera medicina del mondo forse resta soltanto appannaggio dello sport, lo dimostravano già gli atleti che gareggiavano nell'antica Olimpia. Così come gli amanti della sapienza praticavano la filosofia, o la solidarietà per gli stranieri era definita filoxenìa, gli atleti praticavano la filoponìa, esattamente l'amore per la fatica.

Non solo; lo sport è un linguaggio universale, capace letteralmente di arrivare in ogni angolo del mondo, come forse solo la musica è in grado di fare; lo sport supera barriere linguistiche, i suoi grandi campioni possono rivolgersi a platee planetarie, potenzialmente hanno in mano una piattaforma più forte di ogni totalitarismo politico o religioso; pensate a quelle fotografie di migranti che arrivano da scenari di guerra o di povertà estrema, c'è sempre almeno un ragazzo che indossa la maglia di una squadra di calcio; ecco, nella trama di quella maglia, nelle fibre di quel tessuto c'è la stessa passione che fa battere il cuore nello stesso modo a un diseredato come a un miliardario. La storia stessa dello sport si intreccia con la storia del Paese e, più in generale, con la storia del mondo, con la geografia, con la sociologia, con l'antropologia, con l'arte, con la scienza, con la letteratura, con la politica. Lo sport è un fatto sociale totale e, dunque, lo sport è anche un fatto culturale, ovvero la straordinaria espressione, insieme spirituale e fisica, capace di educare la testa prima che il fisico. Tutto ciò richiede, come ogni allenatore sa bene, scienza e arte, tecnica e ispirazione. Per questo motivo la collocazione scelta, l'articolo 33, è quella ideale, anzi, la più suggestiva: lo sport proprio lì, fra l'arte e la scienza, che sono libere, come libero ne è loro insegnamento. Ma non solo; l'articolo 33, come è evidente, è, a sua volta, un ponte fra l'articolo 32, che difende il diritto alle cure, alla salute, nella forma universalistica, e l'articolo 34, che tutela al diritto all'istruzione. Ecco che allora il neonato diritto allo sport non solo avrà necessità di politiche pubbliche per poter essere reso accessibile a tutte e a tutti, senza differenza di genere, di età, di orientamento sessuale, di talento, di abilità o disabilità, di provenienza geografica, soprattutto di disponibilità economica, perché non è un segreto che, nel nostro Paese, fino ad oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, fa sport solo chi se lo può permettere.

Insomma, il passo che ci accingiamo a fare impone un'accelerazione senza precedenti verso un dialogo, necessario e strutturale, dell'attività fisica, inclusa quella adattata per persone con patologie, con le politiche della salute e con quelle dell'istruzione. D'altronde, la formula scelta, ovvero “La Repubblica riconosce il valore educativo, sociale, di promozione del benessere psicofisico dell'attività sportiva, in tutte le sue forme” non lascia dubbi: quel verbo riconoscere è un verbo forte, determina la dignità di un diritto che si manifesta in tre declinazioni, con il valore educativo, che impone alla Repubblica di mettere i suoi cittadini nelle condizioni di esercitare un diritto che è anche uno splendido dovere, come quello genitoriale, il diritto-dovere di tutte le agenzie che si definiscono educative, appunto; la famiglia, la scuola, le associazioni, quelle che si occupano di persone con disabilità, ma anche, per esempio, gli istituti penitenziari, che hanno proprio obiettivi rieducativi nei confronti dei detenuti. Ci sarà, dunque, un dovere in capo alla Repubblica, rispetto ai suoi compiti educativi e rispetto alla necessità di creare un ecosistema favorevole, affinché chi si occupa di progetti educativi sia messo nelle condizioni di farlo, anche attraverso lo sport, nel modo migliore possibile.

Lo sport ha un valore sociale, dunque è strumento di inclusione, di relazione, di costruzione del senso del sé, soprattutto in età giovanile, di percezione di un sé ancora centrale e utile al patto sociale in età più avanzata o nella terza età.

Forse noi oggi pensiamo, come è giusto, di fare un passo in avanti, in termini di cultura sportiva del Paese, per il futuro dei nostri giovani, ma, in realtà, stiamo facendo di più: stiamo accendendo una scintilla che riguarda anche i nostri anziani. Pensate a quanto fa la danza per le persone anziane in termini di salute, di relazione e di socialità. Pensate a cosa può fare lo sport per quegli 800.000 ragazzi e ragazze di seconda generazione che sono nati qui, che vanno a scuola qui e che sognano, grazie anche allo sport, di poter rappresentare il nostro Paese. Crediamo che occorra trovare il modo per dare loro il passaporto italiano, non solo per meriti sportivi, ma perché è giusto.

Il terzo valore che la Repubblica riconoscerà è il benessere psicofisico generato dallo sport. In questo caso non ci sono dubbi: ci si riferisce da un lato, con il prefisso psico, a un equilibrio che passa dalla sicurezza in se stessi, alla costruzione del sé e all'affermazione del sé in un contesto sociale fatto di regole, di rispetto, di accettazione del confronto con un avversario, anzi della necessità di un avversario, perché senza l'avversario non si può giocare alcuna partita, e questa forse è una lezione anche per noi, in questo Parlamento. Dall'altro lato, si riferisce all'aspetto del benessere fisico, che non è solo assenza di malattia. Su quest'aspetto torniamo, ancora una volta, nel campo dialettico del diritto-dovere, perché la demografia, che è una scienza, ci ricorda che siamo un Paese che invecchia; senz'altro un'ottima notizia. Nello specifico, siamo i primi umani della storia che aumentano la propria aspettativa di vita semplicemente vivendo. Ma se, oggi, l'aspettativa di vita nel nostro Paese è di oltre 82 anni, l'aspettativa di vita in salute, ovvero quella senza incidere sul Servizio sanitario nazionale per le necessità di cura, è di poco superiore ai 60 anni e la scienza demografica ci ricorda che nel 2050 il nostro Paese sarà composto, per i due terzi della popolazione, da persone over 65, ovvero due cittadini su tre saranno fuori da quello che oggi è il perimetro di aspettativa di vita in salute. Dunque, anche un bambino può intuire che il modello attuale di welfare non sarà più sostenibile. Ma la cultura del movimento e l'attività sportiva, come dimostrato dalla letteratura scientifica, sono strumenti capaci di generare un risparmio al Servizio sanitario nazionale fra le 4 e le 7 volte superiore all'investimento, soprattutto per le patologie metaboliche croniche, come il diabete, o le patologie cardiovascolari, ma anche per i disturbi dell'umore o per alcune patologie tumorali. Ecco perché la cultura del movimento diventa, oltre che un diritto, anche un bellissimo dovere. Prendersi cura di sé non solo significa avere un vantaggio di salute individuale, ma è anche il modo di prendersi cura della comunità, di incidere meno sui costi necessari alle cure e permettere al diritto alla salute di essere esercitato così come lo conosciamo oggi, in forma universalistica e gratuita.

Meno misurabile, ma altrettanto fondamentale è un altro valore che lo sport insegna e che mi consente di smentire, se mi permettete, una leggenda metropolitana. Lo sport non insegna a vincere: lo sport insegna a perdere, perché nello sport si perde molto di più di quanto si vinca e, in questa nostra società della prestazione ipercompetitiva, che avviene qualche volta in modo feroce, il valore non della sconfitta in sé, ma di cosa tu fai con la sconfitta, come a essa reagisci, in maniera proattiva, è un insegnamento prezioso.

Il 6 aprile, ossia tra due giorni, sarà la Giornata internazionale dello sport per lo sviluppo e la pace. Ci arriveremo con questo provvedimento, su cui il Partito Democratico, senza alcun dubbio, esprime il suo voto favorevole. Il Partito Democratico esprime un sostegno pieno non solo per ciò che potrebbe sembrare un fatto simbolico; no, è un voto che determina un cambio di paradigma, che mette lo sport al centro delle priorità delle politiche del Paese. Soprattutto, è un voto - il nostro, il vostro e quello di tutto questo Parlamento - che parla a milioni, milioni e milioni di persone che hanno tenuto in piedi, per 75 anni, lo sport nel nostro Paese. È un voto che parla a centinaia di migliaia di associazioni - dirigenti, volontari, amatori, dilettanti - che hanno compiuto la loro missione con pochissime risorse, ma con un'enorme e inesauribile motore: la forza di volontà.

Non voglio idealizzare. Lo sport non è certamente un mondo perfetto, come non è perfetto il mondo dell'economia, dell'arte o della politica, ma è fatto da milioni, milioni e milioni di persone che spesso allo sport hanno dedicato la loro intera vita: presidenti che hanno costituito associazioni, assumendosi responsabilità personali da far venire i brividi, mecenati, persone che hanno aperto le palestre, altri che le hanno pulite, genitori trasformati in segretari, dirigenti, accompagnatori o autisti del pulmino, ragazzi e ragazzi con talento o senza talento, normodotati, diversamente abili, partiti magari da un ente di promozione sportiva, da un oratorio o da un gruppo sportivo scolastico, per arrivare a far emozionare fino alle lacrime il Paese intero, partecipando ai Giochi Olimpici o a quelli paralimpici.

È per loro - e chiudo - che il nostro piccolo gesto, che ciascuno di noi sarà chiamato a fare, schiacciando un tasto qui davanti ai nostri banchi, rappresenterà il riconoscimento di una vita intera: riconoscerà loro la dignità di essere stati utili, anche facendo una cosa piccola, senza avere mai visto il proprio nome o la propria fotografia su un giornale sportivo, ma che è servita a rendere questo Paese migliore. Il voto che stiamo per esprimere non rappresenta solo questo “grazie”, ma è una decisione che riguarda il futuro, è un punto di non ritorno. È a loro che oggi stiamo dicendo che lo sport e la cultura del movimento di questo Paese sono un patrimonio, una ricchezza, un investimento per il futuro.

Sono abituato a festeggiare dopo che la partita è finita e oggi la partita non è finita. Servirà ancora una lettura al Senato e poi l'ultima qui alla Camera dei deputati, dove 75 anni e qualche mese fa quest'Aula votò la nostra Costituzione.

Mancava una cosa per i nostri padri e per le nostre madri costituenti in quel momento storico e non poteva che essere così, perché serviva discontinuità rispetto a un modo di intendere lo sport basato su ragioni propagandistiche e divisive. Ma, per fortuna, il mondo è cambiato e lo sport ha contribuito a cambiarlo in meglio e, oggi, senza nascondere l'emozione infinita e il senso di responsabilità, è nelle nostre mani il compito di completare quel lavoro.