A.C. 976-A
Grazie, Presidente. Onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, rappresentante del Governo, seppur nella doverosa sintesi, è necessario intervenire, anche a nome del gruppo del Partito Democratico, per ribadire la posizione che abbiamo già espresso in numerose sedi, che ha espresso molto chiaramente l'onorevole Debora Serracchiani, con una premessa essenziale per il legislatore nazionale: quando si approccia ad uno statuto di autonomia, che è quello in ragione dell'articolo 116, comma 1, della nostra Carta costituzionale, va seguito il principio di tutela dell'autonomia e specialità della regione Friuli-Venezia Giulia.
Va ricordato che, nel giro di pochi anni, lo statuto di autonomia torna all'esame di questo Parlamento con un articolato che va diametralmente a cozzare con l'ultima novella: la legge costituzionale 28 luglio 2016, n. 1. È evidente, in via preliminare, che un delicato strumento, quale uno statuto di autonomia, richiede a tutti, proprio a partire dal Parlamento, una maggiore prudenza nel valutare modifiche che intervengano sui medesimi profili di recenti novelle. Non è un buon esercizio di legislazione e rischia di incentivare un'altalena di modifiche che segue le singole maggioranze regionali o nazionali, invece che, come si diceva, porre al centro delle questioni la reale tutela dell'autonomia e della specialità della regione Friuli-Venezia Giulia.
Nel valutare la proposta di legge in esame sono necessarie alcune considerazioni preliminari, che attengono allo status di autonomia speciale della regione Friuli-Venezia Giulia, al quadro delle competenze ad oggi presenti e previste, alle possibili innovazioni in ragione degli interventi sullo statuto di autonomia, sia attraverso il processo di modifica a mezzo di legge costituzionale, come nel caso oggi in esame, che utilizzando il peculiare sistema delle norme di attuazione dello statuto, regolate con un processo bilaterale in sede di Commissione paritetica Stato-Regione, ai sensi dell'articolo 65 dello statuto del Friuli-Venezia Giulia. Si tratta di una valutazione preliminare, perché il percorso di modifica dello statuto di autonomia attraverso il ricorso a legge costituzionale è da considerarsi extrema ratio, nell'impossibilità di perseguire le attese finalità con il massimo grado possibile di esercizio concreto dell'autonomia, da un lato, e, se del caso, attivando il processo di normativa d'attuazione, dall'altro.
Il presidio dell'autonomia speciale avviene, per l'appunto, prioritariamente attraverso l'esercizio pieno e consapevole di tutti gli strumenti che, in ragione dell'articolo 5 della Carta costituzionale, sono affidati al sistema delle autonomie; presidio che spetta a tutti i soggetti istituzionali e per primo al Parlamento.
Gli interventi di modifica sullo statuto di autonomia, se esercitati, come in questo caso, in archi temporali assai ristretti - ed è questo il caso - e sulla medesima materia, rischiano di far diventare ordinarie anche le regioni a statuto speciale, con un rilevantissimo vulnus dell'intero assetto istituzionale. Questo risulta, peraltro, ancora più rilevante quando non vengono esplicitati e compiuti i disegni riformatori, ma ci si sofferma a petizioni di principio o, peggio, si rischia di piegare l'architettura istituzionale alle ragioni del dibattito politico.
La relazione illustrativa, infatti, non offre alcun elemento su cui ancorare la necessità non tanto di istituzione di enti di area vasta, che, come si dirà in seguito, sono già oggi nelle potenzialità della regione e degli strumenti normativi a sua disposizione, quanto il reiterato profilo di ente ad investitura popolare diretta. Richiedendo al Parlamento l'attivazione del processo legislativo costituzionale di modifica statutaria, pare non negoziabile offrire al legislatore un disegno riformatore chiaro ed esaustivo, proprio per consentire il pieno apprezzamento delle condizioni di modifica. Non pare certo sufficiente richiedere, nel fondamentale principio di leale cooperazione istituzionale, una nuova cassetta degli attrezzi, senza valutare e spiegare quale sia l'esito compiuto, atteso e perseguito. E non pare utilizzare questo strumento per bypassare il monito della Corte costituzionale che, nella sentenza n. 168 del 2018, a proposito della legge Delrio, proprio sul punto dell'elezione diretta, ha chiarito che: “i previsti meccanismi di elezione indiretta degli organi di vertice dei nuovi enti di area vasta sono, infatti, funzionali al perseguito obiettivo di semplificazione dell'ordinamento degli enti territoriali, nel quadro della ridisegnata geografia istituzionale, e contestualmente rispondono ad un fisiologico fine di risparmio dei costi connessi all'elezione diretta”.
Ora, nell'esaminare la proposta in esame, vanno analizzati e risolti alcuni temi di metodo, di rispetto e tutela dell'autonomia, di corretto esercizio degli strumenti istituzionali. Un primo, ma significativo, elemento che non può non essere messo in evidenza è rispetto all'attività di impulso che, a differenza di quanto accaduto per l'iter culminato con la legge costituzionale n. 1 del 2016, ove vi fu un unanime consenso del consiglio regionale, nel caso di specie è avvenuto, certo, a mezzo di deliberazione del consiglio regionale, ma a maggioranza e se è consentita una valutazione con una maggioranza politica.
La storia politica ed istituzionale del Friuli-Venezia Giulia, a partire dalla gestione straordinaria del post-terremoto del 1976, è connaturata da una cultura istituzionale, naturalmente per le decisioni e le sfide fondamentali, fondata su un coinvolgimento ampio delle forze politiche, sociali ed economiche. Questo è particolarmente necessario quando si incida, anche in profondità, su aspetti istituzionali di particolare rilevanza, anche perché il metodo è sostanza in una regione che fonda la propria specialità anche in ragione delle differenze culturali, territoriali e linguistiche.
Per ragioni di sintesi, vado immediatamente al cuore della proposta in esame che, senza infingimenti, ha come obiettivo, semplicemente e unicamente, il reinserimento nel quadro istituzionale del Friuli-Venezia Giulia delle province e di province ad elezione diretta.
Infatti, la richiesta stabilizzazione del numero dei consiglieri regionali pare una scelta ragionevole, anche se il dato demografico, ormai costantemente in calo e sempre più vicino a 1.100.000 abitanti, rimane elemento di riflessione per una stabilizzazione a 49 consiglieri, cui ormai, sempre più spesso, fa sponda il meccanismo di assessori regionali esterni, con un indubbio appesantimento dell'apparato istituzionale. Il sicuramente pregevole auspicio di una rappresentanza diffusa dei consiglieri regionali e un forte radicamento territoriale degli stessi cozza, peraltro, con il progressivo svuotamento che le assise legislative, a partire dal Parlamento, stanno subendo e subiscono per un'azione invasiva e un'occupazione quasi manu militari da parte degli esecutivi; qui con una pletora di decreti-legge da convertire praticamente su ogni lembo di scibile legislativo, nelle regioni per la pervasività delle giunte anche in materia legislativa.
La logica del tenere buono un ceto politico, promettendo incarichi e poltrone sia a livello regionale che a livello provinciale, per quanto si dirà, non risponde alla logica di una democrazia diffusa e partecipata, ma semplicemente ad accordicchi di potere. Se si vuole incidere sulla democrazia e sulla rappresentanza, vanno rafforzati gli equilibri tra potere esecutivo e legislativo, equilibri che il processo riformatore di questo
centrodestra calpesta fino al rischio di travolgerli, con le paventate riforme che influiranno direttamente sul massimo garante della nostra Repubblica.
Non vi è tempo e spazio per entrare nel dibattito generale sulle province; va, però, chiarito e tenuto distinto quello che è il portato ed il senso, dal punto di vista istituzionale, di un meccanismo di elezione diretta rispetto a quello che, per conto, possa e debba attenere al sistema di finanziamento e di esercizio delle funzioni delle diverse istituzioni. Non è certo l'elezione diretta, a meno che non sia legata ad un forte potere impositivo in tema di entrate, che può superare la crisi del sistema degli enti intermedi, che scontiamo più come temi di finanziamento che come temi di rappresentanza. Allora, va preliminarmente chiarito che molte delle questioni poste anche nella relazione di accompagnamento sono assolutamente compatibili con il sistema vigente. È possibile un intervento per alleggerire le funzioni amministrative dell'ente regione; è possibile un intervento sulle competenze attribuite agli enti locali; è già prevista la possibilità di un esercizio congiunto di funzioni dei comuni o trasferite dall'ente regione; è possibile l'individuazione di enti di area vasta, la cui dimensione è e deve essere legata, non tanto a evocazioni storico o sociologiche, ma alle effettive funzioni da assegnarsi. Lo statuto di autonomia, già oggi all'articolo 11, consente molto di quanto indicato nella relazione illustrativa. Si prevede, infatti, che “i comuni, anche nella forma di città metropolitane, sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. In attuazione dei principi di adeguatezza, sussidiarietà e differenziazione, la legge regionale disciplina le forme, anche obbligatorie, di esercizio associato delle funzioni comunali. La regione assicura i finanziamenti per l'esercizio delle funzioni conferite”.
In via astratta, non vi è neanche un impedimento tecnico-giuridico che, già a Statuto vigente, gli enti di area vasta regionale possano assumere dimensione e denominazioni di provincia o di amministrazione provinciale. Il tema è che si tratta di enti di secondo grado, peraltro in corrispondenza quella riforma nota come legge Delrio che, comunque, rappresenta anche per la regione Friuli-Venezia Giulia norma fondamentale di riforma economico-sociale.
Allora, torna il tema della proposta di modifica statutaria per superare anche la legge Delrio e consentire l'istituzione del nuovo ente intermedio a elezione diretta. Il tema non è solamente di carattere politico: è troppo facile la sola obiezione rispetto alla ricollocazione di personale politico, che non trovi spazio né in consiglio regionale né negli enti locali. Il tema di fondo rimane la compatibilità, in una regione che, come sopra indicato, ha poco più di un milione e 100.000 abitanti, di un sistema di tre enti a elezione diretta e politica. Si giustificano solamente se individuiamo specifiche, puntuali e chiare ragioni di carattere istituzionale perché le funzioni affidate a ciascuno dei tre livelli richiedono un sistema di investitura popolare diretta. Non sono certo quelli presenti nell'attuale sistema delle province nazionali che, per l'appunto, sono enti di secondo grado e, per conto, l'esperienza degli enti di decentramento regionale in Friuli-Venezia Giulia, con un direttore regionale, funzionari e finanziamenti adeguati, ha certo dato corso alle funzioni, per esempio, in tema di edilizia scolastica.
Allora, per un nuovo ente intermedio di primo grado è necessario qualcosa di più. Ad oggi, né i lavori consiliari del Friuli-Venezia Giulia, né la relazione accompagnatoria spiegano più di tanto, appesantendo il corpus istituzionale, anzi, rispetto ad altre funzioni regionali, vi è un vulnus nell'autonomia e nella specialità della regione. In buona sostanza, un Parlamento responsabile, in questa fase, deve avere l'autorevolezza di indicare, nella leale cooperazione, che esistono altri strumenti per perseguire obiettivi di efficienza e razionalizzazione del sistema che non debbano necessariamente essere perseguiti con un nuovo intervento sullo statuto d'autonomia.
In sede di Commissione, su iniziativa della maggioranza, è stato introdotto un ulteriore vulnus allo statuto di autonomia. Quel sistema di garanzie che, in una regione di autonomia speciale, deve sussistere nel rapporto maggioranza-minoranza, tra decisore politico e cittadinanza. In buona sostanza, all'articolo 2, si è introdotta una norma apparentemente tecnica, ma che colpisce proprio il principio democratico che oggi lo statuto di autonomia garantisce. Infatti, intervenendo in materia referendaria, si abroga la norma che prevede che leggi ordinamentali e leggi elettorali fossero sottoposte ad un meccanismo di referendum confermativo senza quorum, sostituendolo con la disciplina referendaria abrogativa generale che prevede il meccanismo del quorum. Un doppio tradimento perché consente l'egemonia della maggioranza consiliare e perché, in un periodo di allontanamento dei cittadini dalle istituzioni e dal voto, di fatto rafforza i meccanismi di astensionismo. Un gioco per accontentare le ambizioni del Presidente Fedriga verso il terzo mandato, che si aggrava per i recenti annunci di intervento di modifica della legge elettorale del Friuli Venezia Giulia abolendo i limiti di mandato, le incompatibilità e l'ineleggibilità, al solo fine di accontentare i noti circuiti di potere.
Questa modifica allo Statuto del Friuli-Venezia Giulia non è allora il doveroso riconoscimento del Parlamento ad una comunità regionale virtuosa, che chiede nuovi strumenti di autogoverno, ma semplicemente un favore, per non ricorrere ad una prosa non confacente a quest'Aula, all'attuale gruppo di potere presente in quella regione.