Discussione generale
Data: 
Lunedì, 16 Settembre, 2024
Nome: 
Paolo Ciani

Vai alla scheda della mozione

Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, oggi siamo chiamati a discutere un tema che riteniamo fondamentale per il futuro del nostro Paese: la riforma della legge sulla cittadinanza. L'attuale legge - quella del '92 - non pare più adeguata a raccogliere il bisogno di cittadinanza e di integrazione sociale di tanti uomini, donne e bambini che contribuiscono allo sviluppo e alla crescita del nostro Paese. Sì, direi che il bisogno di cittadinanza è cresciuto. È un indicatore importante della nostra capacità di stare in maniera incisiva sulla scena europea e internazionale.

C'è bisogno di risposte adeguate e senso di cittadinanza, anche in senso giuridico, delle seconde generazioni: stranieri figli di immigrati, ma non essi stessi immigrati, in quanto nati o comunque vissuti in Italia nell'intero periodo della loro formazione linguistica e culturale, nel corso dell'età evolutiva. Oggi, con questa mozione, chiediamo al Parlamento di compiere un passo in avanti per una maggiore giustizia sociale e per una nuova visione del nostro Paese, che guardi al futuro con coraggio, responsabilità e senso della realtà. Per capire l'importanza di questo discorso dobbiamo guardare i dati: attualmente, in Italia, vivono circa un milione di minori stranieri, pari circa al 10 per cento dei bambini e ragazzi sotto i 18 anni. Perché parliamo della necessità di una riforma? Il concetto di cittadinanza e la sua acquisizione non è certo un concetto rivoluzionario né una minaccia all'identità italiana; al contrario, per noi è un principio di civiltà, che riconosce a chi nasce, cresce, si forma in questo Paese e ne diventa pienamente parte integrante, un diritto fondamentale.

Noi troviamo inconcepibile che un bambino o una bambina nati in Italia, che parla italiano, che condivide la nostra cultura, le nostre tradizioni, le nostre abitudini e i nostri sogni, debba essere considerato straniero fino alla maggiore età o, addirittura, oltre. Non bisogna cedere alla narrazione, che purtroppo in questi anni è stata portata avanti, che una possibile riforma in questo senso trasformerebbe l'Italia in una sala parto. Non si tratta di questo, cioè, di concedere la cittadinanza a chi arriva in questo momento e qui partorisce, ma a chi è figlio di genitori arrivati in Italia, che hanno scelto il nostro Paese come il loro Paese in cui vivere, crescere, lavorare e mettere su famiglia. Dobbiamo allora chiederci: cosa vuol dire essere italiani? Essere italiani, per noi, significa crescere in questo Paese, studiare nelle nostre scuole e formarsi ai nostri valori; perciò, se questo è vero, allora dobbiamo riconoscere il diritto alla cittadinanza a chi è parte di questo tessuto sociale, indipendentemente dalle origini dei propri genitori.

Un altro punto qualificante di questa mozione prevede l'acquisto della cittadinanza da parte dei minori giunti in tenera età, che abbiano frequentato con successo un percorso scolastico: quello che è stato pensato tanti anni fa e proposto dall'allora Ministro Riccardi come ius culturae, quello di cui oggi noi parliamo come ius scholae. Quindi, anche in questo caso, nessun automatismo con l'esser presenti qui, ma con il conseguimento di un percorso legato alla scuola.

Secondo i dati del Ministero dell'Istruzione - li ricordava poco fa la mia collega Bakkali - oltre 900.000 bambini senza cittadinanza italiana frequentano le nostre scuole, ma di questi, più della metà sono nati in Italia. Questo significa che gran parte di questi ragazzi ha fatto tutto il suo percorso formativo nel nostro Paese, condividendo con i compagni italiani le stesse esperienze educative e culturali. Quindi, se vogliamo vedere la realtà di questa proposta, non dobbiamo guardare alle immagini degli sbarchi o alla propaganda dell'invasione portata avanti in questi anni. Dobbiamo guardare alle nostre scuole, ai parchi pubblici, agli oratori e ai centri sportivi: è questo il mondo che non si vuol guardare, ma che tutti conoscono - tutti noi conosciamo, chiunque ha un figlio conosce - e che, tante volte, è una realtà molto apprezzata. È quello di ragazzi di origine africana che parlano napoletano e vestono alla moda, di giovani dai tratti asiatici e dal chiaro accento toscano o di ragazze velate a passeggio con gli smartphone per le vie di Milano. Si sentono italiani ma, talvolta, hanno la sensazione di essere respinti; faticano a vivere la loro diversità in famiglia; stentano a far accettare la loro diversità nella nostra società.

Questi giovani potrebbero costituire il ponte tra famiglie e immigrati, società e futuro, ma vivono in uno strano limbo: portano con sé - spesso a prescindere dalla loro volontà - tratti dell'alterità delle loro famiglie di origine, fosse il nome, i tratti somatici o gli abiti. Tratti spesso difficili da far digerire alla società italiana ma, soprattutto, a chi non li conosce e li giudica.

A chi giova tutto questo in un mondo sempre più interconnesso? Di certo non giova all'Italia, che non valorizza il grande potenziale del capitale umano raffinato nell'integrazione; non giova alla comunità internazionale, perché incoraggia anomia e non appartenenza, vecchie e nuove fragilità. Raccontava un ragazzo sedicenne, figlio di genitori eritrei, nato e cresciuto a Roma: “la prima domanda che mi fa chi non mi conosce è sempre: da dove vieni? Ogni volta resto un po' interdetto, ma ormai mi sono deciso, e rispondo: da casa o da scuola, e lei?”

Il possesso di una cittadinanza diversa da quella percepita costituisce, evidentemente, una fonte di traumi destinati a riflettersi negativamente sulla corretta evoluzione della personalità. Un esito negativo, questo, che anche l'articolo 2 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo impegna gli Stati firmatari ad evitare. Spesso questi giovani - per usare una parola desueta, ma che piace anche alla maggioranza che guida questo Paese - sono dei veri patrioti, che sentono l'Italia come il loro unico Paese, hanno i nostri gusti, vestono come i nostri ragazzi, tifano per le nostre squadre di calcio. Spesso ho riscontrato più amore per l'Italia da parte di questi giovani che non nei loro coetanei connazionali autoctoni.

A loro si vuole rivolgere questa proposta di riforma sulla cittadinanza. Presidente, la legge sulla cittadinanza è del 1992: era l'anno dell'inizio di Mani pulite, della guerra in Jugoslavia, del confronto Eltsin-Bush, un'era geologica fa; era una legge pensata più per gli italiani che avevano lasciato il nostro Paese che per i figli di chi aveva scelto questo Paese per vivere, per i nuovi immigrati, per i nuovi italiani.

Lo ius culturae o lo ius scholae è un riconoscimento che premia l'integrazione attraverso l'istruzione; non si tratta solo di un atto di equità, ma di un investimento nel futuro del Paese.

Questi giovani sono parte del nostro futuro, negare loro la cittadinanza significa escluderli, significa privare l'Italia di una risorsa preziosa, significa creare una generazione di invisibili, costretti a vivere ai margini della società, e noi non possiamo permetterci, né moralmente, né economicamente, di emarginare una parte così importante e significativa della popolazione. Dobbiamo ricordare che questi giovani rappresentano una risorsa essenziale per il nostro futuro, in un Paese che sta vivendo un forte declino demografico, con tassi di natalità tra i più bassi in Europa.

Questi ragazzi sono il futuro delle nostre scuole, delle università, del nostro mercato del lavoro. Escluderli o considerarli stranieri è un atto miope, che non tiene conto delle sfide che l'Italia dovrà affrontare nei prossimi decenni. Riconoscere la cittadinanza ai figli degli immigrati che nascono e studiano nel nostro Paese significa costruire una società più coesa, più giusta, in cui ognuno possa sentirsi parte di una comunità; non si tratta di concedere privilegi, ma di riconoscere diritti.

Capisco che alcuni colleghi possano nutrire delle preoccupazioni, ma voglio ricordare che questa non è una battaglia ideologica e non va vissuta come una battaglia ideologica; non è una questione di destra o di sinistra, è una questione di dignità, di giustizia, di diritti umani, di futuro del nostro Paese; è una questione che riguarda i valori della nostra democrazia e del nostro Stato di diritto. Non possiamo più chiudere gli occhi davanti alla realtà, questi giovani sono già italiani nel cuore e nella mente; negare loro la cittadinanza significa perpetuare ingiustizie e divisioni che non fanno altro che danneggiare il tessuto sociale del nostro Paese.

Oggi abbiamo l'opportunità di scrivere una pagina importante e nuova della storia del nostro Paese, abbiamo l'opportunità di dimostrare che siamo una nazione che guarda al futuro con senso di responsabilità, con lungimiranza, con umanità. Abbiamo l'opportunità di costruire un'Italia più inclusiva, più giusta e più unita. Dobbiamo dare, finalmente, voce e diritti a chi, da troppo tempo, attende di essere riconosciuto per quello che già è, un cittadino italiano. Prima lo faremo e prima daremo a loro un senso di giustizia nuovo.