Grazie, Presidente. Innanzitutto vorrei rivendicare come gruppo l'aver portato la discussione in quest'Aula, il tema della prevenzione in maniera anche così partecipata e condivisa, perché, effettivamente, è una di quelle questioni in cui più volte si parla, in ogni momento di convegnistica, nel momento di confronto col mondo della sanità piuttosto che delle associazioni di pazienti. E poi, però, si fa una gran fatica a tradurlo in fatti concreti.
E non voglio rincorrere quanto ho sentito in alcuni interventi rispetto alla lettura del passato e del presente. Perché mi risulterebbe persino facile ricordare chi ha smantellato il servizio sanitario in Italia, quali sono stati i Governi che hanno tolto tante delle conquiste che nel 1978 furono raggiunte. Come mi risulterebbe facile citare gli esempi di alcuni governi regionali che hanno ridotto delle situazioni di grande qualità in uno stato che tutti hanno sperimentato, soprattutto durante la tristissima esperienza del COVID.
Però, se vogliamo ragionarla e ragionarla in Aula parlamentare, rivendicando anche un ruolo che spetta al Parlamento sulle grandi scelte, si parla molto di una riforma del servizio sanitario nazionale, io mi auguro che non sia un qualcosa che ci arrivi dal Governo ma sia un qualcosa che nasca da un confronto come quello che stiamo facendo questa mattina. Perché sono su questi temi che si misura la qualità di un Parlamento nel presentare al Paese alcune soluzioni.
E noi abbiamo voluto parlare di prevenzione nella consapevolezza che lo scenario che abbiamo davanti, assieme all'innovazione (ma ne parleremo in altre occasioni), rappresenta uno dei necessari riferimenti. Perché siamo in un contesto sociale dove sempre più si invecchia, e forse dovremmo smettere di leggere questo come un problema ma come una conquista della scienza e della ricerca a cui dobbiamo dare delle risposte di qualità della vita, oltre alla durata. E siamo in un contesto in cui, appunto, se noi vogliamo invecchiare bene dobbiamo fare un grande investimento sulla prevenzione, però mettendo in fila quelli che sono i punti essenziali della prevenzione. È già stato detto - lo ripeto anch'io brevissimamente - si parla di educazione agli stili di vita, perché il 70 per cento delle patologie hanno origini legate agli stili di vita o a quello che mangiamo, l'altro 30 per cento è un fatto genetico (ne parlerò dopo).
Ecco che, allora, favorire stili di vita di un certo tipo è di fondamentale importanza. Ma per farlo bisogna avere strutture, bisogna avere momenti educativi, bisogna avere la possibilità da parte di tutte le famiglie di dare ai propri figli e anche alle persone che vivono nella famiglia queste opportunità. Non basta descriverlo.
Ed allora molto ci sarebbe da dire su, per esempio, un aspetto, l'insorgenza, l'aumento delle malattie sessualmente trasmissibili che mi sembra sia uno dei motivi che dovrebbe farci puntare su un'educazione all'affettività, alla sessualità che, invece, come ben sapete, tendiamo a vedere come un ostacolo, come un pericolo, come un qualcosa da evitare invece che favorire proprio per migliorare la qualità della salute in futuro.
Ma si parla e si è parlato anche molto di educazione alimentare. Anch'io davvero nei giorni scorsi, a pochi metri da qui, in questo palazzo, è stato presentato un report sulla povertà alimentare. Perché è inutile che diciamo che bisogna mangiare bene, bisogna mangiare sano, bisogna mangiare di qualità, se poi nel borsellino delle famiglie ci sono 50 euro e non 200 euro per fare la spesa. Perché poi la spesa la fai con i soldi che hai e mangi quello che ti puoi permettere.
Ecco che, allora, l'educazione alimentare deve partire da un intervento mirato nel restituire redditività alle famiglie, rendere accessibile un certo cibo a tutti e a tutte. Significa intervenire sulle mense scolastiche, sulle mense dei posti di lavoro, significa cambiare molto da questo punto di vista, anche con la produzione in termini di riduzione degli zuccheri se ne è parlato.
Io ricordo il sale che, forse, è ancora peggio, ma che implica delle scelte molto mirate e molto precise. Prevenzione significa avere una medicina di prossimità, che non è solo territorio, non è solo case delle comunità: è luogo di organizzazione di una sanità che arriva al cittadino o alla cittadina che ne ha bisogno per poter fare delle diagnosi precoci, per poter individuare, attraverso l'elaborazione dei dati, quelle platee che geneticamente sono più esposte a determinate patologie. Intervenire e intervenire subito significa intervenire sulla durata e la qualità della vita di queste persone.
Fare prevenzione significa avere la capacità di stilare, poi, delle terapie, le più opportune, e che vengano seguite da chi ne ha bisogno. E da questo punto di vista, riuscire a saldare quella frattura che spesso esiste tra la sanità in senso stretto e il sociosanitario, non dimenticando mai che spesso e volentieri la fragilità sanitaria coincide con la fragilità sociale. E se noi non aiutiamo queste persone nel seguire la cura in maniera adeguata, ne paghiamo le conseguenze anche in termini di resistenza al farmaco. Pensiamo all'antibiotico resistenza: nasce anche da un uso abnorme, non opportuno di un farmaco tanto innovativo. Ma a proposito di farmaci innovativi, fare prevenzione significa anche ridurre quella distanza misurabile spesso in 18 mesi tra le autorizzazioni EMA e quanto avviene, poi, in AIFA che, forse, dovrebbe smettere di discutere al proprio interno, ma fare il ruolo con cui dovrebbe mettere a disposizione il prima possibile il farmaco innovativo a chi ne ha bisogno.
Fare prevenzione significa affrontare anche altri due temi, tra cui quello della medicina internazionale. Siamo una società multietnica, e siamo una società che gira molto, che deve fare i conti con problemi sanitari particolarmente complessi che non possiamo continuamente ignorare o classificare allo stesso modo.
Fare prevenzione significa affrontare la medicina di genere, perché guardate, ancora troppo la ragioniamo al maschile. Noi alle donne, spesso, chiediamo di fare per destino i caregiver familiari, invece che occuparci di come stanno, come vivono, quali sono le difficoltà e le fragilità che sempre di più mostrano.
Fare prevenzione significa ristabilire un patto tra i vari attori in campo dove c'è la scienza, la ricerca, dove c'è il Terzo settore, dove ci sono gli enti locali e dove c'è la società nella sua complessità nel mettere al primo posto il mantenimento della salute e la responsabilizzazione delle persone nel mantenersi sane e nel contribuire a rendere sana la comunità in cui si vive con grande determinazione, con grande forza. Però, nella nostra mozione - dico fin da subito che chiederemo per parti separate il voto delle premesse e accettiamo la riformulazione degli impegni - c'è anche una parte propositiva, alcune esplicitamente scritte e altre sottese. Quelle scritte: il tema delle risorse. È vero, esiste il tema delle risorse, ma l'ha detto la maggioranza, non lo dico io: ogni euro che noi mettiamo in prevenzione ne risparmiamo c'è chi dice persino 14 nella spesa sanitaria futura nell'andare a intercettare la terapia e la patologia nella fase più avanzata, senza contare le ricadute socioeconomiche che uno stato di malattia comporta.
E allora, verrebbe da dire: ma perché non lo facciamo? Ma perché ragioniamo con un bilancio che guarda alla fine dell'anno e non guarda, con uno sguardo un po'più alto, cosa succede nelle generazioni future? Ma siccome sappiamo che si guarda anche alla fine dell'anno, noi insistiamo su un aspetto, in parte - lo dico - intrapreso dal Governo, nel chiedere che, a livello europeo, venga tolto tutto quanto viene messo in prevenzione dal calcolo dei Patti di stabilità. E lo dico perché, davanti ed emergente necessarie, l'abbiamo fatto su scelte dolorose, difficili ed eticamente scomodanti, come quello delle armi. Non vogliamo e non possiamo farlo sul tema della salute dei nostri cittadini e delle nostre cittadine? Io penso che venga da sé, non ci sarebbe nemmeno bisogno di parlarne. Ma farlo significa anche renderci conto che i 20 modelli territoriali non hanno più ragione di esistere: le regioni son diventate un momento di fragilità e di debolezza nel costruire delle politiche sanitarie efficaci. È l'Europa che dobbiamo guardare, se non addirittura il mondo in alcuni casi. Se si parla di ricerca, se si parla di innovazione, se si parla di studi, se si parla di strategia è lì che dobbiamo saper guardare con grande decisione. L'organizzazione territoriale serve a realizzare quanto deciso a livello nazionale, nell'applicazione e a seconda della lettura dei singoli territori, evitando anche un'altra frattura particolarmente dolorosa: la differenza tra le città e le aree interne e le zone montane, che sempre di più si sta differenziando. La tecnologia, invece che ridurre le distanze, rischia di aumentare le diseguaglianze.
È su questo che vorrei fare un'ultima considerazione. Abbiamo anche un'altra sfida: riuscire a coniugare quello che è la conquista della scienza, della tecnica, della farmaceutica, con l'umanizzazione dell'applicazione degli stessi. Dobbiamo pensare ai 6 milioni di italiani e di italiane che non si curano più, perché non ne hanno la possibilità. Dobbiamo rifiutarci di costruire una società futura dove esiste lo scarto di cui parlava Papa Francesco, perché compito dello Stato è soprattutto organizzarsi per difendere i più fragili, i più deboli, quelli che hanno bisogno, in maniera particolare quando si parla di salute.