A.C. 585
Grazie, Presidente. Qualche minuto lo voglio dedicare al mondo che conosco e che mi appartiene, quindi chiedo scusa ai colleghi, ma qualche cosa voglio dirla. Questo non è un momento facile per il mondo dello sport. Sono tante le nuvole all'orizzonte: alcune arrivate inaspettatamente, come la pandemia o il caro energia, che sta mettendo in ginocchio gestori di impianti sportivi e di impianti natatori, altre nerissime di cui ci stiamo accorgendo. Solo negli ultimi mesi abbiamo assistito all'arresto del procuratore capo degli arbitri italiani per un'incredibile vicenda di criminalità, ai Mondiali più ambigui e impresentabili dai tempi di Argentina 1978, a scontri criminali sull'autostrada A1 tra frange violente di tifoserie.
Nell'ultima settimana si è abbattuto sul mondo del calcio l'ennesimo scandalo legato alle plusvalenze e a quei bilanci che sembrano sempre più “sbilanci”. Insomma, un mondo che appare e si racconta al contrario di quello che vorrebbe essere, quei valori che spesso evochiamo quando parliamo di sport, inclusione, benessere psicofisico, rispetto delle regole, che sembrano traditi nel messaggio soprattutto che arriva ai nostri giovani e alle nostre giovani che, come da sempre accade, vedono negli sportivi dei modelli. Un aspetto del problema, storico, tutt'altro che secondario, è quella del doping. Non si tratta solo di pratiche orientate all'alterazione della prestazione, ma di pratiche che mettono a rischio la salute di tanti atleti e tanti amatori, in Italia come nel mondo.
Non serve spiegare il perché, ma piuttosto agire in ogni modo e in ogni contesto affinché tutti gli strumenti possibili vengano utilizzati nella lotta al doping, che è una battaglia complicata per tante ragioni. La prima, quella fondamentale, è che l'aberrante ricerca - anche se repelle chiamarla così - di nuove sostanze dopanti è sempre in vantaggio sulla perenne rincorsa dell'antidoping.
È una dinamica come quella di guardie costrette sempre a rincorrere i ladri, una distanza che non si è colmata mai e che è destinata, purtroppo, a non colmarsi mai: il doping avrà sempre un vantaggio di tempo. Allora, non c'è dubbio che il recepimento della Convenzione del Consiglio d'Europa contro il doping sia un'ottima notizia. Certo, è meno motivo d'orgoglio sottolineare che ci abbiamo messo vent'anni, che nello sport sono un'era geologica. Finalmente, però, portiamo a termine una proposta di legge che è anche il frutto del lavoro nato nella scorsa legislatura, un passo in avanti, senza dubbio, un passo in avanti in termini di credibilità di un mondo, che come dicevo all'inizio, è alla ricerca di senso.
Tuttavia, voglio sottolineare alcune cose, sulle quali non si può voltare lo sguardo, se - come tutti crediamo- lo sport vuole essere strumento di inclusione, benessere e rispetto delle regole. il primo si riferisce alla definizione stessa di doping, somministrazione di sostanze proibite dai regolamenti allo scopo di accrescere il rendimento fisico nel corso di una competizione. Non tornerò sulle preoccupanti dichiarazioni, che sono state citate e che negli ultimi giorni tanti atleti, principalmente calciatori, hanno rilasciato alla stampa, chiedendo chiarezza rispetto all'assunzione di farmaci in passato erogati, diciamo, con una certa leggerezza. Basta leggere quelle dichiarazioni, per capire come la storia del nostro sport sia stata anche, e purtroppo, segnata da pratiche che, più che antiscientifiche, potremmo definire stregonesche. Non torno neanche sul fatto che il problema, gravissimo nei contesti di alto livello, è ancora più grave nel mondo dello sport amatoriale. In questo caso non basterà, purtroppo, neanche il recepimento di questo Protocollo che stiamo per votare, perché esso si riferisce principalmente a contesti di sport di vertice, dove c'è un altro controllo medico, dove ci sono staff di professionisti che sono in grado di monitorare un atleta. La diffusione del doping nei circuiti amatoriali sfugge, invece, a ogni controllo e genera rischi enormi e spesso irreparabili. Ecco perché, insieme a questo provvedimento, serve un cambio di paradigma culturale: serve investire in conoscenza, in comunicazione, in educazione, in cultura. Non c'è nulla di più volgare che violare i due princìpi fondamentali dello sport: la competizione leale fra gli atleti e il benessere psicofisico che lo sport genera.
Mi auguro che vedremo presto accendersi tutte le luci verdi del tabellone riassuntivo delle votazioni su un provvedimento che sta per arrivare anche da noi - spero presto-, che è la modifica all'articolo 33 della Costituzione in termini di materia sportiva. Allora, ci sarà un diritto e ci sarà un'ulteriore necessità, di difendere quel diritto allo sport da chi vuole restituirne la faccia peggiore.
Mi permetta di aggiungere, Presidente, le ultime due riflessioni. La prima è il desiderio di sottolineare come lo sport debba combattere ogni tipo di violazione dei regolamenti, al fine di accrescere il rendimento nel corso delle competizioni. Il doping amministrativo, per esempio, ne è un caso. Guardate, la cultura delle plusvalenze nel calcio è una forma di doping, purtroppo, endemicamente diffusa; semplicemente, questa cultura va fermata, ovunque, il prima possibile. La seconda questione è il doping della programmazione, il doping dei calendari. Me lo faccia dire, Presidente, con cognizione di causa. Per questo tipo di doping ci sono motivi molto precisi e di facile comprensione, perché finché federazioni nazionali, federazioni internazionali e leghe che gestiscono i campionati più importanti, non decideranno di mettersi intorno a un tavolo e di discutere della bulimia di eventi sportivi, ormai a distanza sempre più ravvicinata e con aspettative sempre più alte, in luoghi del mondo magari a distanza di dieci fusi orari l'uno dall'altro, vivremo una costante ipocrisia, quella di chiedere sforzi oltre l'umano ad atleti e in qualche modo spingerli, per poter recuperare, verso la necessità di affidarsi alla chimica o alla farmacologia. Il problema, allora, non è solo cercare la sostanza che ancora non rientra nella lista delle sostanze dopanti, ma rendere più sostenibili i calendari delle manifestazioni. Non è umano chiedere, per esempio, a un ciclista di gareggiare, senza soluzione di continuità, al Giro d'Italia, al Tour de France e alla Vuelta e di tenere in ciascuna di queste manifestazioni una velocità media di 40 chilometri l'ora. Continuare in questa direzione, ossia aumentare sempre di più le richieste agli atleti e la frequenza degli impegni sportivi, e, insieme, voler combattere il doping significa semplicemente essere ipocriti.
Fra poco meno di due mesi, Presidente - sto per concludere -, il prossimo 21 marzo, ricorrerà il decimo anniversario della scomparsa di un nostro monumentale atleta, Pietro Paolo Mennea (Applausi): il nostro Muhammad Alì, uno sportivo, un uomo che ha cambiato un paradigma, forse l'atleta italiano che più si è allenato al mondo. Il doping - diceva Mennea - è diventato un grande business, in mano alla criminalità organizzata, commerciato in un mercato nero che è più lucrativo di quello degli stupefacenti; il grosso del mercato del doping lo troviamo tra gli amatori che affollano le palestre. Da europarlamentare, Mennea si è battuto per una legge comunitaria sul tema (Applausi).
Ecco, oggi facciamo un passo in avanti che non sarà, però, sufficiente, finché, attraverso un capillare lavoro educativo, i nostri giovani riconosceranno non come una scorciatoia verso il successo, ma come una pratica tanto pericolosa, quanto disgustosa, l'utilizzo di sostanze dopanti e quando i dirigenti sportivi, di qualsiasi disciplina, smetteranno di cercare quelle scorciatoie in ogni aspetto finanziario, organizzativo o fisico.
Senza dubbio, il Partito Democratico esprimerà il suo voto favorevole a questo provvedimento, ricordando a tutti, però, che la partita contro il doping e contro tutte le altre forme di violenza e di violazione dei principi etici dello sport è tutt'altro che finita.