A.C. 1620-A
razie, Presidente. Sono diversi gli aspetti problematici e di illegittimità del Protocollo in esame che ci portano a sollevare questa questione pregiudiziale di merito, a partire dalle irragionevoli discriminazioni di trattamento che si produrranno tra le persone migranti che giungeranno in Italia e quelle che, in base al Protocollo, saranno trasportate nei centri albanesi, con riferimento al sistema di accoglienza in generale e rispetto all'applicazione di alcune garanzie fondamentali riconosciute dalle direttive europee che troveranno applicazione esclusivamente con riferimento a chi presenterà domanda direttamente in Italia, risolvendosi in un'irragionevole trattamento diverso a fronte di coloro che avranno pari diritto di asilo ma lo presenteranno altrove. Infatti, l'articolo 4, comma 1, del disegno di legge di ratifica prevede che si applicano, in quanto compatibili - e sottolineo questa locuzione: “in quanto compatibili” -, il testo unico sull'immigrazione, la cosiddetta direttiva Qualifiche, la cosiddetta direttiva Procedure, la normativa di attuazione della direttiva Accoglienza e la disciplina italiana ed europea concernenti i requisiti e le procedure relativi all'ammissione e alla permanenza degli stranieri nel territorio nazionale. In primis, come rilevato anche da alcuni auditi in Commissione, la previsione che tali normative siano applicate allo straniero collocato nei centri albanesi in quanto compatibili è in contraddizione con l'articolo 117, comma primo, della Costituzione. Dicevo che questa locuzione, “in quanto compatibili”, è in contraddizione con l'articolo 117 della Costituzione, laddove questo prevede che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, stabilendo che le leggi italiane sono soggette alle norme europee e non viceversa. Infatti, quanto è pacifico che l'accordo si pone al di fuori del diritto dell'Unione, in quanto concluso con un Paese terzo, occorre precisare l'obbligo per l'Italia di assicurare il rispetto dei principi del diritto dell'Unione, a cui rimane vincolata anche nelle proprie azioni extraterritoriali.
L'inciso, poi, “in quanto compatibili” introduce un elemento di incertezza e di potenziale contrasto con il diritto dell'Unione europea. Infatti, nel caso in cui le norme non fossero compatibili sarebbero illegittime e l'unico modo affinché siano legittime è che siano identiche o che prevedano uno standard più favorevole. Se il Governo crede di poter realizzare interventi con standard uguali a quelli previsti nel territorio nazionale, perché utilizza la frase “per quanto compatibili”? Se invece, come sembra, pensa che il fatto di realizzare tale intervento in un Paese terzo lo autorizza a fare come vuole, sappia che non sarà possibile. È probabile che sia stato questo il motivo per cui in passato progetti analoghi a livello europeo sono stati bocciati.
Alcune importanti garanzie previste dalle direttive citate presuppongono la presenza del richiedente nel territorio dello Stato membro o alla sua frontiera, motivo per cui le disposizioni applicabili in base al Protocollo ai richiedenti protezione internazionale in Albania sono solo alcune di quelle vigenti in Italia e derivanti dal sistema europeo comune di asilo. In particolare, spicca la mancanza di un appropriato sistema di accoglienza a cui specularmente corrisponde la previsione della detenzione generalizzata, che rappresenta, in realtà, un provvedimento di ultima ratio che può essere disposto nel caso in cui la persona provenga da un Paese di origine sicuro e mai essere considerata una misura di limitazione della libertà personale nei confronti del richiedente asilo per il solo fatto di essere un richiedente. Analoghe considerazioni possono essere formulate in relazione al trattamento delle persone vulnerabili, che in nessun caso possono essere inviate nei centri in Albania, con tutte le difficoltà già evidenziate nei giorni scorsi sulla modalità di selezione delle persone che presenterebbero tale vulnerabilità e poi ancora sul diritto di difesa in relazione al rimpatrio dei richiedenti asilo la cui domanda sia stata rigettata.
Abbiamo appreso in questi giorni che il Governo intende fare una selezione in mare aperto, una selezione al centro del Mediterraneo, intercettando navi al centro del Mediterraneo, facendo salire i migranti a bordo di navi italiane e, in base a non si sa quali criteri, scegliere la vulnerabilità delle persone. Facciamo - anzi fate - molta attenzione, perché un minorenne non si riconosce alla vista, una donna che ha subito violenze o è in stato interessante non si riconosce alla vista. Fate molta attenzione sulla vulnerabilità.
Poi, la cosiddetta direttiva Rimpatri prevede che il rimpatrio avvenga con modalità coercitive a gradualità crescente, mentre né il Protocollo né il DDL di autorizzazione alla ratifica prevedono modalità diverse dal trattenimento, né si prevedono disposizioni ulteriori in caso di superamento del termine massimo di trattenimento senza che l'esecuzione del rimpatrio sia avvenuta. Inoltre, la disciplina prevista nel Protocollo del diritto di difesa delinea un'assistenza che dovrebbe realizzarsi di regola a distanza e in modalità telematica, aumentando il rischio di incomprensioni, inclusa l'udienza di fronte al giudice, introducendo una deroga a quanto previsto nella legislazione italiana e che, sulla carta, non risulta soddisfare i requisiti del diritto fondamentale a un rimedio giurisdizionale effettivo. Va, pertanto, rilevata una problematica nella violazione del principio di uguaglianza relativamente ad alcune delle più cruciali garanzie per i richiedenti asilo previste dalla direttiva UE sulle procedure di esame delle domande. È evidente, pertanto, che lo straniero portato in Albania, rispetto allo straniero sbarcato in Italia, si troverà in una condizione di discriminazione giuridica per motivi di condizione personale, espressamente vietati dalla nostra Costituzione.
Allarmanti, poi, sono i numeri indicati nella relazione tecnica della Ragioneria dello Stato, che hanno messo in luce lo sforzo economico che l'Italia dovrà sostenere per costruire fogne, allacciare l'elettricità, disboscare le aree, nonché le enormi risorse in termini di milioni che si renderanno necessarie per pagare il personale, i servizi e i viaggi. Senza qui entrare nel dettaglio dei costi, per i quali rimandiamo alla relazione della Ragioneria generale dello Stato, in questa sede occorre comunicare e ricordare a tutti che, se 10 CPR sul suolo italiano sono costati 52 milioni di euro in 4 anni, la trasformazione di Shengjin e soprattutto di Gjader in un'Enclave italiana in Albania costerà almeno 5 volte tanto per i prossimi 5 anni. Secondo i dati riportati dalla Ragioneria generale dello Stato, infatti, il Protocollo sottoscritto da Italia e Albania vale 230 milioni di euro, cui vanno aggiunti altri 75 milioni per esportare e collegare il sistema giudiziario italiano con l'Albania, fino a un costo totale che va ben oltre i 300 milioni di euro. Come messo in evidenza dallo stesso Ministero dell'Economia e delle finanze, infatti, soltanto per allestire il CPR di Gjader servono 28 milioni e altri 31 per la gestione di Shengjin e del medesimo Gjader. L'ho detto ieri: se questi soldi servissero per salvare le persone e tutelare i diritti umani, nonché per operare una corretta integrazione sarebbero ben spesi; purtroppo, sappiamo che saranno sprecati e i soldi sprecati dei contribuenti sulla pelle dei migranti sono proprio una pessima notizia. Tutto questo per realizzare dei centri di rimpatrio, perché, per quanto il Governo si affanni a dire che non si tratta di CPR, il testo dice diversamente: lontano da occhi indiscreti per non farlo in Italia.
Va in ultimo ricordato che in Albania al momento è stato presentato ricorso alla Corte costituzionale per la violazione della Costituzione albanese circa le procedure di stipula e i contenuti del Protocollo stesso. L'approvazione della legge di autorizzazione alla ratifica, pertanto, appare del tutto inopportuna, oltre che inutile, finché la Corte costituzionale albanese non si pronuncerà sul ricorso, in una data che ipoteticamente potrebbe essere entro la metà di marzo 2024. Intanto, vi è stato un primo incontro interlocutorio lo scorso 18 gennaio e ve ne sarà un altro domani, dove la Corte ha chiesto alle parti di presentare il Trattato di amicizia con l'Italia del 1995 come elemento necessario per approfondire l'esame del Protocollo siglato dai due Paesi (nemesi storica: il Trattato del 1995, in cui si parlava degli emigranti albanesi in Italia).
Peraltro, gli articoli 2 e 7 del DDL di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione paiono contraddire il testo stesso del Protocollo, il cui articolo 13 prevede che esso entrerà in vigore dalla data concordata tra i due Stati, dopo uno scambio di note che in ogni caso sarà successivo alla ratifica. Quindi, il pasticcio finale: noi ratifichiamo una cosa che entrerà in vigore forse nel futuro. Per questo e per tanto altro, si chiede di non procedere all'esame del provvedimento.