Discussione generale
Data: 
Venerdì, 30 Maggio, 2025
Nome: 
Patrizia Prestipino

A.C. 2420

Grazie, Presidente. Benvenuta alla Sottosegretaria Frassinetti. Allora, è arrivato in quest'Aula - è stato detto - un decreto-legge tanto atteso, che però, lasciatemi dire, disattende ogni aspettativa e pecca di lungimiranza. Un decreto che ridisegna, sì, pezzi essenziali del mondo dell'istruzione, ma senza tener conto delle reali esigenze di questo Paese. Guardate, lo dico con amarezza, essendo io stessa una docente ed essendo stata nella scorsa legislatura, insieme alla collega Frassinetti e al collega Sasso, proprio membro della Commissione istruzione. Però lasciatemi partire dagli istituti tecnici, perché proprio lì si misura la capacità di un Paese di unire sapere e saper fare. L'articolo 26-bis, comma 1, stabilisce che, a decorrere dall'anno scolastico 2026-2027, il numero complessivo delle classi della scuola secondaria di secondo grado non può essere superiore a quello delle classi presenti nell'anno scolastico 2023-2024. In sostanza, con un colpo di penna, si cristallizza il presente e si impedisce a quartieri in espansione, aree industriali in trasformazione e filiere high-tech emergenti di aprire nuove sezioni. Non è programmazione questa, è un freno di emergenza tirato in maniera esagerata. Ecco, quindi, un taglio non supportato da alcuna analisi sociale e economica e che non tiene conto dei fabbisogni futuri, delle distinzioni tra territori, della dispersione scolastica, che negli istituti tecnici ancora - parlo della dispersione scolastica - arriva al 15 per cento; un taglio che penalizza materie come italiano, matematica, storia, comprimendo contenuti disciplinari fondamentali con il rischio di produrre diplomati meno preparati. Innovazione, sviluppo ed inclusione avrebbero dovuto essere i tratti distintivi di questo decreto. Invece, così come afferma la Fondazione Agnelli in un recente report, i ritardi del Piano scuola 4.0 e le incertezze sui Patti educativi 4.0 stanno già pesando sulla realizzazione dei laboratori e sulla formazione dei nostri docenti.

Le regioni, in Conferenza, hanno chiesto di rivedere proprio questa norma, perché priva di risorse aggiuntive e rischiosa per i territori interni, come abbiamo già detto. Ma siamo proprio sicuri che questa sia la via per rilanciare la filiera tecnico-professionale, quando l'Europa e lo stesso PNRR ci chiede l'esatto contrario, cioè di investire su laboratori, orientamento, connessioni con le imprese?

Passo alla ricerca universitaria, l'altro polmone di un Paese che vuole essere competitivo. Con l'articolo 1-bis arrivano gli incarichi post-doc e di ricerca di durata massima triennale. La spesa complessiva, però, non può superare il costo medio degli assegni di ricerca degli ultimi 3 anni; tali contratti non generano diritti in ordine all'accesso ai ruoli. In pratica, chi oggi è precario vedrà soltanto cambiare l'intestazione del contratto, non la certezza del futuro.

Lo scorso 12 maggio migliaia di ricercatori hanno scioperato con lo slogan “la ricerca è un lavoro”, denunciando che il 42 per cento del personale accademico è già precario. Una settimana dopo, davanti a Palazzo Madama, nuovi dottori di ricerca hanno protestato contro contratti “bis”, privi di coperture per malattia e per paternità. Noi stessi, come Partito Democratico, abbiamo ricevuto ed ascoltato tantissime delegazioni di precari. Eppure, di fronte a questa mobilitazione, il Governo risponde con un meccanismo che proroga l'incertezza fino al 2026, senza un percorso di tenure track nazionale, senza un piano di reclutamento stabile e, soprattutto, senza un investimento strutturale. Nessun lavoro subordinato, come richiesto in tutta Europa, ma si reintroducono invece figure sottopagate, senza tutele, che erano state invece cancellate durante il Governo Draghi.

Diciamolo chiaramente: ogni giovane scienziato che lasciamo andare fuori dal nostro Paese, se non addirittura in Paesi che hanno introdotto la tenure track obbligatoria in 6 anni, come la Germania e la Spagna, è un pezzo di produttività che esportiamo a costo zero. L'Istat lo quantifica con una perdita di capitale umano, che ci costa fino a 14 miliardi di euro l'anno. Stabilizzare il talento, colleghe e colleghi, non è un lusso, è leva di crescita. Ogni euro speso in ricercatori stabili, ne genera 4 in progetti europei competitivi. Insomma, il risultato di questo decreto è l'ennesima proroga del precariato accademico, mentre altri Paesi UE, dalla Spagna, con la riforma Castells, alla Germania, con la tenure track professor, investono sul reclutamento stabile dei giovani ricercatori.

E vengo ai docenti, che mi stanno particolarmente cari, anche per il mio ruolo. Il decreto rivendica l'obiettivo PNRR di 70.000 assunzioni, ma, per centrarlo, servirebbe che le graduatorie scorressero in tempo record. Il testo alza al 30 per cento la quota di donne che potranno essere chiamate oltre i posti banditi e istituisce, dal 2026-2027, un elenco regionale da utilizzare in caso di esaurimento delle graduatorie ordinarie. Ma, come ricorda la relazione, per accelerare bisogna addirittura cambiare la regola di arrotondamento delle frazioni di posto, portandola da “per difetto” a “per eccesso”. Ora, se bastasse un artifizio aritmetico, staremmo tutti tranquilli e a posto. Purtroppo la realtà è ben diversa: 230.000 insegnanti lavorano già con contratti a termine e il Nord Italia fatica ancora a coprire le cattedre STEM, sulle quali, come Partito Democratico, ci siamo tanto impegnati nella scorsa legislatura, perché sappiamo l'importanza che hanno queste materie sulla formazione dei nostri ragazzi, dei futuri docenti e dei futuri cittadini e lavoratori. In questo scenario, imporre 30 CFU a carico dei candidati e bandire concorsi a raffica rischia di diventare un percorso a ostacoli, che premia la resistenza più che il merito. Inoltre, nulla si dice riguardo a percorsi di formazione, retribuzione e tutela delle supplenze brevi, che è un'altra piaga della nostra scuola.

Il Parlamento non può limitarsi a prendere atto di questi nodi, deve scioglierli. Ecco perché, nelle Commissioni, abbiamo chiesto e continuiamo a chiedere: fondi per i laboratori negli istituti tecnici; la rimozione del tetto alle classi, sostituito da un indicatore flessibile legato a indicatori di dispersione e demografia; un'abilitazione gratuita che porti in cattedra, con dignità, chi le prove le supera. Sono proposte respinte senza discussione, senza batter ciglio, ma per noi sono sempre lì, sul tavolo. Fuori da quest'Aula, nei laboratori informatici con computer obsoleti, se non addirittura privi di tante cose, nei laboratori di chimica con le piastre scollegate, negli atenei dove la parola ricercatore è sinonimo di eterno stagista, questo decreto, ancora una volta, lede la dignità di chi studia, insegna e fa ricerca. La scuola e la ricerca - e lo sappiamo tutti - non sono capitoli di spesa da comprimere, al contrario, da espandere in continuazione.

Una riforma che non mette risorse è destinata a restare lettera morta; una riforma che blocca le classi, precarizza i cervelli e costringe i docenti a una corsa a ostacoli non rende l'Italia più moderna, colleghi, la rende soltanto più ingiusta e più arretrata; più ingiusta per gli studenti, per i ricercatori e per gli insegnanti, che già domani mattina torneranno a scuola con la passione di sempre e con la fatica di troppo sulle spalle. A loro dobbiamo risposte concrete, non tetti rigidi, non contratti usa e getta, non selezioni infinite e davvero estenuanti. Per questo, oggi, con senso di responsabilità e con la passione di chi ha dimostrato e ha dedicato la propria vita all'educazione, prendo la parola per dire fermamente “no” a questo decreto, e non sarà il Partito Democratico a perdere, ma l'Italia di domani.