A.C. 4522
Grazie, Presidente. Onorevoli colleghi, con il voto di oggi qui alla Camera su questa proposta di legge, già approvata dal Senato, “Norme in materia di domini collettivi”, si colma una lacuna, che si stava trascinando da troppo tempo, e soprattutto si chiude un periodo troppo lungo nel quale molte comunità hanno dovuto spendersi sul piano giudiziario e politico per difendersi e per tirarsi fuori dall'ambito di applicazione di una legge fascista del 1927, la legge 1766, che di fatto indirizzava verso la “liquidazione” giuridica le proprietà collettive.
Si arriva quindi dopo novant'anni dal varo di disposizioni che miravano alla soppressione, ad approvare un testo che invece riallarga orizzonti a questo istituto giuridico.
La legge dà infatti riconoscimento giuridico ai domini collettivi, che sono situazioni giuridiche legate al godimento di specifiche estensioni di terra, abitualmente riservate ad un uso agro -silvo-pastorale, di boschi da parte di una determinata comunità, che trae utilità da quel bene, individualmente o congiuntamente tra gli aventi diritto.
La proprietà collettiva presenta caratteri di affinità sia con la proprietà privata in quanto allo stesso modo gode del bene in esclusività, sia con la proprietà pubblica, oltre ad una caratteristica che la rende diversa da entrambe, cioè la sua assoluta indisponibilità: la proprietà collettiva non può infatti essere alienata, non può essere espropriata, non può essere usucapita e non può essere neanche data in garanzia.
Da qui una serie di problemi a cui il progetto di legge pone rimedio attraverso l'adozione di un regime uniforme per il riconoscimento di personalità giuridica alla proprietà collettiva.
Stiamo parlando di un istituto giuridico, come è emerso anche nella discussione, che origina in consuetudini che sono tramandate da millenni: già nella “tavola di Polcevera” un reperto rinvenuto nel 1506 e risalente al 117 avanti Cristo, che tratta di una controversia in cui Senato di Roma si esprime sui beni di una comunità ligure si parla di “ager publicus”.
Norme consuetudinarie fissate in statuti, che risalendo il Medioevo, sono arrivati praticamente inalterati fino ad oggi.
Stiamo parlando però di una realtà di oltre 1,5 milioni di ettari cioè quasi il 10% della superficie agricola totale (SAT) e quasi il 4% della superficie complessiva del paese, alcune fonti, asseriscono addirittura numeri maggiori, che fa capo a comunioni familiari montane e comunali, a comunanze, a consorzi di utenti, università agrarie, beni sociali, vicinie, regole, partecipanze agrarie, società di antichi originari, consorterie, ASUC, ad ASBUC, frazioni, o ai comuni che gestiscono le proprietà collettive.
Parliamo di circa 2.500 i soggetti e gli enti preposti alla gestione di un territorio vasto e variegato, parliamo quindi di una realtà rilevante, di cui non è possibile non tenere conto.
Basterebbero questi soli dati spiegare l'importanza delle finalità e degli obiettivi strategici di questa legge.
I domini collettivi sono al tempo stesso una realtà che ha radici antichissime, nelle bonifiche di territori paludosi che in epoca medievale ovviamente potevano essere intraprese solo da molte persone e nel corso di più generazioni, per cui coloro che rendevano coltivabili quei terreni col proprio lavoro potevano poi dirsene proprietari e sfruttarli, ma non potevano dividere tra loro il quel bene così ottenuto, perché consapevoli che fuori del lavoro comune questo sarebbe ritornato presto alla condizione precedente.
E realtà anche più recenti, quando i pascoli erano manutenuti da una determinata comunità di villaggio e potevano quindi conseguentemente essere sfruttati dai membri di quella comunità, o i boschi, anch'essi nella proprietà collettiva delle comunità circostanti, comunità che si facevano carico della loro della loro manutenzione e ne gestivano con norme locali, in molti casi codificate in Statuti, l'utilizzo.
Ma questa norma rappresenta anche qualcosa di nuovo che nel dibattito è stata definita un seme di futuro.
A questo riguardo, non credo sia solo una fortunata coincidenza che siano trascorse solo poche settimane dall'approvazione della legge sui piccoli comuni.
Perché questa legge, come quella, pone l'accento sul riconoscimento della centralità delle comunità, che soprattutto in molte aree interne e nelle zone di montagna rappresentano il vero e proprio valore aggiunto per guardare al futuro con la strumentazione necessaria per poterlo fare con fiducia.
Non sono considerazioni teoriche o ideologiche, ma il frutto di concrete esperienze che in numerose comunità locali stanno accompagnando, anche sul piano culturale e valoriale, i percorsi dei domini collettivi, che rappresentano sicuramente un'autentica ricchezza naturale, ma anche un patrimonio culturale ed economico del nostro Paese.
Attraverso la proprietà collettiva si realizza infatti l'impegno di tante persone che vivono il territorio ed aiutano a gestire quello che è il loro più importante patrimonio comune, il bene più prezioso per quella comunità.
Partecipazione, controllo, mutualità erano le regole per costruire un equilibrio un tempo di sopravvivenza e forse oggi di benessere.
Un equilibrio che teneva sempre insieme i diritti del presente con la responsabilità verso il futuro, sia in termini generazionali che in termini ecologici, dove vi era la consapevolezza che rompere quell'equilibrio significava compromettere a volte in modo pesantissimo la vita di tutta la comunità e al tempo stesso dei propri discendenti.
Una consapevolezza, che peraltro dovrebbe stare alla base del senso civico di cui avvertiamo oggi più che mai il bisogno.
Ecco perché quello dei domini collettivi è un patrimonio culturale da salvaguardare, da valorizzare e da lasciare in eredità alle generazioni future anche attraverso questo aggiornato e coerente quadro normativo.
Per questi motivi esprimo convintamente il voto favorevole del Partito Democratico.