Signor Presidente, in due minuti non si può ricordare un uomo che ha vissuto quasi un secolo combattendo; e combattendo con le parole, con le idee e con le interviste, un uomo che da molto tempo non aveva incarichi pubblici, dal 1992, ma non aveva rinunciato a svolgere un ruolo pubblico. Un uomo che, da ragazzo, aveva vissuto nella sua Sicilia l'ingiustizia, un'ingiustizia così grande ed inaccettabile da spingerlo alla ribellione. E, da lì, l'iscrizione al Partito Comunista clandestino nella lotta antifascista e, poi, l'esperienza di leader sindacale nella lotta alla mafia agraria e al latifondo, di dirigente politico, prima ancora nella sua Sicilia, poi, a livello nazionale, con Togliatti, con Longo, con Berlinguer, nella ricostruzione del Paese e nella costruzione della democrazia, sino alla nascita del PDS, di cui fu senatore.
No, in due minuti non è possibile, però si possono almeno ricordare alcune parole che hanno segnato la sua vita. La prima è “unità”, il nome del giornale che ha diretto negli anni Ottanta, ma anche la sua stella polare, l'unità delle forze progressiste della sinistra: divise, diceva, perdono e perdono le loro ragioni. L'unità praticata nel sindacato nel dopoguerra e anche nei momenti più aspri della lotta tra comunisti e socialisti negli anni Ottanta. Macaluso non aveva aderito al PD, riteneva ancora irrisolta la sua identità e la sua funzione, ma non aveva esitato a condannare tutte le rotture e tutte le scissioni, anche quelle di questi anni e, per questo, si era battuto contro ogni dogmatismo e contro ogni settarismo e, da qui, la sua battaglia per trasformare il PCI in una grande forza del socialismo europeo.
La seconda parola è “garantismo”, non il sinonimo peloso di impunità per i propri amici. No, si nutriva di cose profonde, dell'amicizia con Leonardo Sciascia che aveva incontrato nella clandestinità e, poi, nell'esperienza di una magistratura che, negli anni Cinquanta, aveva girato le spalle di fronte alla repressione della mafia, utilizzata come polizia di classe, e, ancora, di una magistratura che aveva fatto la repressione contro le lotte per l'occupazione delle terre. Per questo sapeva che la lotta alla mafia - e lo ricordava sempre - non poteva essere delegata né alla Polizia né alla magistratura, perché può vincere soltanto se è lotta sociale e politica e per questo aveva l'idiosincrasia per qualunque forma di giustizialismo. Per me è stato un onore e una fortuna averlo al fianco nel conforto e nel confronto negli anni a via Arenula.
E l'ultima parola è “curiosità”. Nelle sue conversazioni mi chiedeva sempre dettagli, particolari, anche questioni che riguardavano protagonisti minori della vita politica. Non era erudizione e non era neanche pedanteria: era la curiosità di sapere come le cose sarebbero potute andare a finire. E, in fondo, dentro questa curiosità c'era una immensa fiducia per l'uomo e per la politica, pensando che la politica, se mette in fila le cose, se racconta i fatti guardandoli come premessa e come successione delle lotte, è in grado di cambiare il mondo. Lui almeno ci era riuscito, migliorando la condizione di quei contadini che aveva rappresentato all'indomani della Seconda guerra mondiale. Ecco, io, ricordandolo oggi, non posso che dire che sono stato un uomo molto fortunato per averlo incontrato, per averlo avuto, non so se come maestro, sicuramente come amico.