Grazie, Presidente. Signor Ministro, onorevoli deputati, tutti viviamo questi giorni con angoscia, di fronte a un ennesimo scontro armato tra Hamas e Israele che provoca altri lutti, sofferenze e distruzioni, scavando un solco ancora più profondo di rancore, voglia di vendetta e odio. Per questo, la priorità assoluta è fermare l'escalation militare, chiedere con fermezza ad Hamas di interrompere il lancio dei razzi sulle città israeliane e al Governo israeliano di sospendere l'azione militare, che sta travalicando quella proporzionalità indispensabile perché il diritto all'autodifesa sia legittimo; così come l'espulsione di famiglie arabe dalle loro case, gesto inaccettabile che chiediamo di ritirare, non può giustificare il lancio di 3.500 razzi sulle abitazioni delle famiglie israeliane.
Chiediamo al nostro Governo di sostenere ogni iniziativa in ogni sede utile alla sospensione delle ostilità. Però, ottenuto questo obiettivo, che tutti sappiamo essere l'obiettivo di queste ore, è indispensabile attivare subito un'iniziativa politica, senza la quale il rischio è che i fuochi di oggi, come è accaduto in questi anni, si riaccendano.
Un'iniziativa politica che riapra un percorso negoziale per giungere finalmente alla soluzione “due popoli, due Stati”, definita negli Accordi firmati da Rabin e Arafat a Washington con la garanzia di Clinton. Sono passati 28 anni da quegli Accordi, sfibrati negli anni da continui stop and go, mancate applicazioni, ripensamenti, reciproche recriminazioni; e nella esasperante lentezza di una pace che non arrivava mai sono cresciute, in entrambi i campi, posizioni oltranziste e radicali, che hanno messo in discussione il processo di pace. È accaduto in Israele, dove, dopo l'assassinio di Rabin, ricordiamolo, il Premier Netanyahu dichiarò che con Rabin erano morti anche agli Accordi di Oslo e di Washington; ed è accaduto in campo palestinese, dove la lentezza del processo e i tanti ostacoli frapposti all'applicazione degli Accordi hanno via via indebolito Abu Mazen e l'Autorità nazionale palestinese, a vantaggio di una crescita di posizioni radicali, in particolare di Hamas, che, dopo il ritiro unilaterale israeliano da Gaza ,vi ha preso il potere, trasformandola nella base logistica e militare dell'aggressione a Israele.
Così è venuto meno il principio su cui erano fondati gli Accordi di Washington, il reciproco riconoscimento dell'esistenza su quella terra di due diritti ugualmente legittimi: il diritto di Israele a esistere nella sicurezza riconosciuto dai suoi vicini e il diritto del popolo palestinese a vivere in un proprio Stato. Ed è esattamente dal ripristino di quel riconoscimento che deve muovere oggi la riapertura di un percorso negoziale, rimuovendo tutto ciò che ha messo in discussione quel principio. Al Governo di Israele, quale che sia questo Governo, la cui composizione è in corso in queste settimane, si deve chiedere di non proseguire in ulteriori insediamenti di colonie in Cisgiordania (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico), di interrompere ogni forma di espulsione della popolazione araba da Gerusalemme, riconoscendo i suoi diritti civili, politici e religiosi, di revocare la decisione, per ora soltanto sospesa, dell'annessione della Valle del Giordano e di non frapporre ostacoli allo svolgimento delle elezioni indette dall'ANP.
E alla parte palestinese si deve chiedere di riconoscere i diritti di Israele: Abu Mazen e l'ANP lo hanno fatto da tempo, come lo hanno fatto i Paesi arabi che hanno sottoscritto gli Accordi di Abramo, creando un contesto favorevole alla ripresa del negoziato; così come da tempo Egitto e Giordania hanno sottoscritto Accordi di pace con Israele. Quel riconoscimento, tuttavia, non è venuto fino ad oggi dai settori radicali palestinesi, a partire dalla jihad e da Hamas, nel cui statuto - lo ricordo - è scritto che obiettivo dell'organizzazione è la cancellazione di Israele dal Medio Oriente, terra che appartiene esclusivamente all'Islam. Se nell'opinione pubblica israeliana la diffidenza verso la creazione di uno Stato palestinese è cresciuta negli ultimi anni in misura superiore al passato è perché si teme che, nell'eventualità di una vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi, la Cisgiordania diventi un'altra Gaza. Ad Hamas si deve dire con chiarezza che battersi perché i palestinesi abbiano il loro Stato impone l'abbandono di ogni progetto di distruzione di Israele e il riconoscimento della sua legittimità, e lo si deve dire con altrettanta chiarezza all'Iran, alla Turchia, all'Hezbollah libanese che sostengono jihad e Hamas.
Sono obiettivi che richiamano la responsabilità delle istituzioni internazionali, dell'Unione europea, dei grandi Paesi, che tutti, in questi anni, hanno assecondato un passivo trascorrere del tempo, nell'illusione che ciò che avrebbe consentito il superamento dei conflitti. È accaduto il contrario, perché una criticità non risolta con il tempo produce più acuti conflitti. Così come c'è una responsabilità delle opinioni pubbliche, delle organizzazioni politiche e sindacali, del vasto associazionismo di solidarietà, che possono anch'essi offrire un contributo prezioso a superare contrapposizioni manichee a favore del dialogo e del riconoscimento reciproco tra palestinesi e israeliani. In questa direzione domani il segretario nazionale del nostro partito incontrerà l'Alto rappresentante europeo per la politica estera Borrell.
Concludendo, ciò che le chiediamo, signor Ministro, è che l'Italia, forte della positiva interlocuzione che da tempo i nostri Governi coltivano sia con Israele che con i palestinesi, sia l'attivo promotore, sulla base dei sei punti da lei indicati, di ogni iniziativa in sede multilaterale e bilaterale che possa riaprire un percorso negoziale, unica strada per dare soluzione alle aspirazioni dei popoli che vivono su quella terra. Una soluzione che può offrire un contributo essenziale a stabilizzare un'intera regione che, come lei ha ricordato, dallo Stretto di Hormuz allo Stretto di Gibilterra è percorsa da conflitti e instabilità che richiedono di essere sedati e ricondotti a soluzioni politiche. Condivido e condividiamo quello che lei ci ha proposto sulle modalità e l'impegno dell'Italia nell'affrontare la crisi libica. Quello che mi pare unisca queste due situazioni così critiche, il Medio Oriente e la Libia, è che ancora una volta si riconferma la giustezza della posizione del nostro Paese: non esistono soluzioni militari, esistono solo soluzioni politiche, e per questo l'Italia deve continuare a lavorare.