Data: 
Martedì, 26 Ottobre, 2021
Nome: 
Filippo Sensi

Grazie, Presidente. Ho conosciuto Raffaele Tiscar, Lele, nel 2014, quel 2014. Arrivati a Palazzo Chigi, ricordo le stanze vuote, pochi, pochissimi riferimenti, lui uno di questi. Era un vento, ma non è di questo che parliamo oggi, Presidente e condivido, mi creda, il fastidio per gli epicedi che girano tutti attorno all'officiante e alla durevole vanità della sua smemoratezza.

Vi evito però Wikipedia, a dire la Puglia dell'infanzia, la Toscana, poi, gli studi alla “Cesare Alfieri”, dove all'epoca insegnavano Mario Draghi, Tarantelli, Vanni Sartori, Paolo Barile, l'impegno a Palazzo Vecchio, da far tremare i polsi, nei corridoi di Lorenzo e di Machiavelli. Un cursus secondo una concezione ormai antica della politica: quella del farsi le ossa per, poi, salire, non di rango, ma di responsabilità, che lo portò qui, alla Camera, nel 1992, quel 1992. Poi il passaggio ai servizi, preveggente, capendo anzitempo che acqua, energia, reti sarebbero stati i nutrimenti terrestri di una terra ventura ancora oggi, di un futuro non ancora passato. E, ancora, Palazzo Chigi, Vicesegretario generale della Presidenza del Consiglio con Graziano Delrio, un posto di enorme potere, che Lele affrontò con quell'aria rabdomante, il suo sorriso dissacrante, un filo sofferto, l'esperienza donata agli altri senza risparmio, anche dopo, al Ministero. Ricordo la sua missione, un'ossessione quasi: la banda ultralarga. Lui, con Antonello Giacomelli, era in grado di entusiasmarsi per cose che lo guardavamo come fosse un pazzo. E, invece, era la vita delle persone, quella che Lele ha sempre tenuto cara e fissa nella sua esistenza, interrotta da un incidente, come un filosofo greco o un padre della Chiesa.

Lele era un padre nel senso più generoso e fragile della parola, era un uomo di territorio - la sua zolla di erba -, era i suoi ragazzi ed era aereo, come non ne ho mai incontrati nella mia vita: sembrava sempre appena atterrato da chissà che traiettoria. Sotto a quelle sue palandrane grigie, ho sempre sospettato delle ali piegate. Vedeva prima - si diceva - e largo, aveva una concezione della politica e della vita come servizio e ricerca del dialogo, della misura, per cambiare le cose e le persone.

Mi mancherà l'azzurro dei suoi occhi, quello di quei giorni in cui tutto iniziava e sembrava iniziare e, se ho parlato di me, vi prego, colleghi, Presidente, di perdonarmi: è il mio modo di dire il grazie per la sua mite pazienza, che, indaffarato, non seppi dirgli allora (Applausi).