Grazie, Presidente. Nel DEF si prevede che l'inflazione misurata dal deflatore dei consumi, che è stata del 7,4 nel 2022, inizi a calare, ma resti comunque sostenuta, al 5,7, anche nel 2023. Sappiamo che il traino principale dell'inflazione è stato l'aumento dei prezzi dell'energia. Come ci ricordava proprio ieri dalle colonne del Financial Times il capo economista della Banca d'Inghilterra Huw Pill, l'aumento dei prezzi dell'energia, e cioè di un input che noi importiamo, può essere considerato come una tassa per il Paese. Il Paese che la subisce diventa più povero.
Il problema allora, come per tutte le tasse, è sapere chi la deve pagare. In particolare, la domanda è come si deve distribuire il peso di questa tassa tra imprese e lavoratori, tra salari e profitti. Il DEF non ha dubbi: questa tassa devono pagarla i lavoratori. Lo dichiara esplicitamente il Ministro Giorgetti nell'introduzione, a sua firma, al DEF, in cui si legge testualmente: alla discesa dell'inflazione si accompagnerà il graduale recupero delle retribuzioni in termini reali, che dovrà avvenire progressivamente, non in modo meccanico, ma di pari passo con l'aumento della produttività del lavoro. Tradotta in italiano, questa affermazione significa due cose. Uno, che secondo il Governo non è possibile prospettare un aumento delle retribuzioni per recuperare la perdita fortissima del potere d'acquisto indotta dall'inflazione.
Sembra, insomma, che ai lavoratori venga recitato l'adagio antico che dice “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”. Infatti, e questa è la seconda affermazione, un po' di aumento delle retribuzioni in termini reali può avvenire solo e con moderazione al passo con la produttività. Cosa vuol dire? Vuol dire che il Governo riconosce, bontà sua, che, se l'aumento della produttività fa aumentare la torta da distribuire, anche ai lavoratori può spettare una fetta un poco più grande.
Questo approccio del Governo sembra determinato dalla paura che un aumento delle retribuzioni indotto dall'inflazione si trasferisca a sua volta sui prezzi praticati dalle imprese, generando una spirale salari-prezzi che impedirebbe il rientro dall'inflazione. In realtà siamo molto lontano da questo scenario. Come ci ricorda l'Ufficio parlamentare di bilancio, la crescita delle retribuzioni, pur a fronte di un'inflazione piuttosto sostenuta, nel 2022 è stata di appena l'1,1 per cento. Nel 2023 i rinnovi contrattuali latitano, ben il 76 per cento dei lavoratori privati sono in attesa del rinnovo contrattuale e le somme perse aumentano giorno per giorno. Su questo niente si dice.
Sorprende che il Documento di economia e finanza, così preoccupato per quanto avviene sul fronte salariale, si disinteressi invece completamente di quanto avviene sul fronte dei profitti. Sorprende anche perché il dibattito internazionale verte proprio sulla possibile esistenza di una spirale profitti-prezzi. Ciò significa che, in alcuni Paesi più che in altri, in alcuni settori più che in altri, sono proprio i profitti ad essere cresciuti, e sono cresciuti più dell'aumento dei costi sostenuti dalle imprese, alimentando conseguentemente l'inflazione. Lo dice anche la Banca centrale europea. Il fenomeno sembra essere particolarmente forte in Paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Germania, ma in alcuni settori strategici, come ad esempio quello dell'energia, è successo anche in Italia. Nella consapevolezza di questo problema altri Paesi si sono mossi.
Il Regno Unito, ad esempio, aumenta il salario minimo, che, ricordo, coinvolge 2 milioni di lavoratori; lo aumenta del 9,7 per cento, con l'effetto di dare risposta, di dare aiuto ai soggetti più colpiti dall'inflazione. Fino a quando può andare avanti una situazione di inflazione determinata dall'aumento dei margini di profitto? Probabilmente fino a che non se ne vedranno gli effetti depressivi sui consumi, effetti che nel nostro Paese si stanno già manifestando; il carrello della spesa è diminuito del 4,4 per cento fra il marzo 2022 e il marzo 2023, come evidenziato da una ricerca condotta sulla grande distribuzione e ne dà, comunque, implicitamente atto anche il DEF, nella Tavola 1 dell'appendice sugli effetti del PNRR che mostrano uno scenario alquanto anomalo, in cui, sostenuto dalle spese di investimento del Piano, il PIL aumenta, ma pure a fronte di questo aumento, i consumi diminuiscono. Questo fenomeno, così poco comprensibile, non può che essere spiegato dal fatto che le proiezioni scontino un proseguimento della compressione delle retribuzioni in termini reali.
Il DEF non solo non dedica sufficiente attenzione al problema del conflitto distributivo in essere fra salari e profitti, ma non si occupa neppure adeguatamente della situazione contrattuale dei dipendenti pubblici: i rinnovi contrattuali finiscono nel calderone delle cosiddette politiche invariate; non si dice quale cifra si intende riservare ai rinnovi che riguardano il triennio 2022-2024 e non si dice come si pensi che gli enti decentrati possano, con i loro magri bilanci, affrontare, a loro volta, una tornata contrattuale in cui il tema del recupero degli effetti dell'inflazione dovrà essere posto; al contrario, ad esempio, in Germania i lavoratori del settore pubblico hanno appena ottenuto un aumento in termini reali dei propri stipendi un poco superiore al 5 per cento, un aumento che interessa due milioni e mezzo di persone.
Un altro aspetto che viene assolutamente trascurato dal DEF sono gli effetti dell'inflazione sul prelievo fiscale sull'erogazione di prestazioni; il nostro sistema fiscale non ha, a differenza, ad esempio, dell'Austria, meccanismi di indicizzazione del sistema di scaglioni e aliquote e detrazioni rispetto ai prezzi, quindi è esposto a fenomeni di fiscal drag così come a fenomeni di erosione per via fiscale del salario reale. Sotto questo profilo, andrà verificato se il promesso nuovo taglio temporaneo – e, sottolineo, temporaneo -, per pochi mesi, del cuneo fiscale sarà in grado almeno di compensare temporaneamente le perdite indotte dalla mancata indicizzazione del sistema fiscale.
Per quanto riguarda le prestazioni sociali, voglio ricordare che la nuova misura di contrasto alla povertà che il Governo sta mettendo a punto, molto tagliata quanto a importi, platea e durata del beneficio, sarà sì indicizzata, ma solo a partire dal 2026, quando forse si spera che l'inflazione non sia più un problema. Bisognerebbe, poi, parlare del taglio di una quarantina di miliardi, in termini reali, operato dall'inflazione su sanità istruzione, eccetera, ma questo è un altro discorso, pur se anche di questo il DEF, il principale strumento di programmazione delle politiche economiche non dice niente, ed è già un giudizio.