Discussione generale
Data: 
Lunedì, 16 Ottobre, 2023
Nome: 
Paolo Ciani

A.C. 1295

Grazie, Presidente, il 16 ottobre 1943 è una delle pagine più buie della storia della nostra città di Roma, del nostro Paese, sicuramente la più buia per la comunità ebraica di Roma. Sono passati esattamente ottant'anni da quel sabato 16 ottobre 1943 quando gli ebrei romani furono rapiti dalle loro case e avviati ai campi della morte. I testimoni ce l'hanno raccontata come una mattina fredda e piovosa, un sabato, lo Shabbat, i cittadini ebrei videro piombare nelle loro case i militari tedeschi mentre i camion erano in strada pronti a portarli via dalle loro case. Sono trascorsi ottant'anni e chi ha vissuto quelle tragiche ore all'alba del 16 ottobre del 1943 non c'è più, l'ultimo sopravvissuto al rastrellamento del ghetto di Roma si chiamava Lello Di Segni, scomparso, all'età di 91 anni, nel 2018, attraversò Auschwitz, le macerie del ghetto di Varsavia, Bergen-Belsen, Dachau, prima di tornare a Roma il 10 giugno del 1945. Dobbiamo ricordare questa memoria: 1024 persone strappate dalle loro case e deportate ad Auschwitz, ne sono tornate solo 16, una sola donna. Purtroppo, quel 16 ottobre fu un punto di arrivo, frutto amaro di una storia drammatica, la storia di un Paese che aveva perso la libertà e che impose discriminazione e odio verso l'ebreo.

Quel provvedimento sembrò corrispondere per alcuni a quell'odio all'ebreo che veniva da lontano e che da sempre lo considerava estraneo, nemico, complottante eterno contro la nostra civiltà, da cui difendersi. Molti pensavano che la situazione non fosse così drammatica. La discriminazione fu imposta, mentre molti la trovavano assurda, ma non potevano parlare perché non c'era libertà. Per gli ebrei romani fu l'ultima tappa, una tappa inaspettata di un triste itinerario iniziato nel settembre del 1938 con la promulgazione delle leggi razziali. Tra queste due date, infatti, esiste un profondo legame. Per molti ebrei romani, infatti, le leggi razziali hanno rappresentato l'anticamera dei campi di sterminio nazisti. Il 1938 è un anno cruciale, la vita cambia in tutti i suoi aspetti, pubblici e privati. È una svolta che coinvolge tutti gli ebrei, dai bambini agli anziani, da chi nasce a chi muore, dai bambini allontanati dalle loro classi, nell'incomprensione loro e dei loro compagni. Ma dicevamo anche di chi muore, perché dal 1938, ufficialmente, gli ebrei non muoiono più in Italia: viene, infatti, vietata anche la pubblicazione dei necrologi sui giornali. Dal 1938 gli ebrei in Italia devono diventare invisibili. Tuttavia, come avrebbe dimostrato il 16 ottobre, gli ebrei erano molto visibili, facilmente reperibili, erano registrati in una lista, quindi perfettamente identificabili per separare il loro destino dal resto della popolazione romana.

Dopo l'8 settembre 1943, giorno del proclama dell'armistizio di Badoglio, il destino degli ebrei nel Paese era ancora più incerto. Ma loro, gli ebrei romani, erano riusciti a soddisfare la richiesta del colonnello delle SS, Kappler, di consegnare 50 chili d'oro, che avrebbero dovuto metterli in salvo. Nonostante questo, le SS avevano già sequestrato gli elenchi della comunità ebraica, saccheggiato i templi e le biblioteche, preannunciando una devastazione vera e propria. E quella devastazione arrivò pochi giorni dopo, alle 5,30 di quel sabato mattina, quando le truppe naziste invasero il Portico d'Ottavia. Spuntavano le liste dei cognomi e gli indirizzi. Le SS hanno proseguito, casa per casa, a cercare i capifamiglia ebrei. Avevano dato 20 minuti di tempo per preparare una valigia con cibo, soldi, biancheria, e per poter abbandonare la propria casa. Uomini, donne, bambini, anziani e malati: tutti dovevano uscire di casa e salire su quei camion. In pochi sono riusciti a fuggire, altri hanno provato e pochissimi sono riusciti a salvare i propri bambini. Ma i 1.024 ebrei, di cui più di 270 bambini, non hanno avuto scampo, rastrellati dalle proprie case e trasferiti al collegio militare. Dei deportati del 16 ottobre 1943, ne sono tornati a Roma soltanto 16. Dei bambini, però, non ne tornò nessuno.

Ricordò successivamente, Settimia Spizzichino, l'unica donna tornata: “Fummo ammassati davanti a Sant'Angelo in Pescheria: i camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini… e anche vecchi e malati, e ripartivano. Quando toccò a noi mi accorsi che il camion imboccava il Lungotevere in direzione di Regina Coeli… Ma il camion andò avanti fino al Collegio Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che cosa mi passava per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con precisione; che cosa pensassero i miei compagni di sventura emergeva dalle loro confuse domande, spiegazioni, preghiere. Ci avrebbero portato a lavorare? E dove? Ci avrebbero internato in un campo di concentramento? ‘Campo di concentramento' allora non aveva il significato terribile che ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello che sarebbe stato il lager”. Queste le parole di Settimia Spizzichino, raccolte in un libro bellissimo, il cui titolo è un manifesto: Gli anni rubati. Quanti anni rubati a quegli uomini e a quelle donne? Quanti anni rubati agli ebrei uccisi nei campi di concentramento?

Negli anni successivi Andrea Riccardi ricorda quella mattina: quel sabato terribile trovò i romani divisi. C'erano gli ariani e gli ebrei, ma erano anche lontani come credenti. Una storia dolorosa che aveva separato i cristiani e i cattolici dagli ebrei, con un muro di ignoranza che qualche volta si fece disprezzo, fatto di poca frequentazione e amicizia. Fu forse la storia di quei mesi a far scoprire a molti cristiani il volto degli ebrei. Credo che taluni ebrei scoprirono volti umani di cristiani. Infatti, se molti furono i delatori che, per pochi soldi, mandarono a morire i loro vicini di casa o i loro conoscenti ebrei, in quegli anni e in quei giorni furono anche tanti che aprirono la loro porta davanti alla barbarie del nazismo e ospitarono tanti ebrei, a cominciare dai bambini: istituzioni religiose, ma anche singole famiglie, proprio accanto al Portico d'Ottavia, l'ospedale Fatebenefratelli, la chiesa di San Bartolomeo all'Isola Tiberina, tanti aprirono le porte e mostrarono un volto umano davanti alla barbarie. Per questo, per noi è un obbligo ricordare le vicende del giorno più nero, della ferita più profonda della storia degli ebrei in Italia e della nostra città di Roma. Ho avuto la possibilità, direi la grazia, di aver preso parte al recupero di questa memoria. Infatti, dal 1994, la Comunità ebraica di Roma e la Comunità di Sant'Egidio hanno iniziato a promuovere una marcia della memoria. Una marcia della memoria che è partita da Trastevere, cioè dal luogo del collegio militare, a ritroso, come i passi al contrario di quegli uomini e di quelle donne, fino al Portico d'Ottavia. E in questi anni abbiamo ascoltato tante voci, ci siamo stretti intorno a tante persone, a cominciare proprio da Settimia Spizzichino, che ricordo, commossa e appassionata, raccontare e parlare al Portico d'Ottavia ai tanti che si erano radunati. O come intorno al rabbino Toaff, colonna dell'ebraismo romano, intorno a cui si è ricostituita la comunità ebraica romana dopo il dramma e la tragedia della Shoah. In questi anni, è rinata la memoria, è cresciuta la memoria, si è allargata la memoria non solo agli ebrei romani, non solo agli ebrei italiani, ma a tutti i cittadini di Roma, a tutti i cittadini italiani, anche a quei nuovi cittadini che a Roma sono giunti in questi anni, a cui le cui storie lontane del 1943 non appartenevano, ma che hanno imparato a far memoria con noi e che hanno fatto anche, di questa memoria, un motivo della loro integrazione nella nostra città di Roma.

Per questo, Presidente, è particolarmente significativo che noi oggi parliamo del Museo della Shoah e del fatto che questo museo della Shoah nasca qui, nella capitale d'Italia, Roma, che ha visto questa pagina oscura abbattersi tra le sue vie. Infatti, non esiste una lotta all'antisemitismo senza la memoria, così come non esiste la lotta al razzismo senza la cultura e la conoscenza. Come tramandare oggi questa memoria? Come tramandare la sciagura e il dramma della Shoah, intorno a cui è nata anche l'Europa, nella memoria di quegli anni tremendi, nella memoria del dramma della Shoah e della guerra? Siamo in un'epoca difficile. Siamo in un'epoca definita di comunicazione di massa, in cui tanti messaggi hanno anche il rischio della banalizzazione. Mi ha colpito in questi anni vedere dei giovani farsi dei selfie di fronte ai luoghi della memoria, di fronte a immagini che richiamano una storia dolorosa. Così come, in questi anni, anche attraverso nuovi strumenti, si è diffuso in maniera nuova e subdola quest'odio, si è diffuso l'antisemitismo.

Pensiamo a quanto odio online esista, a quanto antisemitismo - ancora tanto - esista in rete. Credo che l'Italia in questi anni si sia dotata di alcuni strumenti preziosi - sicuramente il giorno della memoria, sicuramente i viaggi della memoria - e credo che sia importante, anche attraverso questo Museo della Shoah, ricordare che i viaggi della memoria sono anche storia italiana. Abbiamo avuto per le nostre strade - penso al luogo del Museo della Shoah a Milano - il binario da cui partivano i treni che hanno portato gli ebrei ai campi di concentramento, ma anche nelle nostre strade di Roma è passata la Shoah, anche per le vie italiane è passata la Shoah. Per questo, credo che sia stato prezioso il recupero della memoria anche nei termini di una riapertura di fraternità di queste comunità e di queste persone, che non si erano riconosciute come fratelli e sorelle e, in tal senso, forse una tappa fondamentale fu la visita in sinagoga il 13 aprile 1986 da parte di Papa Giovanni Paolo II.

Ecco, credo che tutto questo porti a ricordare come anche l'istituzione del Museo della Shoah a Roma possa costituire una tappa fondamentale di questa memoria perché - e concludo - credo che, senza memoria, non possa esistere una lotta all'antisemitismo, né la costruzione di una società in cui le persone si riconoscono innanzitutto come tali, come persone, senza distinzioni, senza odio, senza alcun razzismo. Come diceva Primo Levi: “chi non ha memoria del passato è condannato a ripeterlo”. Anche attraverso questo gesto importante, noi non vogliamo ripetere questo passato.