Discussione sulle linee generali
Data: 
Venerdì, 21 Novembre, 2014
Nome: 
Antonio Boccuzzi

A.C. 2660- A

Signora Presidente, onorevoli colleghi, Ministro Poletti, sottosegretario Bellanova, viviamo oggi la crisi più dura della storia recente e la più alta percentuale di disoccupazione dal 1977. Non un anno a caso, ma il 1977: l'anno degli insulti a Lama, dell'attentato a Montanelli, dell'omicidio di Casalegno, eventi che non possono essere slegati da quella situazione di particolare disoccupazione. 
  Oggi ci sono 3 milioni di disoccupati, 3 milioni e 300 mila sono coloro che hanno un lavoro precario. Il reddito di questi ultimi è di circa 845 euro lordi. Il 45 per cento di loro sono diplomati, il 15 per cento ha una laurea. Non parliamo solo di giovani, ma di madri, di padri, trentenni, quarantenni, cinquantenni che spesso, troppo spesso, perdono ogni speranza. Oltre un milione di persone sono in cassa integrazione. In tutto 7 milioni di persone che non hanno un reddito fisso o ne hanno uno insufficiente o precario. A queste si devo aggiungere 8 milioni e mezzo di persone che, secondo l'ISTAT, nell'ultimo anno hanno fatto fatica a fare una di queste tre cose: pagare le bollette, riscaldare la casa e, infine, come ha detto brutalmente lo stesso ISTAT, assumere un numero di proteine adeguato, in sostanza mangiare la carne due volte la settimana. 
  La precarietà è diventata una trappola per milioni di persone, non più soltanto i giovani. Sono esplose le disuguaglianze e si sono disposte lungo nuovi confini, che vanno dal reddito alle protezioni sociali. Generazioni di trentenni e quarantenni, giovani tra i 15 e i 24 anni che non studiano, non lavorano, non possono più aspettare. 
  Il Jobs Act può e deve essere un passaggio cruciale. Prevede un ampio ripensamento degli ammortizzatori sociali, amplia la tutela della maternità, che deve riguardare le lavoratrici dipendenti, parasubordinate e autonome, investe in maniera costruttiva su nuovi strumenti, i sistemi per la gestione della formazione continua dei lavoratori. Sono entrati nella discussione alla Camera, già bloccati al Senato, alcuni importanti elementi, a partire da una prima forma di universalizzazione degli ammortizzatori sociali, occasione già persa nella precedente legislatura con il provvedimento proposto dall'ex Ministro Fornero, la prevalenza del contratto a tempo indeterminato e la drastica riduzione delle tipologie contrattuali precarie. Il prossimo passaggio sarà davvero semplificare il sistema normativo, innovato nel testo della delega, introducendo la stessa nei decreti attuativi. 
  Il Jobs Act può sconfiggere la precarietà, ma non creare occupazione, per lo meno non può crearla in maniera diretta. La tesi che per creare lavoro sia sufficiente una riforma del mercato del lavoro è stata ripetutamente smentita dalla storia. È necessario unire – e la legge di stabilità sarà un'occasione fondamentale per farlo – il nuovo quadro del mercato del lavoro a politiche reali per il lavoro. È indispensabile armonizzare i tre provvedimenti collegati tra loro: il decreto Poletti, la legge delega e la legge di stabilità. Avremmo dovuto farlo probabilmente considerando tempistiche diverse, più appropriate, per dare omogeneità. 
  È innegabile che oggi si generino alcune contraddizioni. Porto due esempi: come si concilia la possibilità di fare contratti a termine acausali e con molteplici rinnovi con il contratto a tempo indeterminato ? Allo stesso tempo, nella legge delega si insiste e si incentiva la contrattazione di secondo livello, mentre nella legge di stabilità si stabilisce un taglio importante al fondo per la contrattazione di secondo livello. Perdonerete, se vi è, come minimo, un conseguente disorientamento. 
  È un passaggio fondamentale, nell'attuale panorama contrattuale, definito giustamente una giungla, intervenire su tutte quelle forme di flessibilità in entrata, che, giuste e opportune in linea teorica, vedono oggi un abuso nell'utilizzo soprattutto da parte di quelle tantissime aziende – purtroppo la maggioranza – che non rientrano nel campo di applicazione della legge n. 300 del 1970 e di cui i lavoratori non hanno alcuna forza contrattuale o tutela sindacale, se non a posteriori, con effetti negativi sia sul mercato del lavoro che nel tessuto economico. Aziende che occupano solo ed esclusivamente intermittenti, lavoratori occasionali, associati, tirocinanti, collaboratori e che non hanno una struttura definita sono aziende che, pur sopravvivendo nell'immediato, non hanno un futuro imprenditoriale; sono aziende nate sapendo già di dover chiudere. 
  È vero che il nodo centrale, visto che la finalità della legge proposta è il rilancio dell'occupazione, è e rimane il costo del lavoro e l'incentivo alle aziende ad assumere. Ma è anche vero che l'assenza totale di una seria lotta all'evasione fiscale e contributiva e l'incentivo ad abusare delle forme di flessibilità non risolvono il problema, anzi lo aggravano. 
  Nel 2013 sono stati assunti poco più di 100 mila lavoratori a tempo indeterminato, 120 mila apprendisti, circa 237 mila lavoratori con contratto a tempo determinato. 
  Nel 2013 sono stati venduti 36 milioni di voucher per lavoratori occasionali od accessori, con una media di utilizzo di 10voucher per ogni lavoratore. La previsione per il 2014 è di 41 milioni di voucher venduti. Stiamo parlando di oltre 4 milioni di lavoratori che non solo non hanno l'articolo 18, ma che non hanno neanche la maternità, le ferie, la malattia, il TFR, i limiti all'orario di lavoro, la tredicesima e, secondo alcune interpretazioni, possono anche essere controllati a distanza. 
  I voucher acquistati telematicamente all'INPS necessitano solo di una comunicazione su un futuro possibile utilizzo nell'anno solare. 
  Se poi il lavoratore fosse occupato tutti i giorni basterebbe, in caso di controllo, dichiarare quella giornata a posteriori e tutto diventa regolare, poiché i voucher riscossi entro l'importo limite legale non costituiscono reddito e possono essere utilizzati anche a favore di lavoratori in CIG o in disoccupazione, la cosiddetta Aspi, senza che questi perdano il diritto a percepirli o che perdano eventuali contributi ed estensioni agli enti locali. 
  Si crea una complicità di fatto tra l'azienda, che paga ed occupa di fatto in nero, ed il lavoratore, che riceve retribuzioni esentasse. 
  Nell'esperienza pratica, a parte sporadici casi, questi lavoratori sono occupati normalmente negli alberghi, nei ristoranti, negli esercizi commerciali. Supponendo che questi 4 milioni di lavoratori, anziché 10 ore l'anno, ne lavorino 500, equivalente a 62 giornate a tempo pieno, poco più di un giorno a settimana, e che abbiano una retribuzione contrattuale lorda di 10 euro, arriviamo ad un'evasione fiscale e contributiva su un imponibile di 20 miliardi di euro l'anno. 
  Nei decreti attuativi sarebbe utile che si fissassero, anziché porre limiti teorici, come ha fatto la legge Fornero, limiti effettivi all'utilizzo dei voucher e si predisponessero sistemi di comunicazione preventiva, che porterebbero all'emersione di qualche milione di lavoratori, che oggi sfuggono completamente dalle statistiche sull'occupazione. 
  La nuova chiave di lettura dei contratti a termine non permette più alibi alle finta partite IVA. È necessario stabilire quando una partita IVA merita di essere utilizzata, con quali costi e quando il suo utilizzo non è opportuno. 
  Il primo spartiacque potrebbe apparire quasi banale: se una persona si autorganizza tempi e modalità del suo lavoro è una vera partita IVA; se si tratta di un contratto a tempo, magari biennale o triennale e se il lavoratore è sottoposto a turni ed orari, questa non può essere una partita IVA. 
  È necessario trovare il giusto equilibrio fra costi, richieste e tutele. Se i costi sono troppo bassi, c’è chi ne approfitta, se sono troppo alti, c’è un disincentivo all'utilizzo. 
  Siamo immersi in grandi, enormi cambiamenti, a cui dobbiamo rispondere con i valori di sempre, ma con scelte coraggiose e determinate, con culture politiche non ideologiche e non astratte, collegate con la realtà e gli interessi di base reale, che partono dai fabbisogni quotidiani di chi il lavoro ce l'ha e di chi non ce l'ha. 
  In un momento come quello che stiamo affrontando, la partecipazione che passa necessariamente dal confronto è l'ingrediente indispensabile, se si vuole pensare di uscire dalla crisi più forti e non lacerati. 
  Non ci sono più eroi, non ci sono più capri espiatori, c’è una situazione di disagio che chiama ognuno di noi nelle rispettive responsabilità e ruoli, banalmente, a fare la propria parte: amministratori, politici, associazioni ed organizzazioni sindacali, ognuno nel proprio ruolo, come dicevo, deve sentirsi chiamato ad essere protagonista in sfide nuove. Abbiamo fatto una battaglia di merito, che ci ha permesso di migliorare sotto diversi aspetti il testo licenziato dal Senato. Purtroppo, gran parte del dibattito mediatico, ma non solo, si è disgregato ed ha interessato il tema dei licenziamenti e dell'articolo 18 in particolare. Chiunque ha sentito il diritto di intervenire, da chi ne aveva e poteva averne titolo fino ad apprendisti stregoni, che hanno basato più i loro interventi sul sentito dire, sull'improvvisazione. 
  Proviamo brevemente a fare chiarezza, tenendo conto delle norme che oggi esistono. 
  È una sciocchezza, tutto sommato, affermare che nessuno vuole toccare l'articolo 18 per i licenziamenti discriminatori, anzi, bisogna estenderne la tutela a tutti. Essi infatti, da sempre, sono licenziamenti affetti da nullità sulla base di altre norme dell'ordinamento. 
  Il divieto di discriminazione e l'obbligo di parità di trattamento sono posti in generale dalla Costituzione e dal codice civile e quindi in particolare da leggi ordinarie. 
  L'articolo 18 non è nemmeno richiamato nelle normative antidiscriminatorie, non ce n’è giuridicamente alcun bisogno. 
  Il licenziamento deve essere motivato, come stabilisce l'articolo 30 della Carta dei diritti europei. 
  Una volta tanto, potremmo usare a proposito lo slogan: «ce lo chiede l'Europa». 
  È vero peraltro che la Corte Costituzionale ha detto che la reintegrazione non è l'unica forma possibile di sanzione per un licenziamento illegittimo e che spetta al legislatore determinare la sanzione appropriata, ma ha anche chiaramente detto che a chiunque deve essere riconosciuto il diritto di ricorrere al giudice. Il recupero della reintegra per licenziamento per motivi disciplinari ripristina questo diritto, che l'indirizzo possibile dei decreti attuativi avrebbe cancellato. Un elemento reale, a cui si è giunti recependo le proteste di chi ha voluto entrare nel merito del Jobs Act, lasciando ad altri la sterile polemica che ha contribuito unicamente ad esacerbare gli animi. Non restringiamo il campo ad una visione limitata, che circoscrive e riduce il provvedimento ad una frapposizione padre-figli; personalmente sono più per il modello Enea-Anchise, per rispetto generazionale e perché oggi è purtroppo sempre più vero il contrario: si supera costantemente il limite labile che passa dal welfare dei diritti ad un welfare caritatevole, confondendo la questione del diritto fondamentale con una imbarazzante, spesso mortificante, forma di elemosina. 
  I problemi giovanili sono, per ovvia ragione, accentuati dalla riforma delle pensioni: in un contesto di profonda crisi, come quello attuale, è impensabile coniugare occupazione di anziani e giovani, tenendo forzatamente al lavoro i primi, più costosi e spesso meno produttivi. Quando ci sarà disponibilità a discutere del merito, noi siamo sempre pronti e disponibili. 
  Concludo riconoscendo al Premier un nuovo coraggio, un nuovo approccio, che si incammina su una nuova strada in Europa; un nuovo protagonismo, che supera il rapporto epistolare europeo di berlusconiana memoria e quello rigido e rigoroso del professor Monti; un rapporto più coraggioso e propositivo, meno centro-teutonico: due ingredienti fondamentali per la ricetta di una nuova partecipazione al Vecchio Continente (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).